mercoledì 3 marzo 2010

Il braccio violento della psichiatria


da il Manifesto

In una stanza al primo piano della clinica universitaria di Roma, l'11 aprile del 1938, un uomo sulla quarantina canta a squarciagola e urla che lo stanno uccidendo. L'uomo è stato fermato qualche giorno prima alla stazione ferroviaria da un paio di agenti, che lo hanno trovato abbastanza stravagante da sottoporlo all'esame dei medici. I medici, a loro volta, gli hanno diagnosticato una schizofrenia. La stanza in cui ora è disteso sul lettino viene sorvegliata dagli infermieri, mentre all'interno il dottor Ugo Cerletti gli strofina le tempie con un tampone e gli dice di stare tranquillo. Sono le undici e un quarto del mattino. Dopo tre scosse di corrente alternata l'uomo non muore, in effetti, ma non manifesta neppure le convulsioni epilettiche che Cerletti confidava di procurargli. A farsi venire in mente di curare la schizofrenia con quelle convulsioni era stato, solo due anni prima, l'ungherese Ladislas von Meduna, ma sembra che sia l'intero decennio a credere nella possibilità di sconfiggere le patologie nervose con la somministrazione di una dose scientifica e sperimentale di distruzione. Se le terapie di shock erano già inscritte nel corredo cromosomico della scienza psichiatrica e nel passaggio, operato da Esquirol, dal trattamento morale di Pinel al metodo della perturbazione, sono proprio gli anni '30 del '900 a decretarne il successo. Ci ha già provato con l'insulina il viennese Manfred Joshua Sakel, nel 1933, opponendo alla schizofrenia l'induzione di un ciclo di novanta stati di coma ipoglicemico. Poi è stata la volta di Meduna, con l'iniezione per via endovenosa di un succedaneo della canfora, il cardiazol, che un momento prima di scatenare la crisi epilettica procurava all'alienato una vera e propria esperienza del trapasso.

Mario Fiamberti, nel 1937, riformava il recentissimo sistema di trapanazioni e lobotomie messo a punto dalla psicochirurgia portoghese per praticare una iniezione di alcol direttamente nel lobo prefrontale, al quale accedeva perforando le orbite dei pazienti con ago e martello. Dunque, quando l'uomo sorpreso in sintomatologia di reato alla stazione di Roma si distende sul lettino, il dottor Cerletti sta semplicemente sperimentando un trattamento più umano di quanto non lo siano quelli predisposti dal paradigma terapeutico dell'epoca, connaturato - si direbbe - al valore della guerra come unica igiene del mondo. Se l'ipotesi di mobilitare l'epilessia contro l'insensatezza gliel'ha suggerita Meduna, in una genealogia della cura quantomeno equivoca ma confortata dal precedente dei malati di paralisi progressiva guariti in seguito all'inoculazione della malaria (un precedente che nel 1927 è valso il Premio Nobel al neurologo austriaco Julius Wagner von Jauregg), ora un'idea assolutamente originale lo coglie nel corso di una visita al mattatoio di Roma. Nei maiali elettrizzati prima di venire uccisi, infatti, Cerletti riconosce le stesse convulsioni che da tempo andava cercando nei suoi esperimenti sui cani ed è solo così, grazie ai maiali, come lui stesso preciserà dieci anni dopo, che nell'autunno del 1938 la ditta Arcioni di Milano può mettere in commercio una valigetta che contiene il contributo dell'Italia fascista allo sviluppo della psichiatria mondiale: l'elettroshock.
Ma il 1938 è soprattutto l'anno delle leggi razziali, che si abbattono come una mannaia sui maggiori centri di diffusione della psicoanalisi, la più avanzata e combattiva tra le possibilità di interferenza al programma di assoggettamento della malattia mentale al controllo tanto assoluto quanto ingiustificato della medicina. Un programma, questo, che molti anni prima di trovare nell'elettroshock lo strumento più adatto a rimuovere qualsiasi implicazione soggettiva dal rapporto tra medico e paziente, si era già imposto nella storia della scienza unitaria al momento della costituzione della Società italiana di freniatria, nel 1873. Freniatria, appunto, che della psichiatria cambiava solo il nome per rimarcare il proprio distacco da una radice etimologica che si era coniugata nella tradizione dei poeti, dei santi e dei filosofi. Perché adesso l'origine di tutto ciò che si manifestava alla superficie dei comportamenti e delle curvature esistenziali andava scovata «nella trama intima dei tessuti», vincolando la ricerca all'ambito delle localizzazioni e delle lesioni della corteccia cerebrale. Con l'affermazione dell'organicismo, però, mentre i compiti che si era assunto in sede congressuale si trasferivano progressivamente nel campo d'azione della neurologia, allo psichiatra non rimaneva molto altro da fare che governare la vita dei manicomi. Un governo nobilitato dalle aperture esclusivamente teoriche ai modelli dell'open-door e del no-restraint, ma che di fatto si riduceva all'impiego di un armamentario ottocentesco che anche i giornali, all'inizio del '900, cominciano a denunciare.
Da qui, dalla paradossale contemporaneità di una impostazione teorica integralmente organicista e di una legge che nel 1904 riconosce alla psichiatria un potere assoluto nella somministrazione di sbarre, catene, «camiciole», bagni terapeutici e punizioni corporali, parte la storia che Valeria Babini ha ricostruito in Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento. Una contemporaneità, questa, che rimarrà inalterata fino al 10 maggio del 1978, quando la Commissione igiene e sanità del Senato presieduta da Adriano Ossicini approverà la legge n. 180 in materia di trattamenti sanitari obbligatori. Così, il lavoro di Babini si può leggere anche come una rassegna di appuntamenti mancati e di ritardi endemici, legittimati ogni volta dalla riaffermazione di una fede nel modello anatomo-patologico che proprio in mancanza di una applicazione diretta sulla cura degli internati ne perpetua l'esclusione. Anche quando i due conflitti mondiali e l'emergenza delle «nevrosi di guerra» non lasciano più dubbi sul fatto che le emozioni possano essere altrettanto devastanti delle alterazioni morfologiche, la psichiatria italiana resta indifferente al vento di riforme che pure attraversa il Portogallo, l'Inghilterra, la Norvegia, la Svezia, gli Stati Uniti, la Francia e la Germania. Per modificarne gli assetti, allora, bisognerà attendere che il manicomio finisca nelle mani di uno psichiatra detto «il filosofo» e estraneo alla vita accademica, a ulteriore conferma di una verità che - anche in questi giorni di celebrazioni - rischia di non risultare abbastanza clamorosa. Perché uno dei meriti principali della ricerca di Valeria Babini consiste proprio nell'aver documentato come le condizioni disumane in cui sono stati tenuti i pazzi, prima di Franco Basaglia, non abbiano solo a che fare con un generico meccanismo di controllo sociale, ma chiamino direttamente in causa le responsabilità, la legge e i criteri di promozione del luogo in cui venivano mistificate: l'università italiana.

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