di Lucio Caracciolo da appelloalpopolo
1. L’Italia è un paese strategico che rifiuta di esserlo. Dopo più di un secolo e mezzo, il nostro Stato unitario resta un adolescente geopolitico. Puer aeternus,
fragile e perennemente incompiuto, consegnato alle altrui scelte. Peter
Pan della scena internazionale, in fuga da se stesso «perché ho sentito
papà e mamma parlare di quello che sarei dovuto diventare quando fossi
diventato uomo» 1. Anelante le irripetibili liturgie del
tempo ordinato, quando gli assi cartesiani della guerra fredda ci
assegnavano il posto a tavola, risparmiandoci di sceglierlo. O
fantasticante armoniche Europe, in cui serenamente sciogliersi in
fraternità con i vicini.
Fra l’essere e il non essere questo paese preferisce essere stato. Disposto a spezzarsi pur di non piegarsi
alla necessità di partecipare allo strategico mercato della potenza
sulla base dei propri interessi. Tutto, pur di non decidere.
Per paradosso, l’inconsistenza soggettiva moltiplica l’oggettiva importanza dell’Italia.
Ci sono infatti tre modi di contare in geopolitica: perché sei una
potenza; perché servi a una o più potenze; perché puoi danneggiare
potenze rilevanti. Noi italiani abbiamo disastrosamente sperimentato,
tra fine Ottocento e metà Novecento, l’impossibilità di aderire al primo
archetipo. Nei successivi decenni bipolari abbiamo trasformato il nostro valore d’uso per gli Stati Uniti d’America in rendita geopolitica,
in omaggio al paradigma secondo. Oggi siamo prezzati per la somma di
ciò che residua di quella rendita e dei guasti che la nostra labilità
statuale può provocare alle architetture euroatlantiche. Tertium datur: la potenza dell’impotenza.
Siamo mina vagante. In caso d’esplosione, l’onda d’urto non investirebbe solo il nostro intorno
ma toccherebbe assetti ed equilibri globali. Ciò per la massa critica
della Penisola, determinata dalla collocazione geografica, dalle
dimensioni economiche e demografiche e, non ultimo, dall’ospitare il
centro di una religione a vocazione universale. Tutto al netto di scelte
strategiche che istintivamente schiviamo. Tanto che evitiamo di
ammettere a noi stessi le responsabilità che ci derivano dalla nostra
peculiarissima condizione.
Cinque fattori misurano il rilievo dell’Italia e l’impatto delle sue (s)fortune sui protagonisti del teatro mondiale. In ordine di importanza.
A) Qui si decide il futuro dell’euro. Siamo la quantità marginale che in caso di fallimento può determinare il collasso della «moneta unica». Fattore determinante dell’interesse tedesco,
francese e degli altri eurosoci ai destini italiani. Ma anche della
vigilanza americana, dati gli effetti che il crollo dell’Eurozona
determinerebbe sulla geopolitica e sull’economia planetaria.
B) Attraverso lo Stivale filtrano i principali flussi migratori dalla giovane Africa alla vecchia Europa, che incidono sulla sicurezza, sulla stabilità, sull’identità stessa del nostro continente (carte a colori 1 e 2). Anche per questo a Berlino e dintorni siamo sorvegliati speciali.
C) In quanto piattaforma logistica nel Mediterraneo restiamo rilevanti per Washington, come testimonia la crescente presenza di truppe e di basi a stelle e strisce – depositi di bombe atomiche e centri di intelligence inclusi – pur dopo lo scadere della minaccia sovietica che inizialmente le legittimava (carta 1).
D) Siamo contemporaneamente utili a Mosca, nemico d’elezione dell’America,
non fosse che per la nostra incomprimibile russofilia, insieme
culturale e commerciale, trasversale alle ideologie politiche. Visti dal
Cremlino, siamo quanto meno un simpatico granello di sabbia nel
meccanismo atlantico (carta 2). Per la Casa Bianca, al converso,
un socio da tener d’occhio, soprattutto in quanto ci ostentiamo
spontaneamente fedeli né pretendiamo qualcosa in cambio di tanto amore.
La geopolitica del dono è esclusiva specialità italiana. Non possiamo
sorprenderci se altri – sbagliando – vi intravvedono ascendenze
machiavelliche.
E) L’Italia è infine all’attenzione della Cina perché al centro del Mediterraneo, dunque titolare potenziale del primo attracco utile nei traffici marittimi Asia-Europa. Collocazione ideale nella trama delle nuove vie della seta, ovvero della «globalizzazione alla cinese», espressa oggi sotto specie commerciale, domani forse in veste compiutamente geopolitica (carta a colori 3). Tale vantaggio posizionale diventerebbe concreto se l’Italia scegliesse finalmente un porto gradito ai cinesi su cui imperniare gli scambi sino-europei, spostandone il baricentro verso sud. Ipotesi remota (vedi sindrome di Peter Pan).
Germania, Francia, Stati Uniti, Russia, Cina: il catalogo delle potenze cui interessiamo
e sulle quali possiamo quindi influire è invidiabile. Ma per passare
all’incasso nel mercato geopolitico occorre elevare il valore d’uso a
valore di scambio. Ciò significa saper valutare il proprio patrimonio
strategico, materiale e immateriale, in rapporto a come viene percepito
dagli attori più potenti. E spenderne una quota per avanzare i propri
interessi nel negoziato permanente che definisce le relazioni
internazionali, specie dove la posta in gioco è più alta, i vincoli
reciproci più cogenti – Eurozona e Nato. Operazioni che suppongono la
capacità di definire il proprio punto di vista. Frutto a sua volta di
quella maturità statuale da cui disperatamente fuggiamo. Senza quel pur
minimo, variabile arco di alleanze, imperniate su interessi convergenti,
necessario a reggere il confronto con paesi di dimensioni analoghe o
perfino inferiori, ma capaci di associarne altri, a irrobustire la loro
taglia.
Per varcare la linea d’ombra dobbiamo emanciparci dall’idea che il nostro interesse nazionale consista nel non averne,
salvo aderire a quello, tra gli altrui, che ci pare prevalente. Gli
archivi della Farnesina testimoniano della carenza di consegne
strategiche ai nostri ambasciatori, talvolta surrogata con l’invito alla
«Signoria Vostra» di orientarsi, in caso dubbio, sulle scelte delle
«maggiori potenze» (leggi, a seconda dei contesti, Stati Uniti o
principali partner europei). Vige da noi il curioso assioma per cui non
possiamo permetterci di produrre strategia perché non siamo
sufficientemente potenti. Vero il contrario: sono le grandi potenze a
potersi concedere qualche distrazione, immergendosi in fasi di apnea
progettuale governate con il pilota automatico. Noi, che non disponiamo
delle loro risorse, siamo obbligati alla strategia. A pensare e
ripensare il nostro posto nel mondo.
Altrimenti può accadere l’assurdo: l’impiego delle risorse nazionali contro gli interessi nazionali.
È il caso delle missioni compiute dalle nostre Forze armate dopo la
fine della guerra fredda nel nostro estero vicino, che abbiamo
contribuito a destabilizzare per confermare gli americani nella certezza
della nostra devozione. In cambio di nulla. Abbiamo bombardato la Jugoslavia – impianti Fiat compresi – e persino la Libia, contribuendo a fragilizzare Balcani
e Nordafrica, ovvero le regioni che nei nostri stessi documenti
ufficiali eleviamo a decisive per la sicurezza della Penisola. E abbiamo
sparso migliaia di soldati per il mondo, dall’Oceano Indiano allo
Hindukush, senza criterio che non fosse il presunto interesse alleato a
saperci affidabili, perché noi stessi non ne eravamo troppo sicuri.
Sempre gratis. O meglio a costo del contribuente e al prezzo della vita
di alcuni dei nostri militari migliori.
La storia corre e non aspetta l’Italia.
Attendere che mamma America o papà Germania decidano per noi significa
rimetterci ai loro interessi, che spesso non coincidono e talvolta
collidono con i nostri. Oppure, in alternativa, alla loro mancanza di
attenzione, che ci abbandona alle conseguenze della nostra
irresponsabilità. Nella migliore ipotesi, cederemmo così a potenze
sperabilmente benevole la sovranità che l’articolo uno della
costituzione repubblicana assegna in teoria al popolo italiano.
Abdicheremmo alla nostra residua soggettività geopolitica proprio quando
attorno a noi cadono le foglie di fico europee e atlantiche che
mascheravano le strategie altrui. Mentre mamma e papà hanno ripreso a
litigare di brutto.
Se Washington e Berlino divergono, il cielo sopra Roma si oscura.
Non c’è più nulla di scontato né di automatico. Serve stabilire la
nostra rotta. Coscienti dei rischi che corriamo in caso di fallimento.
Ma possiamo farlo? O forse ne siamo impediti da qualche presunto
destino?
2. Come ogni organismo non solo geopolitico, anche l’Italia è soprattutto ciò che fu.
Nella sua autocoscienza i caratteri storici, strutturali, tendono a
imporsi – al netto di guerre e rivoluzioni – sulle mutazioni impresse
dalle contingenze. L’arte dello stratega consiste nel cogliere le scarse
ma decisive opportunità che il peso del passato e l’incertezza del
futuro ci lasciano nel tempo presente. La nostra riluttanza a farlo
indica che l’Italia resta incompiuta.
L’essenza di una nazione è data dalla sua sensibilità all’indipendenza.
Lo sguardo di lungo periodo conferma che il Belpaese non si è distinto
né si distingue oggi per questo. Non riusciamo nemmeno a convenire
sull’origine dell’Italia. L’oleografia nazionalista, attrezzata dal
fascismo attorno all’asse della romanità, la poneva nella riforma
territoriale d’età augustea – che riorganizzò la Penisola in undici
regioni – a sua volta figlia del processo di integrazione romano-italica
del II secolo avanti Cristo. Ma già Rosario Romeo stipulava che
«postulare una continuità della successiva storia d’Italia con quella
della romanità non può non apparire poco più che un espediente retorico» 2. Più cogente e attuale la bipartizione della Penisola sancita da Carlo Magno
– eroe eponimo della corrente Europa comunitaria – a tracciarvi una
faglia tuttora incomposta fra marche settentrionali intrinseche al cuore
del continente e terre meridionali segnate da influssi orientali e
mediterranei. Seguita in analogia dall’elevazione di Ottone I, fra il
951 e il 962, a re dei franchi e degli italici e, insieme, imperatore. A
fissare quel nesso con l’ecumene germanico e con la Chiesa cattolica
che esalterà la vocazione a un tempo universalistica e particolaristica
del nostro paese. Così compromettendone la sostanza nazionale.
In questo ambiguo patrimonio germinano le radici dell’Italia risorgimentale,
da cui discendiamo per linea diretta. Tra fine Settecento e metà
Ottocento, i primi patrioti moderni non possono richiamarsi a un’entità
geopolitica anteriore, né tantomeno invocare la convenienza geoeconomica
di unificare Stati e staterelli peninsulari. L’idea d’Italia rinasce su
basi squisitamente culturali. Romantiche. Per opera di un’élite
anzitutto piemontese che mentre innalza a criterio identitario le
frontiere «naturali» della Penisola e quelle linguistiche dell’italiano –
idioma di una esigua minoranza della popolazione, quasi esclusivamente
toscana – si esprime preferibilmente in francese. Il riferimento
dell’Italia risorgimentale è il Rinascimento, dalle cui altezze era
precipitato il nostro declino nel Sei-Settecento, che ci aveva
disconnesso dalle aree del progresso. La rappresentazione delle
trascorse glorie artistiche e letterarie legittima il nuovo Stato in
quanto contenitore di una grande civiltà. In reazione all’anatema che lo
sguardo nordico – tedesco, francese, olandese, inglese – aveva gettato
negli ultimi due secoli sull’arretratezza della Penisola e sulla
rozzezza dei suoi abitanti, misurata dai ricchi e colti protagonisti
stranieri del «viaggio in Italia» rispetto alle grandezze di un passato
tanto ammirevole quanto remoto.
Per i patrioti italiani si tratta di riscattare l’immagine del pittoresco «paese delle rovine»,
entità liminare fra Europa del progresso, attardato Oriente e Africa
selvaggia. Stereotipo negativo accentuato dalla diffusione delle teorie
proto-ambientalistiche del barone di Montesquieu, che nel suo Spirito delle leggi
(1748) fa del clima un criterio di civiltà, attribuendo ogni virtù
civile ai popoli del freddo, distinti dai pigri e servili meridionali,
italiani inclusi. Ripreso financo dal Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani
(1824), spietata perlustrazione critica dei nostri vizi atavici –
dall’asocialità al cinismo – che ci abbassano rispetto ai popoli del
Nord, giacché «sembra che il tempo del Settentrione sia venuto» 3. L’eco di questa sentenza non cessa di tormentarci.
Di qui il complesso d’inferiorità verso le nazioni transalpine
che da subito e per sempre attanaglia le classi dirigenti dell’Italia
unita, specie le più vocalmente nazionalistiche. Sindrome tradotta nella
tesi della permanente «anomalia italiana» rispetto alla superiore
«norma europea». Anche questa frustrazione, a ben vedere, è di origine
risorgimentale. Perché il progetto originario dei patrioti moderati non è
di unificare l’Italia intera, ma di costituire «un nuovo grasso Belgio
della pianura padana» 4 connesso alle nazioni settentrionali.
Cavour vuole integrare il Nord Italia per connetterlo al Nord Europa.
Per agganciare il suo vagone subalpino al convoglio della civiltà e del
progresso, guidato dalle potenze nordiche. Questo regno va costruito per
aggregazione attorno al Piemonte. Prima che Garibaldi costringesse
Vittorio Emanuele ad annettersi il Meridione, l’unità d’Italia è
concepita a Torino, noterà Luciano Cafagna, «come unificazione politica
al di sopra della cosiddetta “linea gotica”» 5.
Alla vista dei funzionari e militari piemontesi che vi si affacciano
con piglio coloniale, il Sud è alieno. «Altro che Italia! Questa è
Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù
civile», scrive il 27 ottobre 1860 a Cavour il luogotenente generale
delle province napoletane, Luigi Carlo Farini 6. Sentimento reso celebre in letteratura dal Gattopardo,
quando il cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo, spedito in Sicilia
per convincere il principe di Salina ad accettare il laticlavio nel
Senato del Regno, si scopre straniero in terra di briganti:
«L’iscrizione “Corso Vittorio Emanuele” che con i suoi caratteri azzurri
su fondo bianco ornava la casa in sfacelo che gli stava di fronte, non
bastava a convincerlo che si trovasse in un posto che dopo tutto era la
sua stessa nazione». 7
Questo rapido scavo nella protostoria dell’Italia contemporanea
ci permette di osservare la catena logico-geopolitica che limita
l’orizzonte strategico nostrano e spinge a renderci provincia altrui.
Come il Risorgimento, scartato il progetto settentrionale, unificando
l’Italia per raggiungere l’Europa svela ai piemontesi un Mezzogiorno
semisconosciuto, accentuando l’alterità fra Nord e Sud, così la
Repubblica postfascista, decisa a completare la rincorsa alle virtù
europee, scopre che partecipare dell’ambito comunitario non significa
che le nazioni boreali intendano omologarla al loro canone. Percezione
introiettata a tal punto che nel nostro politicamente corretto la
famiglia europea che ci fregiamo di aver cofondato sessant’anni fa a Roma
permane esterna (lo testimoniano «ce lo chiede l’Europa» ed espressioni
affini). A conferma che la sfera semantica di coppie valoriali come
«Europa» e «Italia», «Nord» e «Sud», cambia di molto a seconda di chi
parla. Più tentiamo di avvicinare quei poli, più si respingono.
La divergenza geopolitica ed economica lungo l’asse Settentrione/Meridione
è all’ordine del giorno sulla scala italiana come su quella europea.
Vale la pena soffermarci su questo doppio scarto, perché vi troviamo
squadernate le ragioni che ad oggi ci impediscono di fissare il nostro
interesse nazionale.
3. «Una linea gotica, mentale, per me taglia a mezzo l’Italia. Ci vivo a cavallo.
I dilemmi spirituali, dell’anima, si proiettano nella geografia. (…)
Roma è il mio essere, Milano il mio dover essere. Sogno una terza città
che le unisca (…)» 8. Nel 1948 annotava così il giovane
Ottiero Ottieri, di nascita romano («sole, disordine»), milanese
d’adozione («nebbia, precisione») 9. Sud e Nord: due universi
polarizzati tra i quali l’olivettiano Ottieri si dilania, «sperando che
non venga un giorno in cui mi spacco in due» 10. Quasi
settant’anni dopo, la metafora intimista di un intellettuale irregolare
conserva la sua pregnanza. La «terza città» resta sogno. Il dualismo che
tormenta l’Italia si acuisce. Fino a mettere in crisi i più recenti
paradigmi che distinguono Nord-Est e Nord-Ovest, o utilmente segnalano
le dissonanze fra i diversi Sud, le cangianti peculiarità del Centro e
delle trascurate aree interne.
Il solco che accentua la separatezza originaria tra Settentrione e Mezzogiorno
è scavato in parallelo da percezioni antropologico-culturali e
dinamiche socio-economiche, nell’impotenza della politica – futile,
afasica – e nella fragilità del contesto istituzionale, minato dalla
corruzione sistemica, di cui si avvantaggiano mafie e altri poteri
informali. Tutti fattori che convergono nel tarmare l’architettura
geopolitica italiana.
Quanto all’antropologia. A partire dagli anni Ottanta-Novanta dello scorso secolo,
in non fortuita coincidenza con la crisi della Prima Repubblica e la
fine della guerra fredda, è emersa al Nord la tentazione di codificare
su base geoculturale, se non etnica, la propria alterità a Roma e al Sud.
Nel senso comune alimentato dal richiamo alla Padania – evocata dal
presidente comunista della Regione Emilia-Romagna, Guido Fanti, prima
che dalla Lega di Umberto Bossi – si coagula la rappresentazione di una
diversità che nella sua versione estrema nega la stessa identità
italiana. Quel che conta e resta della Padania non è la sua
inafferrabile configurazione (carta 3), ma la delegittimazione dello Stato nazionale, a dispetto della matrice subalpina.
La questione settentrionale non consiste più solo nella diffidenza del Nord
che si vuole civile e produttivo, vocazionalmente impolitico, verso
l’inefficiente classe amministrativa incistata nella capitale e l’ignavo
Mezzogiorno. Non è più unicamente figlia di quel carattere lombardo che
«non ha voglia né tempo di dedicarsi alla politica; si occupa di affari
e non di chiacchiere», colto negli anni Cinquanta da Guido Piovene 11.
È affermazione di un’insuperabile diversità antropologica rispetto al
Sud, cui corrisponde una latente quanto poco ricambiata affinità con il
mondo germanico, o magari con l’impolitico, cantonale federalismo
elvetico. Nella sua versione alta, questa teoria memore dei postulati
geoclimatici di Montesquieu venne formulata nel 1993 per Limes da Gianfranco Miglio,
lariano aspirante svizzero: «Il mondo civile è nell’area temperata: se
ci spostiamo dove fa molto freddo, ci imbattiamo negli slavi tonti; se
puntiamo verso sud, incrociamo popoli straniti dal calore, un po’ come
quei messicani che sonnecchiano sotto il sombrero. Se io mi trasferissi
in Sicilia con la mia famiglia, in capo a due generazioni saremmo
sicilianizzati» 12.
Tesi alla quale comincia nello stesso giro di anni a contrapporsi,
specie a Napoli, in Sicilia e in Sardegna – i Sud dotati di una
tradizione «nazionale» – la rivendicazione della propria orgogliosa
identità, vestita all’estremo di tinte neoborboniche, separatiste o
indipendentiste. Nulla di simile a Roma, nemmeno sotto forma
neopontificia. Come se la «città eterna» fosse ormai consustanziale
all’Italia e ne sposasse il declino in quanto sua «eterna» capitale.
Roma entrò per ultima in Italia e sarà eventualmente l’ultima a
lasciarla.
L’economia conferma l’inasprirsi del dualismo italiano.
Specie a partire dalla crisi dell’ultimo decennio. Tra il 2007 e il
2015 il prodotto interno lordo del Sud è crollato di quasi il doppio
rispetto a quello del Centro-Nord (-12,3% rispetto al -7,1%) 13.
In termini di pil pro capite, quello meridionale vale poco più della
metà del centro-settentrionale, mentre la caduta dei consumi nelle fasi
acute della recessione, tra 2008 e 2014, è stata al Sud di due volte e
mezzo superiore rispetto al resto del paese, quella dell’occupazione
addirittura sestupla (-9% contro -1,4%) 14. Per misurare
l’irredimibilità del divario, si consideri che per azzerarlo, postulando
una crescita annua del Sud dello 0,4% superiore a quella del
Centro-Nord, occorrerebbe attendere l’anno 2243.
Inoltre, a nord della linea gotica buona parte del nostro sistema industriale è integrato nella catena del valore tedesca. L’interscambio fra Settentrione e Germania
valeva 87 miliardi di euro nel 2016, contro i 15 del Centro e i 7 del
Sud. Allo stesso tempo, senza una solida ripresa del Mezzogiorno il
Centro-Nord resta severamente penalizzato: il mercato meridionale vale
per la parte più ricca d’Italia il triplo delle esportazioni nei paesi
dell’Unione Europea. Nel contempo, si è rovesciato lo storico sbilancio
demografico a favore del Sud, dove ormai si fanno meno figli che al
Nord. Per tacere dell’enorme dislivello nelle infrastrutture, nei
trasporti, nella scuola e nei servizi sociali – in Campania e in
Calabria solo due bambini su cento frequentano l’asilo nido.
Se passiamo alla scala continentale, osserviamo come alla deriva del dualismo nazionale
si correli l’allargamento della forbice Italia/resto d’Europa.
Ripartiamo dall’economia. Negli anni di crisi il divario cumulato con
l’Eurozona è stato di 9 punti, con l’Unione Europea di oltre 11.
L’Italia è l’unico grande paese europeo in cui la dinamica della
produttività negli ultimi 14 anni è stata negativa. Quanto al tasso di
occupazione, il differenziale con l’Ue nel periodo 2000-2015 è
quadruplicato, passando da 4 a 16 punti (quello del Mezzogiorno da 20 a
30). Dalla fine degli anni Novanta a oggi si è consolidato il distacco
fra la crescita italiana e quella delle principali economie continentali 15.
Quasi un dualismo intraeuropeo, con le «cicale» mediterranee a fare
corona all’Italia. Effetto non solo delle politiche fiscali intrinseche
all’Eurozona o della «globalizzazione» che ha automaticamente ridotto le
dimensioni dell’Italia nella competizione internazionale, ma anche dei
limiti strutturali del nostro sistema industriale, a partire dalla
scarsità di capitali e dalla modesta disposizione al rischio dei nostri
imprenditori. Con lo smantellamento dell’economia mista, la fine della
grande impresa imperniata sul triangolo Milano-Torino-Genova – talvolta
sacrificata sull’altare di scriteriate privatizzazioni che hanno portato
settori strategici sotto controllo straniero, specie tedesco o francese
– il nostro sistema economico ha perduto in coesione e in
competitività.
Ci resta, tra Nord e Centro, un diffuso tessuto di imprese medio-piccole,
alcune di classe mondiale. Capitalismo leggero, di qualità, grazie al
quale ci fregiamo del titolo di seconda potenza manifatturiera europea.
Ma in geopolitica l’identico volume fatturato da una grande impresa, da
dieci medie o da cento piccole ha un peso specifico diverso. I «campioni
nazionali» non servono solo l’economia, ma irrobustiscono l’influenza
geopolitica, spesso anche culturale, del paese d’origine.
L’Italia ha perso il passo del cuore geoeconomico d’Europa,
mentre il nostro Nord, che tenta di restarvi agganciato, ma in postura
subordinata, non traina più il paese. Visti da Berlino e dalle
«formiche» nordiche siamo uno Stato sull’orlo del fallimento. Il residuo
cordone ombelicale che ci lega in ambito comunitario, la paura
dell’ignoto e il timore che lasciati a noi stessi si sia tentati dalla
pirateria (leggi: svalutazione della moneta) hanno finora frenato la
tentazione di sganciare il vagone tricolore dal convoglio eurogermanico.
Ma l’illusione del vincolo esterno, elaborata a Prima Repubblica
spirante da Guido Carli, Carlo Azeglio Ciampi e Beniamino Andreatta,
fondata sul pessimismo circa gli istinti animali degli italiani, è
scaduta. Ci aveva creduto persino il cancelliere Helmut Kohl, il quale,
contro gran parte dell’élite tedesca, volle includerci tra i soci
fondatori dell’euro, fidando forse nelle virtù pedagogiche della
politica monetaria more germanico. Della quale, specie dopo la
crisi del 2008, cogliamo gli aspetti per noi depressivi, l’altra faccia
di un euro a misura della potenza commerciale tedesca.
Curioso, quanto rivelatore, che ad anticipare il certificato di morte del vincolo esterno
sia stato nel 2011 Mario Draghi, l’esponente di massimo successo della
scuola europeista inaugurata dai suoi mentori Carli e Ciampi. Poco prima
di lasciare la Banca d’Italia per Francoforte, l’attuale presidente
della Banca centrale europea mise a verbale: «Una nostra tentazione
atavica, ricordata da Alessandro Manzoni, è di attendere che un esercito
d’Oltralpe risolva i nostri problemi. Come in altri momenti della
nostra storia, oggi non è così. È importante che tutti i cittadini ne
siano consapevoli. Sarebbe una tragica illusione pensare che interventi
risolutori possano giungere da fuori. Essi spettano a noi» 16.
4. Mentre l’Europa germanica si allontana e il solco tracciato dalla linea gotica s’approfondisce, l’Africa s’avvicina. Il flusso dei migranti attraverso il Mediterraneo si dirige ormai per l’80% verso l’Italia, dopo che il patto Merkel-Erdoğan
– capolavoro del metodo tedesco di spacciare per europee iniziative
nazionali – ha disseccato il canale turco-greco-balcanico. Tra il 1°
gennaio e il 20 aprile di quest’anno sono sbarcate dall’ex Libia in
Italia quasi 37 mila persone in fuga dalla miseria e dalle guerre,
provenienti soprattutto dalla Nigeria e da altri paesi dell’Africa
occidentale – un decimo addirittura dal Bangladesh – oltre un quarto in
più rispetto allo stesso periodo del 2016. Per la fine dell’anno gli
sbarchi in Italia potrebbero superare quota 200 mila, linea rossa oltre
la quale secondo il nostro governo può scattare un’emergenza sociale e
di ordine pubblico difficilmente gestibile (grafici 1-3, carta 4).
Dei tre slittamenti geopolitici che investono lo Stivale questo è il più strutturale e il meno governabile.
Giacché la spinta a rischiare la vita negli esodi transmediterranei è
alimentata in buona misura da fattori climatici e demografici
insensibili, nel breve-medio periodo, a qualsiasi politica. In
particolare, la transizione demografica ritardata – ovvero il mancato
calo della fecondità femminile atteso seguire la diminuzione della
mortalità – produce in diversi paesi dell’Africa subsahariana, come in
Nigeria e in Niger, un surplus di popolazione giovane determinata a
emigrare a qualsiasi costo. Tale fattore, incrociando la decomposizione
degli Stati africani che apre formidabili vuoti di potere e alimenta le
dispute fra chi ambisce a occuparli, segnala un sisma geopolitico di
lunga durata.
Fra i paesi europei, impreparati allo shock e nevrotizzati dal terrorismo jihadista,
s’è perciò aperta una feroce competizione per scaricare sui vicini
quella che viene percepita come minaccia esistenziale al benessere, alla
coesione sociale, alla stessa identità nazionale. Sicché l’Italia si
trova compressa fra la corrente migratoria da sud e la scelta dei nostri
vicini settentrionali – Francia, Svizzera, Austria, con alle spalle la
Germania – di inasprire i controlli alle frontiere. Risultato: il 90% di
chi sbarca in Italia ci rimane. Quasi sempre allo sbando, vittima di
organizzazioni criminali e di sfruttamento selvaggio, specie nelle
campagne del Mezzogiorno dominate dal caporalato. L’assenza di un piano
nazionale per l’integrazione degli immigrati –campo nel quale il nostro
governo non intende arrischiarsi per timore dell’impopolarità –
congiunta alla totale mancanza di solidarietà su scala comunitaria,
genera xenofobia ed eurofobia. Derive fino a ieri impercettibili nel mainstream della nostra opinione pubblica.
La partita decisiva, ancora una volta, la giochiamo con la Germania.
Sul fronte nord: è anzitutto da Berlino che passa la possibilità di
allentare il sistema di Dublino, per cui al primo Stato comunitario di
ingresso (leggi: Italia e, molto meno, Grecia) tocca gestire le domande
di asilo. Sul fronte sud: a differenza di Francia e Gran Bretagna, e
nell’indifferenza degli Stati Uniti, la Germania è l’unica potenza
euroatlantica impegnata nel contenimento del caos libico. Con esiti
quasi nulli. Qui Roma impegna il massimo sforzo con il minimo risultato.
Fino a convocare al Viminale una variopinta delegazione di capi locali
del Fezzan – profondo Sud libico – per indurli, dietro compenso
garantito anche da fondi Ue, a farsi guardiani del deserto, filtrando i
corridoi migratori risalenti dal Sahel. Ma individuare nella baraonda
libica chi possa fare il lavoro sporco una volta assicurato da Gheddafi è
impresa disperata.
Per l’Europa centro-settentrionale, l’Italia dovrebbe ergersi ad ultima barriera
di un sistema di dighe deputato a ostacolare o almeno deviare la
pressione migratoria che sale dall’Africa. Quello che noi chiediamo ai
fezzanini Berlino l’ha ottenuto dai turchi e ora l’attende dagli
italiani. Le probabilità che Roma induca nei tribali del Sahara o in
qualche milizia tripolitana comportamenti simili a quelli che Merkel ha
strappato a Erdoğan paiono esigue. Nemmeno la revisione del
regolamento di Dublino in senso a noi favorevole, su cui negoziamo con
gli eurosoci, si prospetta agevole. Non è dunque da escludere che,
stretta nella tenaglia nord-sud, l’Italia azzardi una fuga in avanti,
passando al respingimento attivo di chi tenta di varcare il Canale di
Sicilia. Fino a schierare propri soldati in Tripolitania. L’esito di
tale avventura sarebbe scritto: riusciremmo a riunire contro di noi
tutte le fazioni libiche, a partire da quelle che vorremmo far lavorare
per noi.
5. L’Italia deve venire a patti con la realtà.
Chiudere la forbice fra oggettivo rilievo e carenza di soggettività.
Costituirsi in attore geopolitico, che come ogni altro, non importa se
grande o piccolo, protegge i propri interessi nella competizione e nel
compromesso con gli altrui. Nulla di straordinario: la norma delle
relazioni internazionali. Pretendersi Stato per farsi eterodirigere da
altri Stati, i quali correttamente perseguono le loro priorità, questa
sì è impresa eccezionale.
Nell’Italia della guerra fredda, che volle espungere il lemma «nazione» dal gergo ufficiale,
abbiamo paradossalmente identificato interesse nazionale e
nazionalismo. Il primo prevede la sobria definizione dei propri
obiettivi in rapporto alle risorse disponibili e alle costellazioni
geopolitiche vigenti. Il secondo è enfatico volontarismo costruito sulla
rimozione dei dati di fatto su cui prima o poi s’infrangono i suoi
deliri di potenza. Negli ultimi vent’anni abbiamo legittimato
l’interesse nazionale, però in chiave solo retorica. Per il divertimento
di amici e avversari, i quali vi hanno riconosciuto la conferma di
un’antica pulsione nostrana: la narrazione come surrogato dell’azione.
Si obietterà che il nostro deficit di statualità ci impedisce di diventare normali.
È alibi. Le istituzioni italiane sono deboli e poco legittimate, certo.
Ma gli italiani esistono, pur nelle loro identità multiple. E come tali
vengono percepiti dagli altri popoli, molto meno attenti di noi alle
vere o artefatte varietà regionali, alle declinazioni dialettali
dell’autocoscienza nazionale. Chi argomenta contro l’interesse nazionale
dovrebbe dimostrare che agli italiani conviene sciogliere le residue
istituzioni unitarie per integrarsi in domini esterni oppure
frammentarsi in staterelli «omogenei». Come tali estranei alla regola
delle liberaldemocrazie occidentali, fondate almeno formalmente sullo
Stato nazionale eterogeneo. Davvero conviene a lombardi e/o veneti –
chiamati nell’immediato futuro a esprimersi in referendum ambiguamente
autonomistici – emanciparsi dall’Italia per diventare i ticinesi della
Piccola Europa che pare aggregarsi attorno alla Germania? L’ambizione
dei siciliani è di costituirsi in Stato mafia indipendente? I napoletani
aspirano alla repubblica del Vesuvio?
Parrebbe più saggio irrobustire la repubblica mentre ne ridefiniamo il profilo sulla scena internazionale. Anzitutto nel nostro continente. Indulgiamo a lamentare la disgregazione dell’Unione Europea,
perdendone di vista l’altra faccia: la riaggregazione – oggi informale,
domani forse marcando nuovi confini – in aree d’influenza disegnate da
affinità culturali, geostrategiche ed economiche. Con al centro lo Stato
tedesco, semiconduttore dei flussi di potenza che strutturano i precari
equilibri europei quanto restio, finora, a dotarsi di una strategia
corrispondente ai suoi mezzi e alle sue responsabilità. Troppo potente
per accomodarsi ancora alla riduzione a satellite americano sancita
dalla sconfitta nelle due guerre mondiali e più o meno felicemente
accettata dalla Bundesrepublik originaria, appunto occidentale. Troppo
debole e introverso – dunque non imperiale – per federare il vasto,
disomogeneo e instabile spazio comunitario. Ciò presupporrebbe mitigare
la vena mercantilista e disporsi alla redistribuzione delle risorse a
favore delle province più arretrate della propria sfera d’influenza. Chi
lo propone in Germania fa figura d’eccentrico.
Se non corretta, l’inerzia di tali dinamiche porta Berlino a confliggere con Washington,
a riavvicinarsi per conseguenza a Mosca (antico riflesso geopolitico) e
a fissare quanto più a sud possibile la frontiera con il Mediterraneo,
percepito come fonte di minaccia – instabilità, migranti difficilmente
integrabili, terrorismo jihadista, guerre. Di qui il recupero
dell’Euronucleo (Kerneuropa) – vecchio cavallo di battaglia di
Wolfgang Schäuble quando (1994) si trattava di scongiurare
l’annacquamento mediterraneo dell’euro centrandolo sul triangolo
Germania/Francia/Benelux. Stavolta come compiuta entità geoeconomica,
estesa ai paesi afferenti alla sua catena del valore industriale e alla
sua cultura fiscale, in futuro forse pienamente geopolitica: vera e propria Geuropa.
Tale orizzonte è incompatibile con la storica priorità americana – e
per quel che ancora vale, britannica – di scongiurare la nascita di una
potenza tedesca filorussa (e filocinese?) capace di dominare l’Europa o
anche solo di parlare in suo nome.
Noi italiani non siamo sufficientemente consapevoli di quanto la tendenza a strutturare una sfera d’influenza germanica – pur ancora magmatica, non discendente da un geometrico Generalplan – e le reazioni americane a tale scenario possano incidere sul nostro paese (carta a colori 4).
Fino a spaccarlo, in caso di adesione della macroregione padana al
nuovo/vecchio insieme eurogermanico. O a farne terreno di scontro fra
americani e tedeschi, ciascuno con i rispettivi affiliati, mentre nel
Mediterraneo infuria la tempesta.
Ecco perché ci serve l’Italia.
Note
1. J.M. Barrie, Peter Pan, New York New York 2014, Puffin Books, p. 32: «It was because I heard father and mother», he explained in a low voice, «talking about what I was to be when I became a man».
2. Cfr. R. Romeo, Italia mille anni. Dall’età feudale all’Italia moderna ed europea, Firenze 1981, Le Monnier, p. 7.
3. G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, Milano 2017, Feltrinelli, p. 74.
4. L’espressione è dello storico Adolfo Omodeo, citata in L. Cafagna, Nord e Sud. Non fare a pezzi l’unità d’Italia, Venezia 1994, Marsilio, p. 19.
5. Ibidem.
6. Carteggi di Camillo di Cavour: La Liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d’Italia, vol. III (ottobre-novembre 1860) Bologna 1952, Zanichelli, p. 208.
7. G.Tomasi Di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano 1969, Feltrinelli, p. 155.
8. O. Ottieri, La linea gotica. Taccuino 1948-1958, Parma 2001, Guanda, p. 23.
9. Ivi, p. 93.
10. Ivi, p. 82.
11. G. Piovene, Viaggio in Italia, Milano 2003, Baldini e Castoldi, p. 94.
12. G. Miglio, «Ex uno plures», Limes, «L’Europa senza l’Europa», n. 4/1993, p. 178.
13. Cfr. Rapporto sull’economia del Mezzogiorno, Svimez, 2016.
14. Cfr. Rapporto sull’economia del Mezzogiorno, Svimez, 2015.
15. Vedi nota 13.
16. Cfr. P. Pica, «Draghi: “l’Italia deve salvarsi da sola”», Corriere della Sera, 12/10/2011.
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