L'articolo è precedente agli sviluppi odierni della situazione egiziana, ma è interessante leggerlo per la parte concernente la descrizione degli assetti politici e sociali all'interno dei quali si svolge il conflitto, ed anche per la puntuale riscotruzione delle dinamiche che hanno portato alla deflagrazione del conflitto stesso
di Marco Alloni da Nazione Indiana
Mohammad
Morsi è stato democraticamente eletto. Non è vero. Le elezioni che
l’hanno portato alla presidenza non erano né trasparenti né
democratiche. Le irregolarità andavano dalle pressioni esercitate
davanti alle urne da membri della Fratellanza per impedire l’accesso ai
sostenitori di Shafiq, a decine di migliaia di voti multipli, a
decine di migliaia di voti di elettori non registrati, a massive
diserzioni da parte degli ispettori, a una pressoché totale latitanza
dei cosiddetti osservatori stranieri. Per non parlare dei 30 milioni di
regalie in forma di cibarie offerte in un capillare voto di scambio
all’elettorato più indigente e a quella che lo scrittore Alaa Al-Aswani
chiama la “manipolazione degli analfabeti” (40% del paese), la
circuizione sistematica di centinaia di migliaia di cittadini a cui
veniva incultata la convinzione che un voto contro Morsi rappresentava
un “insulto all’Islam”. Ma soprattutto non va dimenticato che, non
esaurendosi una democrazia nelle urne, un presidente “democraticamente
eletto” non per questo è un presidente democratico. E siamo quindi al
secondo punto.
Morsi è stato deposto da un colpo di Stato. Non è
vero, o almeno non è corretto affermarlo aproblematicamente. Rigore per
rigore, un colpo di Stato non viene infatti soltanto concluso da una
giunta militare, ma promosso da una giunta militare. E in Egitto a
promuovere il cosiddetto “golpe” non è stato l’esercito, ma il popolo.
D’altra parte le modalità e le dinamiche della destituzione di Morsi
erano identiche a quelle della deposizione di Mubarak, tant’è che in un
caso come nell’altro si è parlato di “rivoluzione”: di “prima”
rivoluzione e di “seconda” rivoluzione. Ironia vuole però che
l’Occidente non abbia alcuna difficoltà a qualificare come “rivoluzione”
il colpo di Stato di Nasser del 1952, come “rivoluzione” l’abbattimento
del regime di Mubarak, ma non riesca a non qualificare “golpe” la
seconda grande ondata rivoluzionaria del 30 giugno (la più massiccia
nella storia egiziana). L’argomento più specioso non è tuttavia quello
secondo cui andrebbe definito “golpe” qualsiasi intervento militare
porti alla deposizione di un presidente “democraticamente eletto” –
andrebbe altrimenti, semanticamente parlando e a rigore, definita tale
anche la Resistenza italiana supportata delle truppe americane – ma
quello che vorrebbe la sollevazione egiziana un effimero fenomeno di
facciata per coprire presunti piani eversivi dell’esercito. E siamo al
terzo punto.
Il generale El-Sisi ha assunto le redini del potere.
Non è vero, o almeno non è vero per il momento e non lo è
istituzionalmente. E se non è vero per il momento e non lo è
istituzionalmente – il presidente ad interim si chiama infatti Adly
Mansur ed è un ex presidente della Corte Costituzionale – è d’obbligo
considerare i dovuti distinguo. Tanto per cominciare non si capisce
perché i media occidentali non parlino mai della piazza come una nuova
entità storica e politica. Nemmeno di fronte a 33 milioni di
manifestanti pacifici – tale è stato il sommovimento del 30 giugno – si
vuole riconoscere che a partire dal 25 gennaio 2011 il destino politico
dell’Egitto non può estromettere il popolo e né può prescindere da esso.
Con singolare paternalismo si vorrebbe invece che dopo 60 anni di
dittatura l’Egitto transitasse verso la democrazia senza colpo ferire:
dimenticando che né Zapata né Lenin realizzarono le loro rivoluzioni con
i mazzi di fiori. La vulgata secondo cui la democratizzazione
dell’Egitto dovrebbe prescindere – caso unico nella storia – dal
sostegno delle armi ha dunque qualcosa di così virginale da rasentare il
grottesco. Chi dovrebbe infatti, in questa delicatissima fase in cui ci
troviamo oggi, difendere le istanze rivoluzionarie e accompagnare la
transizione, se non l’esercito e la polizia? Qualcuno può
responsabilmente immaginare che Morsi si sarebbe fatto da parte – come
d’altronde richiestogli a più riprese dalla stessa giunta militare prima
del 30 giugno – attraverso una cortese supplica in carta bollata? Dire
che El-Sisi ha assunto le redini del potere significa ignorare che
l’alternativa era la guerra civile e che, all’infuori di una astratta
petizione di principio pacifista, una soluzione meno indolore non
esisteva. Ma soprattutto significa ignorare che il processo
rivoluzionario non si era concluso con la caduta di Mubarak e non si
concluderà con la caduta di Morsi, anche se entrambe fondamentali per la
sua realizzazione. Il suo compimento – lungo, faticoso, doloroso – non
può prescindere quindi, almen per ora, dal sostegno militare. A meno che
si voglia sostenere che nel corso di un anno Morsi abbia davvero
promosso la democratizzazione del paese – cioè risposto alle richieste
rivoluzionarie della piazza – e non viceversa egemonizzato tutte le
istituzioni replicando, di fatto, in forma islamica, il regime
illiberale di Mubarak. E che quindi – a dispetto di ogni Realpolitik –
dovesse concludere il proprio mandato e portare il paese a uno sfascio
definitivo. Nel qual caso non servirebbe ricordare che: ha islamizzato
la Consulta e le due camere del Parlamento (poi disciolto), ha collocato
i suoi uomini in quasi tutti i governatorati, ha fatto redigere una
Carta costituzionale respinta da tutti i più esimi costituzionalisti del
paese, ha promosso una delegittimazione della magistratura, ha occupato
tutti ministeri e i media, ha “fratellizzato” tutti gli organi di
garanzia del paese, ha favorito la discriminazione delle minoranze e il
conflitto interconfessionale, ha riportato in auge le torture e le
incarcerazioni arbitrarie, ha condotto a morte oltre cento persone in un
solo anno e in definitiva ha realizzato quindi, invece di un progetto
politico, una serie di “piccoli golpe” che nessuno in Occidente si è
sognato di riconoscere né di stigmatizzare (perché finché non ci scappa
il morto di Egitto non si parla e perché l’impressione ipnotica
suscitata dalle “elezioni democratiche” ha steso una sorta di cappa
misericordiosa sopra tutti i soprusi successivi). Non si dimentichino
poi le varie imputazioni di ordine penale che la magistratura sta in
questi giorni valutando: fuga dal penitenziario con l’appoggio di membri
di Hamas, scarcerazione di terroristi e loro legittimazione sociale,
favoreggiamento delle formazioni integraliste (nel solo Sinai si contano
tra i 4000 e i 6000 jihadisti in libera circolazione), custodia di
arsenali nelle sedi della Fratellanza, accordi segreti con
l’amministrazione Obama per cedere 40% del Sinai ai palestinesi in
cambio di 8 miliardi di dollari in consonanza con il piano di
colonizzazione dei Territori da parte di Israele... Insomma, quel che si
dice un presidente di specchiata democraticità. Al quale, appunto, non
solo si sarebbe dovuto concedere di concludere il proprio mandato ma,
una volta deposto, offrire anche l’agio di guidare la rivolta anti-Sisi
in piena libertà – come richiesto dall’irreprensibile Catherine Ashton e
dall’incomprensibile Emma Bonino – nonché il diritto di considerare
“legittimo” rispondere con la violenza alla sua destituzione. E siamo al
quarto punto.
Molti sostenitori di Morsi sono stati uccisi dalla
polizia con colpi di arma da fuoco. Non è vero. O almeno non che una
simile notizia possa veicolare un messaggio cogente. Riferita in questi
termini e senza l’opportuna contestualizzazione – ed è qui che si annida
l’equivoco terminologico – si direbbe infatti che la polizia abbia
usato il pugno di ferro assecondando la propria tradizionale
intolleranza e astenendosi da ogni tentativo di soluzione pacifica. In
verità i fatti sono più sfumati e una lettura meno categoriale ci impone
di riconoscere che: a) Il raduno in piazza Rabaa Al-Adawyia dei
sostenitori di Morsi non è mai stato attaccato b) Il loro sit-in era
stato arginato dai blindati perché i manifestanti non potessero avere
accesso alle vicinanze della sede della Guardia Repubblicana, già presa
d’assalto in precedenza, e ai luoghi in cui erano in corso le
manifestazioni in sostegno a El-Sisi c) Ai manifestanti era stato
chiesto di sgomberare il presidio di Rabaa Al-Adawyia entro 48 ore d)
Gruppi di sostenitori di Morsi hanno aggirato la cintura dei militari e,
attraverso vie laterali, raggiunto la lunga arteria in cui sorge il
mausoleo di Sadat cercando di spingersi fino al secondo cinturone di
militari che presidiava il ponte 6 Ottobre e) Tali gruppi hanno tentato
di ostruire il ponte con blocchi di cemento e lanciato pietre conto le
forze dell’ordine f) Le forze dell’ordine hanno cercato di disperderli
con gas lacrimogeni g) I rivoltosi non sono arretrati e sono cominciati
gli spari, dalle due parti (i manifestanti erano dunque armati). A
questo punto le versioni si dividono: i pro-Morsi affermano che la
polizia avrebbe aperto il fuoco per prima, il ministero degli Interni
assicura invece che gli agenti non hanno sparato un solo colpo e il
centinaio di morti (sulle cifre non c’è chiarezza) sarebbe stato
provocato da abitanti anti-Morsi del quartiere adiacente. Tutte e due le
versioni sono probabilmente false, ma quel che conta è che gli
islamisti hanno cercato lo scontro e con ogni probabilità – secondo una
lettura condivisa da tutti gli studiosi dell’Islam politico – mirato al
martirio: forma tradizionale di delegittimazione delle forze armate e
garanzia (tanto più nel mese di Ramadan) di un accesso privilegiato al
Paradiso (“La morte sulla via di Dio” aizzava la piazza nei giorni
precedenti il confratello Asim Abdel Meguid “è la più dolce delle
morti”). Ora, le interpretazioni esulano da una lettura oggettiva dei
fatti. Ma le ovvietà precedono le interpretazioni: che interesse avevano
la polizia o l’esercito a compiere una mattanza? L’informazione
evenemenzialista non se ne cura, ma proprio questo evenemenzialismo –
lungi dal favorire una comprensione degli eventi – veicola il loro
fraintendimento: se la polizia spara ad altezza d’uomo commette un
crimine. Punto. Senonché di fronte a un’aggressione armata, di fronte a
un tentativo di sabotaggio, gli agenti americani sparano, mentre quelli
egiziani dovrebbero limitarsi alla dissuasione verbale o all’uso di
lacrimogeni (forse qualcuno ricorderà che i lacrimogeni del 25 gennaio
2011 inasprirono la rivolta molto più di quanto la contennero). Un
singolare apriorismo vorrebbe dunque che se un’azione violenta è
promossa da cittadini comuni sia da rubricare come “protesta”, mentre se
è respinta da agenti in divisa sia imperativo stigmatizzarla con il
protocollare “condanniamo l’uso eccessivo della forza”. Un monito a
corrente alternata in cui l’aggettivo eccessivo ha una sonorità al
limite del caricaturale. Che cos’è eccessivo, signora Ashton? Sparare
alla fronte o uccidere più di dieci persone? Da qualche parte deve
esserci un manuale a cui non abbiamo accesso: lì è indicato se di fronte
a un’aggressione armata bisogna sparare alle gambe, alle braccia, alle
orecchie o astenersi dallo sparare per non incorrere in un atto
eccessivo. E siamo al nostro quinto punto.
Il paese è spaccato in
due e si trova sull’orlo di una guerra civile. Nemmeno questo è vero. Il
paese non è affatto spaccato in due, se non sugli schermi di Al-Jazeera
e sulle pagine del sito Ikhwanonline, e non è affatto sull’orlo di una
guerra civile. Perché da una parte ci sono 33 milioni di persone e
dall’altra al massimo 2. E se spaccato in due lo è stato, questo è
accaduto nel corso della presidenza Morsi, quando la polarizzazione è
stata perseguita sistematicamente attraverso quell’interminabile serie
di colpi di mano – di “piccoli golpe” come li abbiamo chiamati – che
hanno trascinato il paese (allora sì) sull’orlo di una guerra civile.
Cioè quando una singolare visione della democrazia determinò
l’esclusione dalla vita politica di tutti coloro che non si
riconoscevano nel progetto di “fratellizzazione” e “islamizzazione” del
presidente Morsi e quando, lungi dal promuovere un piano di
conciliazione nazionale, anche a una porzione nutritissima dei votanti
di Morsi apparve finalmente chiaro che il disegno del nuovo raìs – e
della confraternita da cui prendeva ordini (altro fatto risaputo ma
taciuto) – mirava alla mainmise di tutte le istituzioni possibili e, con
dilettantesco opportunismo, al mero possesso del potere. Un disegno in
così palese contraddizione con le promesse di governare solo “in nome di
Dio” che finì per levare a Morsi anche il consenso di una gran parte
dei suoi: a partire dai salafiti e dalle nuove generazioni della
Fratellanza. Allora sì il paese era spaccato in due. Allora sì c’era
ancora chi sperava che Morsi non avrebbe sbagliato l’ennesima mossa,
allora sì c’era chi si illudeva che avrebbe risollevato dal tracollo
l’economia, allora sì c’era chi si illudeva che avrebbe incorporato le
istanze laiche nella politica, che avrebbe onorato il patto elettorale.
Ma adesso? A parte Al-Jazeera, cioè il Qatar che finanzia la
Fratellanza, a parte gli irriducibili, cioè i simpatizzanti della
teocrazia e del califfato, a parte l’imprenditoria islamica, cioè la
piccola borghesia clientelista e affarista che tradizionalmente
costituisce l’ossatura della Fratellanza, a parte gli sprovveduti che
ancora si fanno incantare dalle scatole di riso e olio in cambio del
loro appoggio... chi resta con Morsi? Quale fantasmatica metà del paese
gli accorda ancora la sua fiducia? L’esercito non sta più con Morsi. E
se mai stette con lui fu perché i Fratelli musulmani erano l’unico
movimento radicato e organizzato del paese al termine della rivoluzione
del 2011, mentre la trentina di pariti laici sorti dalla sollevazione
non potevano garantire una politica stabile e strutturata: condizioni
tradizionalmente vincolanti affinché l’esercito offra il proprio
appoggio. La polizia non sta più con i Fratelli da tempo. Perché ha
trovato nel popolo di Tahrir l’espressione della propria dignità
nazionale e perché non intende comprometterla. Sa inoltre che una
transizione democratica favorirà un rapporto di prossimità e rispetto
con la popolazione mentre un governo a matrice islamista non potrà che
alimentare le tensioni. Le formazioni laiche non sono mai state con gli
islamisti e non lo saranno mai. Ma soprattutto: 33 milioni di cittadini
sono scesi nelle piazze per gridarlo a gran voce: “Basta con gli
islamisti”. Quanto alla guerra civile, l’esercito l’ha scongiurata e lo
scenario algerino non ha nessuna attinenza con quello egiziano. È vero
invece, con ogni probabilità, che l’Islam politico sia definitivamente
morto e che la sola e unica grande incognita che adombra l’avvenire
dell’Egitto sia il posto che i militari assumeranno nella futura
configurazione del paese. Disponendo di enormi ricchezze – il 35% del
patrimonio nazionale – è evidente che cercheranno di conservare i loro
privilegi. Ma come non mi stancherò di ricordare: ora il nuovo
protagonista della storia egiziana è il popolo. E che in Occidente lo si
creda o meno – o meglio, che all’Occidente piaccia o non piaccia
crederlo – questo popolo non tornerà indietro. La sua non è stata solo
una metamorfosi politica o sociale, storica o culturale: la sua è stata
una metamorfosi antropologica. E quando un popolo conosce una simile
metamorfosi un ritorno al passato – alla solita congettura l’Egitto è
tornato a un regime militare, la giunta ha strumentalizzato la piazza
per riprendere il potere, il popolo egiziano non è pronto per la
democrazia – è quanto di più inverosimile si possa prospettare. Certo,
la rivoluzione è un cammino irto di ostacoli, lungo, doloroso, spesso
violento, pieno di ricadute e contraccolpi. È anche un cammino in cui la
forza del revanscismo e l’ostinazione dei nostalgici producono quel
persistente stato di instabilità che contraddistingue tutte le
democrazie ai primi passi. Ed è anche un cammino in cui l’informazione
internazionale congiura, con strano e compiaciuto accanimento, affinché
alla volontà del popolo, alle sue rivendicazioni, al suo coraggio, alla
nobiltà dei suoi propositi, ai suoi sogni, alla sua dignità, alla sua
cultura e alla sua identità, siano anteposte le formulette generiche che
ne qualificano i limiti e i difetti, e contrapposte le certezze della
presunta oggettività. Ed è soprattutto un cammino in cui le parole, i
nomi delle cose, la loro complessità, saranno sempre insidiati dalla
violenza del preconcetto e dalla voluttà di declinarle all’europea o
all’occidentale, come se Mussolini, Hitler, Franco, Stalin, Salazar e
Tito fossero perle di una collana dimenticata, l’imperialismo la forma
ante litteram dell’esportazione della democrazia e Nagasaki e Hiroshima
due petardi sparati a una fiera di paese. Ma malgrado tutto questo
cammino è segnato, e prima o poi si avrà l’umiltà di riconoscergli quel
che rappresenta di prezioso per la storia. Una pagina come quella che è
stata aperta il 25 gennaio 2011, e che al suo secondo capitolo segna la
data del 30 giugno 2013, non potrà essere strappata nemmeno se
l’amministrazione americana decidesse di scoprire finalmente le carte e,
invece dei solerti corrispondenti della Cnn, mandasse al Cairo l’intero
Pentagono.
Fonte: Il Corriere del Ticino 29 Luglio 2013
venerdì 16 agosto 2013
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Il racconto truccato del conflitto previdenziale
di Matteo Bortolon da Il Manifesto Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...
-
di Domenico D'Amico Repetita iuvant , ho pensato di fronte al libro di Michel Floquet ( Triste America , Neri Pozza 2016, pagg. 2...
-
di Franco Cilli Hanno ucciso il mio paese. Quando percorro la riviera adriatica in macchina o col treno posso vedere chiarament...
Nessun commento:
Posta un commento