di Domenico Moro da falcerossa
(1) Toni Negri, Chi sono i comunisti. Relazione al convegno C17.
https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/9021-toni-negri-chi-sono-i-comunisti.html
(2) Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, Il manifesto di Ventotene. Per una Europa libera e unita, Ventotene, Agosto 1941.
(3) P. Grifone, Il capitale finanziario in Italia, Einaudi, Milano 1972. P. Grifone, Capitalismo di stato e imperialismo fascista, La città del sole, Napoli 2006.
(4) Domenico Moro, Globalizzazione e decadenza industriale, Imprimatur, Reggio Emilia 2015.
(5) Lenin, Sul diritto delle nazioni all’autodecisione.
(6) G. Arrighi, Il lungo XX secolo, Il saggiatore, Milano 1994.
(7) Nancy Fraser, Come il femminismo divenne ancella del capitalismo, The Guardian, 14 ottobre 2013. Nancy Fraser, La fine del neoliberismo progressista, in Sinistra in rete ttps://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/9190-nancy-fraser-la-fine-del-neoliberismo-progressista.html
(8) Domenico Moro, op. cit.
Parte II – Nazione, Stato e imperialismo europeo
Le ragioni dello scetticismo nei confronti della nazione
6 Nelle imprese della manifattura il Mol (margine operativo lordo) sul fatturato delle imprese italiane al di sopra del livello di piccola impresa è superiore a quello tedesco. In particolare in quella al di sopra dei 250 addetti, tra 2008 e 2014, passa dal 5,8 al 6,9%, quello della Germania passa dal 5,6 al 6,3%. Eurostat, Industry by employment size class (Nace rev. 2 B-E).
7 Domenico Moro, Perché e come l’euro va eliminato, 14 aprile 2014. https://www.sinistrainrete.info/europa/3598-domenico-moro-perche-e-come-leuro-va-eliminato.html.
8 Karl Marx, Il capitale, Libro I, La genesi del capitalista.
9 Friedrich Engels, L’Origine della Famiglia, della proprietà privata e dello stato.
10 Nicos Poulantzas, Il potere nella società contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1979.
11 “Eccesso di democrazia” è il termine utilizzato da Crozier e Huntington in The crisis of democracy, il rapporto della commissione Trilaterale del 1975. Su questo e sul ruolo dell’integrazione europea nel contrasto all’eccesso di democrazia vedi Domenico Moro, Il gruppo Bilderberg, L’élite del potere mondiale, Imprimatur, Reggio Emilia 2014.
12 Agamben, Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
13 Domenico Moro, La Terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico, Imprimatur, Reggio Emilia 2016.
14 Meccanismo di stabilizzazione finanziaria europea. Si tratta di un programma, gestito dalla Commissione europea, che recupera fondi sui mercati finanziari per aiutare gli stati in difficoltà, usando come collaterale il budget europeo.
15 Domenico Moro, Trump risposta alla crisi secolare e apertura della seconda fase della globalizzazione, Sinistra in rete https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/8531-domenico-moro-trump-risposta-alla-crisi-secolare-e-apertura-della-seconda-fase-della-globalizzazione.html
Parte III – Oltre il rifiuto del politico. L’euro come anello fondamentale del recupero della lotta politica
Cos’è la politica e come recuperare un discorso politico di classe
i Lenin, Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, in “L’internazionale comunista”, n.11, 14 giugno 1920.
ii Eurostat, Population on 1st January by age, sex and type of projection.
iii György Lukàcs, Estetica, volume primo, pp. 40-41, Einaudi, Milano 1975.
iv Lenin, Che fare?, in Lenin, Trockij, “Luxemburg, Rivoluzione e polemica sul partito”, Newton compton editori, Roma 1973, pag. 113.
Parte I – L’ideologia dominante è il cosmopolitismo non il nazionalismo
È possibile definire
realisticamente una linea politica internazionalista in Europa soltanto
mettendo al suo centro il tema dell’uscita dall’euro. Eppure, a sinistra
molti continuano a opporsi all’uscita dall’euro, adducendo due
tipologie di motivazioni, di carattere economico e politico-ideologico.
Sebbene le motivazioni economiche siano certamente importanti, ritengo
che a incidere maggiormente sul rifiuto a prendere persino in
considerazione l’ipotesi di uscire dall’euro, fra la sinistra e più in
generale, siano le motivazioni politico-ideologiche. Infatti, le
motivazioni politico-ideologiche appaiono meno “tecniche” e maggiormente
comprensibili. Soprattutto, fanno riferimento a un senso comune
profondamente radicato nella sinistra e nella società italiana.
La principale motivazione
politico-ideologica ritiene l’uscita dall’euro politicamente regressiva,
perché rappresenterebbe il ritorno alla nazione. Ciò significherebbe di
per sé il ritorno al nazionalismo e l’assunzione di una posizione di
destra, con la quale ci si allineerebbe implicitamente alle posizioni
del Font National in Francia e della Lega Nord in Italia. Una variante
di questa posizione ritiene che il ritorno alla nazione, oltre che di
destra, sia inadeguato allo svolgimento di lotte efficaci, a causa delle
dimensione ormai globale raggiunta dal capitale.
Tali posizioni si intrecciano in chi,
come Toni Negri, pensa che la globalizzazione “è stata l’effetto di un
secolo di lotte ed ha rappresentato una grande vittoria proletaria”. In
particolare, per i lavoratori dei paesi avanzati il globale è una
modalità di vita per rompere con “la barbara identità nazionale”(1).
Miopi noi ad aver sempre pensato, con
Marx e soprattutto con i fatti, che la globalizzazione fosse una
risposta del capitale per risolvere la sua sovraccumulazione e la caduta
del saggio di profitto, mediante la riduzione dei salari e del welfare.
Del resto, è una ben strana vittoria quella che modifica i rapporti di
forza a sfavore del lavoro salariato.
Ad ogni modo, le motivazioni politiche
contro l’euro si basano su false premesse, anche se il tema del rapporto
tra nazione e lotta di classe non va preso alla leggera. Proprio per
questo il principio da cui partire è che la questione della nazione va
affrontata non in astratto ma in concreto, cioè partendo dall’analisi
dei rapporti di produzione, per come essi si manifestano nella fase
attuale del capitalismo. Il timore di ricadere nel nazionalismo affonda
le sue radici nella storia del Novecento, quando i nazionalismi furono
alla base dei fascismi e ad essi si attribuì la causa dello scoppio
della Prima e della Seconda guerra mondiale.
Altiero Spinelli e gli altri redattori
del Manifesto di Ventotene, fino a oggi punto di riferimento della
sinistra europeista, estesero la loro avversione dal nazionalismo allo
stato nazionale, o meglio alla “sovranità assoluta” dello stato
nazionale, intesa come male assoluto, origine della guerra e del
fascismo. Infatti, secondo Spinelli, la linea di demarcazione tra
progressisti e reazionari non sarebbe dovuta più passare per la maggiore
o minore democrazia o per la forma dei rapporti di produzione, cioè tra
capitalismo e socialismo, ma tra l’essere o per lo stato nazionale o
per lo stato internazionale. Essi vedevano nello sviluppo di un’Europa
unita e nel superamento del capitalismo autarchico verso il libero
commercio non solo un antidoto alla guerra ma anche il migliore mezzo di
contrasto all’influenza dei partiti comunisti in Europa.
Del resto, nel Manifesto di Ventotene la
socializzazione dei mezzi di produzione viene vista come un’utopia e una
“erronea deduzione” dai principi del socialismo, che porta
necessariamente alla dittatura burocratica. Mentre l’Urss combatte una
lotta feroce contro il nazismo e a fianco degli angloamericani, il
Manifesto sembra soprattutto preoccupato di prendere le misure ai nuovi
alleati in vista della ridefinizione degli assetti politici del
dopo-guerra: “Una situazione dove i comunisti contassero come forza
politica dominante significherebbe non uno sviluppo in senso
rivoluzionario ma già il fallimento del rinnovamento europeo.”(2)
Il nazionalismo, però, più che la causa
primaria fu l’effetto di un determinato contesto. Esso ha rappresentato
la forma ideologica adeguata a una specifica fase storica dei rapporti
di produzione capitalistici, che alcuni, come l’economista e dirigente
del PCI Pietro Grifone, hanno definito capitalismo monopolistico di
stato (3).
Durante quel periodo storico
l’accumulazione capitalistica avveniva soprattutto su base nazionale,
mentre il suo espansionismo estero avveniva nella forma
dell’imperialismo nazionale e territoriale. La tendenza si accentuò
negli anni ’30 con l’economia cosiddetta autarchica. Gli scambi di merci
e di capitali avvenivano soprattutto tra la singola potenza
imperialista e le sue colonie.
È ovvio che, in un tale contesto, lo
stato avesse un ruolo più interventista e diretto nell’economia. La
causa scatenante delle due guerre mondiali fu la crisi capitalistica e
il conseguente acutizzarsi delle contraddizioni inter-imperialistiche,
nella forma della competizione per la conquista di imperi territoriali.
Le ideologie nazionalistiche, come lo
stesso fascismo, furono lo strumento per la mobilitazione delle masse
per l’espansione del capitale nazionale uscito dalla Prima guerra
mondiale schiacciato dalle condizioni di pace, come nel caso della
Germania, o frustrato nelle sue aspirazioni territoriali, come nel caso
dell’Italia e del Giappone. Del resto, il fascismo, dopo la prima fase
movimentistica e piccolo borghese, mutuò il suo programma e i suoi
quadri dirigenti dall’Associazione nazionalista italiana, di piccole
dimensioni ma espressione organica dell’imperialismo industriale del
grande capitale italiano.
Oggi, la forma del modo di produzione
capitalistico è molto diversa, in quanto l’accumulazione non avviene che
in parte su base nazionale. Dalla forma di capitalismo monopolistico di
stato si è passati alla forma di capitalismo globalizzato (4). In
quest’ultima il capitale realizza i suoi profitti soprattutto su base
internazionale, mediante investimenti di portafoglio e investimenti
diretti all’estero (IDE). L’obiettivo è realizzare economie di scala a
livello internazionale, basate sullo spostamento di quote di produzione
dai Paesi del centro a quelli periferici, a basso costo del lavoro, e su
operazioni di fusione e integrazione dei capitali del centro a livello
sovrastatale. Le imprese che contano sono multinazionali o
transnazionali e l’imperialismo non si basa più su imperi territoriali,
ma sulla capacità di comando mediante il controllo dei movimenti
internazionali di capitale, di merci, di materie prime, di tecnologia.
Senza trascurare, però, la capacità di
intervento militare “fuori area” e l’uso di guerre per procura.
Naturalmente anche l’ideologia si è adeguata a tali trasformazioni
abbandonando il nazionalismo, ormai desueto, e abbracciando il
cosmopolitismo. Nella misura in cui l’integrazione europea (specie
monetaria) favorisce i suddetti processi del capitale, l’ideologia
europeista è articolazione diretta, in Europa, dell’ideologia
cosmopolita, che non va assolutamente confusa con quella
internazionalista.
I classici del marxismo, compresi
Luxemburg e Lenin (5), hanno definito quella nazionale come la forma
statuale tipica del capitalismo. Ciò è sicuramente vero soprattutto per
quanto riguarda la fase di sviluppo del capitalismo industriale moderno,
avvenuta nel corso delle lotte democratico-liberali tra 1789 e 1871, e
nella quale essi vivevano e lottavano. L’unione statale su base
nazionale è stata fondamentale per il passaggio del capitalismo a una
fase superiore di sviluppo, perché consentiva di riunire i mercati
frammentati degli staterelli allora esistenti, partendo da un fattore di
unificazione molto forte, la lingua.
In questo modo, l’Italia e soprattutto la
Germania riuscirono a decollare dal punto di vista industriale,
raggiungendo e superando (nel caso della Germania) gli stati nazionali
più vecchi come la Gran Bretagna e la Francia. Tuttavia, si trattava di
una forma necessaria e sufficiente in quella fase. Nelle fasi storiche
precedenti il capitalismo aveva assunto altre forme, tanto che, secondo
Giovanni Arrighi, nella sua storia il capitalismo oscilla tra due
tipologie, il capitalismo monopolistico di stato, il cui tipo ideale era
la Repubblica di Venezia, e il capitalismo cosmopolita, il cui tipo
ideale era il capitalismo finanziario della Repubblica di Genova (6).
Nella prima la stato era forte e aveva un
ruolo importante nell’economia, nella seconda lo stato era quasi
inesistente e lasciava l’iniziativa economica, compresa quella
coloniale, ai privati.
Ovviamente si tratta di due estremi e, di
solito, le concrete manifestazioni dello Stato e dei rapporti
produzione capitalistici contengono, a seconda dei periodi, quote
dell’una e dell’altra forma in percentuali variabili.
La Ue e più ancora l’Unione economica e
monetaria (Uem) sono la manifestazione di una fase del capitalismo nella
quale l’elemento cosmopolita ha maggiore peso sia rispetto alla fase
classica dell’imperialismo territoriale degli anni tra il 1890 e il
1940, sia rispetto alla fase di decolonizzazione e di
pre-globalizzazione tra 1945 e 1989. La Uem, infatti, favorendo e
accentuando la fuoriuscita dei meccanismi dell’accumulazione dal
perimetro di controllo dello stato, asseconda lo spostamento del
baricentro dell’accumulazione dal livello nazionale al livello
sovranazionale.
Un movimento verso cui il capitale tende
spontaneamente in un fase di sovraccumulazione e di crisi strutturale,
durante la quale sconta una tendenza cronica all’abbassamento della
redditività degli investimenti nei Paesi più sviluppati, che, non a
caso, sono quelli che in Europa fanno parte della Uem. L’euro è stato lo
strumento principale di riorganizzazione dell’accumulazione nella fase
del capitalismo globale, non in assoluto ma nelle specifiche e
particolari condizioni economiche e politiche dell’Europa occidentale.
È per queste ragioni che l’ideologia
avversaria dominante, cioè l’ideologia della classe dominante, oggi non è
quella nazionalista, bensì quella cosmopolita.
Allora, ci si domanderà, perché si
assiste alla rinascita del nazionalismo, accompagnata dalla rinascita
della xenofobia? In primo luogo, bisogna dire che non tutto ciò che
accade è il risultato meccanico e necessario dei piani della classe
dominante, anche se certamente è la conseguenza dialettica dei rapporti
di produzione dominanti.
L’introduzione dell’euro e le politiche
europee sono state funzionali a permettere la riduzione del salario e
del welfare, ma anche a ridurre quella che Marx chiamava la pletora di
imprese, ovvero le imprese e le unità produttive che la stessa
accumulazione rende ridondanti e superflue. Così facendo l’euro e le
politiche di austerity hanno allargato i divari in termini di crescita e
ricchezza tra gli stati europei. Nel contempo, all’interno di essi,
hanno prodotto o accentuato, insieme all’aumento della povertà e della
disoccupazione di massa, la concorrenza tra indigeni e immigrati per il
welfare e il lavoro e lo scollamento tra una parte dell’elettorato e il
sistema politico tradizionale bipartitico ed europeista.
Ma, l’euro non colpisce solo il lavoro
salariato impiegato direttamente dal capitale (la classe operaia). Esso,
in quanto strumento facilitatore della riorganizzazione complessiva
dell’accumulazione, colpisce anche altre classi sociali, tra cui alcuni
strati intermedi (artigiani, piccoli commercianti, piccoli
professionisti) e persino alcuni settori di impresa capitalistica.
Infatti, la riorganizzazione e l’accorciamento delle catene di fornitura
e subfornitura manifatturiera hanno comportato l’eliminazione di molte
imprese piccole, medie e, in certi casi, anche grandi, rendendo
difficile la vita alle rimanenti che non riescono a stare sul mercato
internazionale.
Queste imprese, a differenza delle
imprese multinazionali, non traggono beneficio dall’esistenza di una
moneta unica a livello europeo, ma ne sono danneggiate. Non è un caso
che la Lega, espressione storica della piccola impresa del Nord, abbia
una posizione anti-euro, combinata con una posizione xenofoba
anti-immigrati. Si tratta di un posizionamento articolato e, a suo modo,
abile che, tende a mettere insieme settori diversi, piccola impresa e
operai, in un nuovo blocco corporativo di destra.
Significativamente, dopo vent’anni, la
Lega in salsa salviniana ha mandato in soffitta la secessione del Nord,
riciclandosi come forza nazionale, a dispetto delle lamentele del
vecchio Bossi.
Una dimostrazione ulteriore dei
cambiamenti dei rapporti di produzione (la struttura) e di come questi
si riflettano sulla politica e sulla ideologia politica (la
sovrastruttura). Viene da chiedersi, a questo punto, se la Lega stia
usando l’uscita dall’euro come, per circa vent’anni, ha usato la
secessione, cioè come specchietto per le allodole e arma di ricatto per
ottenere maggiori risorse statali per certi settori imprenditoriali del
Nord. Ad ogni modo, la piccola borghesia, come ricordava Marx e come
provano la storia (ad esempio quella del fascismo) e i risultati di
venti anni di esistenza della Lega, non ha reale capacità di azione
autonoma e presto o tardi viene subordinata al movimento oggettivo del
capitale, quello vero.
Dunque, il nazionalismo e la xenofobia,
così come il successo di partiti cosiddetti populistici o di estrema
destra, sono la risposta immediata a una situazione, determinata dal
capitale, di aumento dei divari di crescita economica tra Paesi della
Uem e della polarizzazione sociale tra le classi di ciascun Paese. Ma il
nazionalismo e la xenofobia non sono l’ideologia dell’élite
capitalistica, cioè delle imprese multinazionali e transnazionali che
rappresentato il vertice dell’accumulazione capitalistica in Europa
occidentale e in Italia.
Così come il fascismo, inteso per come si
è manifestato storicamente in Italia e in Germania, non è la forma di
governo o di stato adeguata al capitale in questo momento storico. Anche
perché i meccanismi oggettivi dell’euro e i vincoli europei sono tanto
più efficaci quanto più appaiono politicamente neutrali e progressisti,
in particolar modo rispetto al fascismo, al nazionalismo e alla
xenofobia.
Nazionalismo e xenofobia sono una
conseguenza non voluta e inattesa della riorganizzazione capitalistica
gestita dagli apprendisti stregoni europeisti. Essi contrastano con gli
interessi del grande capitale europeo, i cui mezzi di comunicazione, dal
confindustriale Sole24ore a The Economist, controllato dalle famiglie
tipicamente cosmopolite degli Agnelli e dei Rothschild, propagandano una
ideologia cosmopolita e europeista, paventando come la peste in questi
ultimi tempi il crollo della Ue e della Uem. Tale ideologia cosmopolita e
europeista è quella che meglio si combina con il neoliberismo,
esprimendo le necessità della mobilità dei fattori produttivi,
soprattutto del capitale ma anche della forza lavoro, e affermando la
progressività della globalizzazione.
Il blocco sociale alla base di questa
ideologia, come ha spiegato bene la femminista americana Nancy Fraser
(7), è l’alleanza tra élite capitalistiche e ceti medi “progressisti”,
che trova il suo cemento ideologico nella combinazione di neoliberismo e
diritti civili riferiti a particolari categorie, viste in termini
rigorosamente interclassisti. Tale alleanza sociale sostituisce, a
partire soprattutto da Clinton, il blocco sociale keynesiano,
disgregatosi negli anni ’80 a seguito della globalizzazione, il quale si
basava sull’alleanza tra i settori più organizzati della classe operaia
e la grande impresa.
L’ideologia cosmopolita è ancora
particolarmente forte in Europa occidentale tra l’élite capitalistica,
perché si confà alla natura dell’economia europea che presenta una
propensione maggiore agli investimenti di capitale all’estero (IDE) e
soprattutto all’export di merci, i quali pesano in percentuale sul Pil
europeo molto più che su quello statunitense (lo stock di IDE in uscita
il 62% contro il 37% e l’export di merci il 35% contro il 9%) (8).
La Uem, coerentemente con l’indirizzo
impresso dallo stato-guida tedesco, impronta la sua politica economica
al neomercantilismo, cioè al raggiungimento di forti surplus del
commercio estero a scapito del mercato e del consumo interno, contratti
dalla crisi, dall’austerity del Fiscal compact e dalla deflazione
salariale imposta dall’euro. In tale contesto, è particolarmente
devastante per quella sinistra che voglia rappresentare il lavoro
salariato assorbire pezzi consistenti dell’ideologia dominante
cosmopolita. Ciò avviene in parte accettando che la liberazione di certi
settori sociali avvenga separatamente dalla modificazione dei rapporti
sociali e in parte confondendo la globalizzazione con
l’internazionalismo.
L’internazionalismo si basa sul
riconoscimento e il perseguimento degli interessi collettivi del lavoro
salariato contro le divisioni nazionali e il ruolo dello Stato di potere
concentrato del capitale. Il cosmopolitismo, invece, è il rovesciamento
dialettico in senso borghese dell’internazionalismo. Esso si basa sulla
affermazione globale degli interessi individuali dell’élite
capitalistica al di sopra dello Stato-nazione di provenienza,
mantenendone, però, l’utilizzo e ben salda la natura di classe.
Note(1) Toni Negri, Chi sono i comunisti. Relazione al convegno C17.
https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/9021-toni-negri-chi-sono-i-comunisti.html
(2) Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, Il manifesto di Ventotene. Per una Europa libera e unita, Ventotene, Agosto 1941.
(3) P. Grifone, Il capitale finanziario in Italia, Einaudi, Milano 1972. P. Grifone, Capitalismo di stato e imperialismo fascista, La città del sole, Napoli 2006.
(4) Domenico Moro, Globalizzazione e decadenza industriale, Imprimatur, Reggio Emilia 2015.
(5) Lenin, Sul diritto delle nazioni all’autodecisione.
(6) G. Arrighi, Il lungo XX secolo, Il saggiatore, Milano 1994.
(7) Nancy Fraser, Come il femminismo divenne ancella del capitalismo, The Guardian, 14 ottobre 2013. Nancy Fraser, La fine del neoliberismo progressista, in Sinistra in rete ttps://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/9190-nancy-fraser-la-fine-del-neoliberismo-progressista.html
(8) Domenico Moro, op. cit.
Parte II – Nazione, Stato e imperialismo europeo
Le ragioni dello scetticismo nei confronti della nazione
La diffidenza verso il concetto di
nazione e la tendenza europeista, entrambe diffuse in diversi settori
della società italiana, sono il prodotto della nostra storia recente e
meno recente. L’imperialismo italiano, tra gli anni ’80 dell’Ottocento e
gli anni ’40 del Novecento, ha fatto della nazione, nella forma
ideologica estremistica del nazionalismo, il substrato della sua
politica espansionistica. Lo stato liberale e lo stato fascista, senza
alcuna soluzione di continuità tra di loro, hanno generato una serie di
guerre, dalle prime spedizioni coloniali in Eritrea, Somalia e Libia,
alla Prima guerra mondiale, alle guerre d’Etiopia e di Spagna e, infine,
alla disastrosa partecipazione alla Seconda guerra mondiale.
L’esito di questa tendenza
espansionistica è stato devastante sia per le condizioni delle masse
popolari sia per le ambizioni dell’élite capitalistica. L’Italia,
precedentemente annoverata fra le grandi potenze, subisce nel ’43 una
sconfitta pesantissima e umiliante, che ne declassa il rango
internazionale. Si è così prodotto un diffuso rigetto verso ogni forma
di nazionalismo, che si è esteso al concetto stesso di nazione anche
all’interno della sinistra, nonostante la Resistenza contro il
nazi-fascismo fosse in primo luogo una lotta di liberazione nazionale.
Ma le ragioni dello scetticismo nei
confronti della nazione sono più lontane e collegate allo scetticismo
nei confronti dello Stato. L’Italia fu, tra XII e XVII secolo, la culla
del capitalismo e il paese centrale del sistema economico dell’epoca,
malgrado l’assenza di uno Stato-nazione unitario o, secondo alcuni,
proprio per quella ragione1.
Però, i limiti della mancanza di uno stato nazionale, che sostenesse
gli interessi del capitale italiano, finirono alla lunga per farsi
sentire negativamente.
A partire dalla seconda metà del XVII
secolo l’Italia entrò in una lunga fase di decadenza economica, cedendo
l’egemonia internazionale prima ai Paesi bassi e poi all’Inghilterra,
che si erano dotati una forma statale nazionale ben strutturata e
poderosa. Invece, in Italia la forma statale prevalente fu prima quella
della repubblica comunale e poi quella della signoria locale o, al
massimo, regionale. Inoltre, in Italia, tra il XIV e il XV secolo si
sviluppò il Rinascimento, che, espressione delle corti delle
città-stato, ebbe un carattere culturale cosmopolita e non nazionale.
Gramsci ha dedicato molte pagine a
spiegare come storicamente la funzione degli intellettuali italiani e le
stesse tradizioni culturali siano state cosmopolite2.
L’Italia è stata il centro dell’impero più cosmopolita della storia,
quello romano, e sede della sua erede, la Chiesa cattolica, la cui
dottrina è universalistica per definizione.
La presenza in Italia del potere
temporale cattolico, lo Stato della Chiesa, fu una delle cause
principali del ritardo della unità nazionale italiana, completata
soltanto con la conquista militare della Roma papalina da parte delle
truppe italiane nel 1871.
A seguito di questo episodio, il Papa si
confinò nel Vaticano e i cattolici si tennero fuori dalla politica del
nuovo stato unitario, entrandovi con una loro formazione politica
autonoma, il Partito popolare, soltanto nel 1919. Ma è dopo la Seconda
guerra mondiale che essi, attraverso la Democrazia cristiana, saranno
per quasi mezzo secolo il perno della politica italiana e uno dei motori
della integrazione europea.
Un’altra importante causa dello
scetticismo verso la nazione è collegata alle modalità con cui si è
realizzato in Italia il processo di costruzione dello stato unitario
nazionale.
La direzione del movimento di
unificazione fu monopolizzata dall’espansionismo della monarchia
piemontese, e non si pose l’obiettivo del coinvolgimento delle masse,
all’epoca soprattutto contadine, nell’unico modo in cui potesse farlo,
cioè con la riforma agraria3.
Alla fine, il Risorgimento fu
egemonizzato dalla élite borghese del nord, alleata con i latifondisti
del Sud, e in opposizione alle masse subalterne. Il Mezzogiorno venne
definitivamente unito al resto del Paese solo dopo una lunga guerra
contro il brigantaggio, in realtà una guerra civile, che costò
all’esercito italiano più caduti della III Guerra d’indipendenza contro
l’Austria.
La sfiducia verso la nazione da parte
degli italiani, che hanno oggi, a un secolo e mezzo dall’unità, una
identità culturale e linguistica definita e omogenea forse più di quella
di altri popoli europei, rientra nel generale senso di sfiducia verso
lo Stato, che, per ragioni diverse (genuine ma anche strumentali),
investe sia le classi inferiori e subalterne sia quelle superiori e
dominanti della società italiana.
Nella classe dominante il trauma della
sconfitta della Seconda guerra mondiale, la consapevolezza di non poter
portare avanti una politica di potenza nei nuovi rapporti di forza
internazionali nonché il peggioramento dei rapporti di forza all’interno
(forte presenza di un partito comunista e rapporti di forza sindacali e
politici favorevoli alla classe operaia) hanno generato la convinzione
della insufficienza (non certo della inutilità) dello stato nazionale e
una tendenza a avvalersi anche di forze esterne, sovrannazionali (Nato e
Ue), per riequilibrare i rapporti di forza esterni e soprattutto
interni.
A tutto ciò si aggiunge, come Marx ha
fatto notare più volte, l’avversione tradizionale della classe
capitalistica per lo Stato in quanto fonte di spese, che, dal suo punto
di vista, sono faux frais, cioè spese superflue, specialmente allorché si traducono in imposte sui profitti e sulle proprietà mobiliare e immobiliare.
Infatti, l’avversione verso le spese statali in Italia si è tradotta in
una diffusa elusione fiscale da parte delle imprese fino alla rivolta
fiscale di cui la Lega si è fatta espressione negli anni ‘90, ed è stata
particolarmente accesa, essendo motivata dalla dilatazione e dalla
corruzione Pubblica amministrazione (Pa), giudicate come anomale
rispetto al resto d’Europa.
Tale presunta anomalia è stata
enfatizzata sin dagli anni ’70, allo scopo di favorire le
privatizzazioni del welfare e delle partecipazioni statali e ridurre
l’autonomia del ceto politico ad esse legato. Inoltre, le inefficienze e
la dilatazione della Pa registrata in certe aree del Paese dipende
dalla incapacità del settore privato di generare una sufficiente
occupazione, dalla mancanza di un adeguato reddito di disoccupazione e
da un divario economico tra Nord e Mezzogiorno molto più profondo di
quelli presenti negli altri stati europei.
A ciò si aggiunge il fatto che la Pa nel
passato è stata utilizzata per rafforzare la stabilità sociale e
politica, mediante l’inglobamento di alcuni settori di piccola borghesia
all’interno del blocco politico-sociale che la Democrazia cristiana e
altri partiti di governo avevano costituito in funzione anti-comunista.
Ad ogni modo, oggi, dopo anni di blocco del turn over, gli occupati
nella Pubblica amministrazione (Pa) in Italia risultano, in assoluto e
in rapporto alla popolazione, inferiori a quelli di Francia, Germania e
Spagna4.
Infine, non possiamo non ricordare, sia
pure di sfuggita, che il rigonfiamento del debito pubblico è stato
dovuto non a un eccesso di spese sociali in rapporto a quelle di altri
Paesi, bensì al basso livello di imposizione fiscale (in primis alle
imprese), alle spese di socializzazione delle perdite delle imprese
private, e soprattutto, a partire dai primi anni ’80, alla crescita
della spesa per interessi, dovuta alla separazione tra Banca d’Italia e
Tesoro, avvenuta sempre con l’obiettivo di ridurre l’inflazione per
poter ridurre i salari5.
In ultimo, ma non per importanza, la
necessità, dopo la Seconda guerra mondiale, di un adeguato mercato di
sbocco alle merci della manifattura italiana e poi la globalizzazione
negli anni ‘90 si sono aggiunte a rafforzare, agli occhi dell’élite
capitalistica italiana, l’utilità dell’Europa e dell’integrazione
economica e valutaria, che ha trasformato o sta compiutamente
trasformando le imprese maggiori da prevalentemente nazionali a
internazionali.
In sintesi, l’Europa è stata vista (o
venduta così all’opinione pubblica) come un necessario fattore esterno
di costrizione all’efficientizzazione della Pa e alla moderazione del
bilancio e della esagerata spesa statale, che gli italiani da soli
avrebbero avuto difficoltà a realizzare.
Il punto, però, è che né l’euro né la Ue
rappresentano un correttivo alle carenze dello Stato, tantomeno in
direzione della sua efficientizzazione e contro la corruzione.
Al contrario, l’Europa rappresenta la
riduzione degli aspetti “pubblici” e redistributivi dello stato e una
accentuazione del suo carattere di dominio di classe, al servizio dei
privati, che, anziché eliminare i vecchi sprechi e corruzioni, ne
determina di nuovi, proprio a causa dell’aumento della commistione tra
pubblico e privato a seguito delle privatizzazioni e delle
esternalizzazioni dei servizi pubblici.
Il problema dell’euro non solleva la
questione della nazione ma la natura di classe dello Stato. La questione
dell’uscita dall’euro non è una questione inerente alla difesa della
nazionalità bensì inerente alla democratizzazione dello Stato e, più
precisamente, alla modificazione del rapporto tra Stato e classi
subalterne al capitale.
In qualche modo, gli oppositori di
sinistra all’uscita dall’euro vengono rafforzati nelle loro convinzioni
dai cosiddetti sovranisti nazionali, che pongono l’accento sul recupero
della sovranità nazionale anziché sul recupero della sovranità popolare
o, meglio ancora, democratica.
Per la verità, una certa confusione tra i
due aspetti si ingenera in modo abbastanza naturale. Infatti, visto che
il problema è rappresentato dall’esistenza di organismi sovrastatali
europei, il loro superamento implica necessariamente il ritorno allo
stato. E, dal momento che lo stato territoriale classico è quello a base
nazionale, ciò che risulta, almeno in apparenza, è che “si ritorni alla
nazione”.
Ciononostante, il nodo della questione
dell’uscita dall’euro continua a non risiedere nella nazione ed è bene
che lo si ribadisca. Sarebbe facile considerare che alcuni stati europei
non sono stati nazionali nel senso puro, ad esempio la Spagna e il
Belgio, che riuniscono nazionalità diverse con lingue a volte di ceppo
diverso (castigliano, catalano e basco, oppure francese e neerlandese).
Più importante è chiederci verso chi la Ue e la Uem svolgono una
funzione di oppressione o di sfruttamento.
Se, cioè svolgano una tale funzione verso
una o più nazioni, intese come l’insieme delle classi di un dato Paese,
oppure se svolgono tale funzione verso una o più classi sociali di tali
nazioni, ma non verso l’insieme delle classi ossia della nazione.
In effetti, in Europa non c’è una
nazionalità oppressa in quanto tale. L’azione della Uem colpisce alcune
classi, che rappresentano la maggioranza della popolazione, ma non tutte
con la stessa intensità. L’euro è diretto, in primo luogo, a
neutralizzare la capacità di resistenza della classe salariata, in
particolare di quella direttamente impiegata dal capitale (soprattutto
nella manifattura), che subisce la deflazione salariale come conseguenza
dei tassi di cambio fissi. Certi settori stipendiati o salariati ne
sono colpiti di meno o meno direttamente, ad esempio il lavoro salariato
non dipendente dal capitale.
Tuttavia, anche il settore pubblico ha
subito, attraverso il blocco dei contratti e del turn over, conseguenze
negative dell’austerity europea. Secondariamente tende a colpire anche
alcuni settori piccolo-borghesi intermedi, nel commercio e
nell’artigianato, e persino settori di imprese capitalistiche, quelle
piccole e medie, che non riescono a inserirsi nelle catene
internazionali del valore, dominate dalla grande impresa globalizzata, e
sono state penalizzate dal crollo del mercato domestico a seguito di
deflazione salariale e austerity.
Invece, i grandi e medi rentier
generalmente beneficiano dell’euro. Soprattutto, per lo strato
capitalistico di vertice, le grandi imprese industriali e le banche
internazionalizzate, l’introduzione dell’euro ha rappresentato un
vantaggio enorme. Alcuni hanno posto in rilievo, giustamente, il ruolo
egemone della Germania in Europa e i benefici che, come Paese, ha
ricavato dall’euro.
Tuttavia, per quanto la Germania abbia
beneficiato dell’euro, non è possibile parlare di oppressione nazionale
di questo Paese sugli altri. I benefici dell’euro si estendono, anche se
non in modo uniforme, a tutta l’élite capitalistica europea, anche a
quelle dei Paesi cosiddetti periferici.
In Italia, sebbene in un contesto di
contrazione non solo del Pil ma soprattutto della base produttiva
manifatturiera, il margine operativo lordo delle imprese manifatturiere
esportatrici è cresciuto e, in rapporto al fatturato, risulta superiore a
quello di Germania e Francia6.
Del resto, come ho avuto occasione di far notare altrove,
l’integrazione valutaria rende più facile l’azione di quelli che Marx
chiama i fattori antagonistici alla caduta del saggio di profitto
(riduzione del salario, esportazioni di merci e capitale, concentrazione
delle imprese, ecc.)7.
Infatti, non è un caso che tra le classi
dominanti di Spagna, Francia e Italia le posizioni a favore di una
uscita dall’euro non trovano udienza presso i media controllati dalle
élite economiche “nazionali”. Ad esempio, il confindustriale Sole24ore,
per quanto ospiti interventi critici verso gli “eccessi” rigoristici
tedeschi, contrasta decisamente ogni ipotesi di fine dell’euro come
fosse una catastrofe.
In ogni caso, le imposizioni della Uem
non sono dirette contro l’autoderminazione “nazionale”, in quanto gli
stati nazione non sono aboliti. Per la verità alcune loro attribuzioni
sono state rafforzate e lo sono state proprio in funzione nazionale.
Sono solo alcune attribuzioni quelle il cui controllo è delegato, mediante i trattati europei (Fiscal compact, Six e Two pack),
alla Ue o alla Uem. Infatti, la questione di fondo è che a essere
indebolito non è il carattere di classe dello stato, inteso come
perseguimento degli interessi specifici del capitale che ha base o opera
in quel dato territorio. Anzi, tale carattere, per quanto possa
sembrare paradossale, si rafforza e, del resto, né la Ue né la Uem
assomigliano neanche lontanamente a uno stato in senso compiuto.
A questo punto, però, è necessario fare
un passo indietro e chiederci: che cos’è, nella sua essenza, lo Stato?
La definizione più diffusa è quella data da Max Weber: lo stato coincide
con il monopolio dell’uso della forza entro i confini di una certa area
geografica. Quindi, organismi statali per eccellenza sono quelli
preposti a tale monopolio: Forze Armate, polizia, magistratura e il loro
apparato immateriale di leggi e materiale di armamenti, caserme,
tribunali, prigioni, ecc. Marx ed Engels aggiunsero a tale definizione
che il monopolio della forza è esercitato in difesa dei rapporti di
produzione dominanti. Pertanto, lo Stato, dal punto di vista di classe,
non è mai neutrale, compreso quello formalmente più democratico, essendo
sempre l’organismo della classe dominante.
Nella società divisa in classi, lo Stato
rappresenta, per usare le parole di Marx “la violenza concentrata e
organizzata della società”8.
Tuttavia, Marx ed Engels dissero anche altro: lo Stato non è solo
oppressione mediante la forza fisica di una classe sulle altre ma anche
mediazione tra le classi, per evitare che la lotta tra di esse giunga
fino al punto di far collassare l’intero edificio sociale. In tal senso,
sempre secondo Marx e Engels, la repubblica democratica rappresenta
l’involucro migliore per l’esercizio del potere borghese9.
Con il tempo, sia per l’evolversi di tale
mediazione sia per l’evolversi e il rendersi più complessa
dell’economia e della società, nuove funzioni si sono aggiunte alla
macchina dello Stato, creando, accanto a Forze Armate e corpi di polizia
permanenti e professionali, enormi apparati burocratici e
amministrativi. Ma la combinazione dei due aspetti, forza e mediazione, è
sempre centrale. L’analisi di tale dialettica fu approfondita da Lenin e
da Gramsci, nel concetto di egemonia, e poi da altri come Althusser e
Poulantzas10.
Chi studia oggi Gramsci dovrebbe porsi la
questione di attualizzare i suoi insegnamenti e mettere in pratica il
suo metodo, che oggi non può prescindere dall’analisi della forma dei
sistemi politico-istituzionali e di riproduzione del consenso, nel
quadro della globalizzazione, dell’ideologia del cosmopolitismo e, in
Europa, dell’integrazione economica e valutaria. Quindi, la forma che lo
Stato assume è decisiva, perché la forma non è un mero involucro bensì
un principio di organizzazione dei rapporti sociali.
Detto più chiaramente, la forma che lo
stato assume definisce i rapporti e le modalità di mediazione tra le
classi vigenti in un certo periodo storico.
Dopo la seconda guerra mondiale, la
sconfitta militare del fascismo e della classe dominante italiana e il
protagonismo dei partiti legati alla classe operaia avevano modificato i
rapporti di forza, che furono cristallizzati, in Italia (e nel resto
dell’Europa occidentale), in una nuova Costituzione antifascista e nella
definizione di una forma di stato repubblicana e
democratico-parlamentare.
Lo stato non aveva perso il suo carattere
di classe ma la forma che assumeva garantiva alla classe lavoratrice un
terreno di lotta più favorevole. Con gli anni, il confronto competitivo
con l’Urss e le lotte di classe interne, combinate con una fase
espansiva del capitalismo, portarono all’allargamento della democrazia e
del welfare.
Il grande capitale, però, non poteva
accettare i nuovi rapporti di forza a lungo, soprattutto quando si
ripresentò la caduta del saggio di profitto con la prima grande crisi
strutturale del ’74-’75. Da allora, infatti, i think tank e le
organizzazioni dell’élite del capitale occidentale, come la Trilaterale,
cominciarono a riflettere su come ridurre l’”eccesso di democrazia” che
ormai, dal punto di vista delle classi dominanti, affliggeva gli stati
europei11.
Bisognava modificare i rapporti di forza
e, per farlo, bisognava neutralizzare le Costituzioni e subordinare il
Parlamento, eletto con un sistema elettorale proporzionale puro e
presidiato da partiti di massa e organizzati, al governo, che era più
facilmente influenzabile dalla classe dominante. La controffensiva
neoliberista cui si assiste in tutto il mondo capitalistico avanzato
dall’inizio degli anni ’80 si basava, sul piano politico, su questa
strategia.
In Italia, si ricorse alla modifica in
senso maggioritario delle leggi elettorali e, anche grazie
all’operazione “mani pulite”, alla modificazione/distruzione dei partiti
di massa tradizionali, cercando di adottare il sistema bipartitico
anglosassone.
In tale sistema i due partiti principali agiscono sui temi di fondo in base al cosiddetto bipartisan consensus,
cioè come ali di uno stesso partito, impedendo qualunque alternativa
reale. Ma fu l’integrazione europea e in particolare l’introduzione
dell’euro a fornire lo strumento decisivo per ribaltare i rapporti di
forza.
Il Parlamento, in questo modo, viene
bypassato dagli organismi sovrastatali e i meccanismi oggettivi
dell’euro costringono alla disciplina di bilancio e alla compressione
dei salari, permettendo l’imposizione di controriforme (come quella
delle pensioni della Fornero) che in condizioni diverse non sarebbero
mai passate.
In questa trasformazione, a essere
rafforzati sono gli esecutivi nazionali, che, infatti, sono le uniche
istituzioni statali ad avere un ruolo diretto negli organismi
sovrastatali europei, affermando così quel principio di “governabilità”,
ovvero la libertà dell’esecutivo di agire senza essere vincolato dagli
altri poteri dello Stato, tanto auspicato dal capitale dagli anni ’70 a
oggi.
Come ha ben spiegato Agamben e come
abbiamo visto con il commissariamento europeo dell’Italia, all’epoca del
governo di Mario Monti, tale trasformazione si è realizzata, evocando
lo stato di emergenza o di “eccezione”, sotto il ricatto del default e
dello spread.
Col tempo si è così passati da un sistema parlamentare, basato sulla centralità del Parlamento, a un sistema di fatto (anche se non formalmente) governamentale,
cioè basato sulla centralità dell’esecutivo e, all’interno di esso, del
premier, il quale governa con un uso massiccio della decretazione
d’urgenza (decreti legge)12.
Considerando, però, che, attraverso
l’esecutivo, il potere politico è influenzato più direttamente dalle
élite capitalistiche, possiamo definire la nuova forma di governo, forse
più precisamente malgrado l’ossimoro, come democratico-oligarchica. Dunque, non assistiamo all’indebolimento dello stato nazionale.
Viceversa, assistiamo al rafforzamento del carattere di classe borghese dello stato.
La “governabilità” è il prodotto dello
spostamento di certe decisioni a livello europeo e della subalternità ai
meccanismi dell’euro, ma anche delle modifiche intervenute a livello
statuale-nazionale. Infatti, mentre alcune funzioni sono delegate a
organismi esterni, altre funzioni decisive non solo rimangono monopolio
dello stato nazionale, ma vengono rafforzate e adattate alle esigenze
delle imprese maggiori.
Negli ultimi anni gli apparati
burocratici, polizieschi e militari degli stati europei occidentali non
solo si sono rafforzati, ma, per quanto riguarda le Forze Armate, hanno
assunto un ruolo sempre più interventistico all’estero.
Del resto, le Costituzioni antifasciste
europee sono state bypassate o modificate non solamente sul piano dei
meccanismi di governo e sul piano economico e in particolare su quello
del bilancio pubblico (introduzione dell’articolo 81 sull’obbligo del
paraggio di bilancio). Lo sono state anche sul piano dell’uso della
guerra come strumento di politica internazionale, soprattutto in Italia,
ma anche negli altri Paesi sconfitti della Seconda guerra mondiale,
Germania e Giappone.
L’aspetto del monopolio della forza, che,
come abbiamo visto, caratterizza lo Stato nazionale, non solo non è
messo in comune, ma viene esercitato, seppure non nella forma di scontro
armato diretto, in modo funzionale a una competizione tra Stati
nazionali e tra capitali.
Esempio lampante ne è l’aggressione
contro la Libia, che è stata voluta e preparata dalla Francia non solo
contro Gheddafi ma indirettamente anche contro l’Italia, con lo scopo di
sostituire le sue imprese a quelle italiane nello sfruttamento dei
ricchi appalti e delle ampie risorse petrolifere. Del resto, la vicenda
libica è solo l’ultimo episodio di una secolare competizione tra Italia e
Francia in quell’area del Mediterraneo, che è proseguita anche in
epoche più recenti, dando luogo a più di una guerra per procura13.
Eppure, l’Italia e la Francia fanno parte
della Ue e della Uem. Anzi, sono proprio l’euro e l’austerity a
accentuare le tendenze imperialistiche e la competizione
inter-imperialistica, già innescate dalla sovraccumulazione e dalla
conseguente caduta del saggio di profitto.
Infatti, l’integrazione europea comprime i
salari reali e la domanda interna riducendo i mercati domestici
europei. Ciò accentua la contrazione della base produttiva domestica,
rafforzando la spinta espansionistica all’estero, per la conquista di
sbocchi alle merci e ai capitali eccedenti, oltre che di materie prime a
basso costo. L’espansione economica estera è sostenuta, come nel
passato, dal potere statale, con la diplomazia, gli incentivi economici e
lo strumento militare. Quindi, con strumenti statali e nazionali.
Oggi, non esiste alcun esercito europeo
né l’Europa interviene militarmente, in quanto Europa, in nessun luogo,
se si eccettuano le missioni di scarso rilievo e importanza di Eufor.
Se stati europei intervengono insieme lo
fanno come singoli stati sovrani, su mandato Onu o all’interno di
alleanze, con o senza il cappello Nato, che sono quasi sempre a egemonia
Usa. Né esistono una polizia e tantomeno una intelligence europea.
Del resto, la Ue non è capace di esprimere una sua vera politica estera, che senza Forze Armate europee non avrebbe senso.
Gli stati nazionali sono gelosi custodi
di queste funzioni, peraltro non accessorie ma decisive e
caratterizzanti la sovranità statale o nazionale che dir si voglia.
Persino su altre tematiche, ad esempio sull’immigrazione, come si è
visto recentemente, l’Europa è tutt’altro che prevalente sugli stati
nazionali. Gli aspetti sui quali l’Europa è nettamente prevalente sul
livello statale sono quelli relativi al bilancio pubblico e alla
emissione valutaria.
Soprattutto sono la moneta unica, proprio
per il suo carattere di meccanismo “neutro”, e la Bce, per il suo
carattere sovrannazionale, a collocarsi al di sopra dello stato
nazionale.
La Bce, infatti, è autonoma dai poteri
statali e i governi esercitano su di essa un’influenza limitata: persino
il governo più potente, quello tedesco, ne condiziona solo fino a un
certo punto le decisioni.
In conclusione la Ue e la Uem sono molto
lontane dall’essere organizzazioni statuali o sovrannazionali in senso
proprio. Sono organismi intergovernativi, dal momento che le
decisioni sono prese da organismi cui partecipano i capi di governo
(Consiglio europeo) e i loro ministri (Consiglio dell’Unione europea),
specie quelli economici e finanziari.
Anche le nomine all’interno della Bce
sono frutto di mediazioni e negoziazioni tra i governi europei, che
comunque non sopiscono le contraddizioni tra stati, di cui è stata
manifestazione il costante contrapporsi tra Draghi e il ministro delle
finanze e la banca centrale della Germania. La Commissione europea è
tutt’altro che un governo europeo e anzi la tendenza è a diminuirne la
forza, se dobbiamo interpretare la proposta tedesca di trasformare
l’Esfm14
in una sorta di Fondo monetario europeo, come un modo per ridurre
l’influenza della Commissione nelle decisioni su come affrontare il
debito pubblico dei Paesi europei maggiormente in difficoltà.
Esiste un imperialismo europeo?
Questo è lo stato dell’arte. Bisogna,
però, cercare di capire come la situazione evolverà o, almeno, quali
sono le principali prospettive evolutive.
Una prospettiva si identifica con la
tendenza verso la più o meno rapida disgregazione della Uem, a seguito
dell’accentuazione della divergenza economica tra la Germania, da una
parte, e gli altri Paesi, soprattutto Francia, Italia, Spagna,
Portogallo e Grecia. Ma anche a seguito delle pessime performance della
Uem rispetto alle altre economie avanzate mondiali, e a seguito delle
difficoltà a gestire in modo unitario le varie problematiche, a partire
dall’immigrazione.
La seconda prospettiva è quella auspicata
da molti governi, soprattutto da quelli dei Paesi più in difficoltà,
che ritengono che la soluzione ai problemi dell’Europa sia più Europa,
cioè la prosecuzione della integrazione europea, verso una maggiore
centralizzazione sul piano economico, sul piano militare e della
politica estera.
Questa strategia, che trae nuove speranze
dalla elezione di Macron, punta sulla capacità, specie francese, di
imbrigliare la Germania in un rinnovato asse franco-tedesco, e
sembrerebbe aver trovato una sponda involontaria in Trump. Al vertice
del G7 di maggio si è determinata una spaccatura tra il presidente Trump
e i governi europei a causa del disavanzo commerciale statunitense nei
confronti della Ue e in particolare della Germania e del ridotto
contributo europeo al budget della Nato.
La risposta di Angela Merkel agli
attacchi di Trump è stata tale (“Noi europei dobbiamo prendere il nostro
destino nelle nostre mani”) che alcuni vi hanno visto una storica
rottura con l’alleato atlantico, interpretandola come il possibile avvio
di un processo di autonomizzazione europeo. In realtà, Europa
occidentale e Usa sono così l’integrate, sul piano economico, politico e
militare, che risulta difficile parlare di rottura, almeno in un
periodo breve.
Se ci limitiamo al piano statale per
eccellenza, quello militare, basti pensare alla diffusa presenza di basi
militari americane in tutto il territorio europeo occidentale,
dall’Italia alla Germania. Inoltre, una Europa militarmente autonoma
dagli Usa presupporrebbe una sua capacità di dissuasione nucleare, il
cui raggiungimento non sembra realistico, anche considerando l’uso della
force de frappe francese. Senza parlare della capacità di
intervenire “fuori area” con adeguate forze aeronavali, che in Europa,
specie dopo la defezione britannica, sono al momento risibili in
confronto a quelle degli statunitensi.
La Germania sarebbe disposta a stornare
ingenti risorse economiche, cambiando modello economico, per dotarsi e
dotare l’Europa di forze armate adeguate a un ruolo mondiale?
Come ho avuto occasione di scrivere
altrove, gli attacchi di Trump, più che a scassare la Nato e a rompere
con gli europei, sembrano orientati a porre un freno al neomercantilismo
tedesco, che è ritenuto non solo foriero di pericolosi squilibri della
bilancia delle partite correnti Usa, ma anche un fattore di
rallentamento del contrasto alla crisi globale, all’interno della quale
va collocato anche l’aumento della spesa militare15.
Il punto è che oggi in Europa (e
all’interno del contesto mondiale) non esistono le condizioni per una
vera unità sovrastatale, né di tipo federale e neanche di tipo
confederale. Le divisioni sono molto forti e i meccanismi di
funzionamento dell’euro, che nessuno sembra intenzionato a modificare,
anziché favorire una unificazione statuale, la rendono ancora più
problematica.
Del resto, la creazione di eventuali
Stati Uniti d’Europa, per quanto a nostro parere poco probabili, per lo
meno in questa fase storica, non sarebbero un risultato di cui essere
contenti. Nelle condizioni e con i rapporti di forza attuali, essi
sarebbero egemonizzati dal capitale europeo e rappresenterebbero lo
strumento più potente per l’affermazione dei suoi interessi e per
l’esercizio della violenza concentrata e organizzata nelle sue mani.
Tutto ciò ci porta a porci una ulteriore
questione: esiste un imperialismo europeo o ne esistono le basi per il
suo sviluppo? O meglio: esiste un imperialismo europeo autonomo e
unitario che sia qualcosa di più della somma dei vari imperialismi dei
Paesi europei?
La sua esistenza presupporrebbe due
condizioni: l’esistenza di un capitale unitario con interessi
convergenti, per quanto i capitali possano essere unitari e avere
interessi convergenti in un contesto capitalistico di concorrenza, e
l’esistenza di uno stato unitario.
In effetti, la definizione marxiana di
“fratelli nemici” affibbiata da Marx ai capitalisti si attaglia
piuttosto bene a quelli europei. Certamente è vero che i Paesi
imperialisti europei, a parte l’unità da bravi fratelli contro i
salariati europei, possono convergere e agire unitariamente in altre
occasioni internazionali.
Sul piano commerciale e economico
rispetto all’Europa orientale e, oggi, nei confronti degli Usa, c’è una
certa convergenza. Ma in generale in queste e in altre occasioni gli
interessi a un certo punto diventano divergenti e spesso i capitali e
gli stati europei agiscono da fratelli nemici in concorrenza tra loro.
Resta, infatti, da vedere quanto alcuni stati si sentano tutelati in una
Europa finalmente unita e egemonizzata da una Germania, economicamente
ingombrante e molto vicina, che non sia controbilanciata dagli Usa,
potenti ma lontani.
Sarebbe sorprendente vedere le élite
capitalistiche e politiche (e culturali) italiane sganciarsi dagli Usa,
cui sono legate da più di 70 anni di relazioni, per aderire a un blocco
egemonizzato dalla Germania (o anche da un asse franco-tedesco),
esperienza peraltro già sperimentata poco positivamente nella Seconda
guerra mondiale.
E non si tratta solo del piano militare,
anche su quello commerciale gli interessi della Germania, ad esempio nel
modo di rapportarsi con i dazi da imporre alle importazioni cinesi,
sono in contrasto, ad esempio, con quelli italiani.
La storia europea del Novecento e dei
secoli precedenti – almeno a partire dal XVI secolo – è una storia di
lotte degli stati europei occidentali, magari con l’aiuto di un alleato
esterno (Impero ottomano, Russia e Usa), contro qualunque stato
continentale (Spagna, Francia, Germania) abbia voluto di volta in volta
imporsi come potenza egemone. La rottura del balance of power, seguente al tentativo egemonico, è stata sempre prodromica al conflitto continentale, dalla guerra dei Trent’anni alla Seconda guerra mondiale.
Appare poco probabile che si affermi una
tendenza opposta, almeno in questa fase, visto che siamo in assenza di
un processo di maggiore unificazione e che anzi ci sono molte tendenze
centrifughe, a fronte di un allargamento delle divergenze economiche e
della conflittualità tra Paesi europei.
E questo vale anche e soprattutto per
Francia, che pure dovrebbe essere l’altro lato di un ricostituito asse
franco-tedesco su cui rifondare l’Europa. I transalpini, infatti, hanno
subito più dell’Italia le conseguenze dell’aggressività economica della
Germania, registrando in Europa forse la decadenza politica e economica
relativa maggiore, rispetto a quello che ancora all’epoca di Mitterand
appariva ancora come un partner di pari peso.
E comunque, la mancanza di uno stato
unitario, di una politica estera, di forze armate e di polizia europee
sono un limite pesante, per la cui realizzazione non mi pare ci siano le
condizioni, tantomeno in tempi storicamente brevi. Quindi, è difficile
dire che esista oggi un imperialismo europeo in grado di porsi come polo
imperialista autonomo o che esistano le basi perché si realizzi in
tempi storicamente brevi.
Più probabile, invece, è la possibilità
di realizzare alleanze o forme di integrazione militare o di politica
estera a geometria variabile, specie tra la Germania e i suoi satelliti
(Olanda, Austria, Romania), come in effetti sembra stia accadendo.
L’impedimento maggiore è proprio
l’indisponibilità della Germania a essere vincolata in una struttura
politicamente più centralizzata, dove gli altri stati, la Francia
essenzialmente e, in misura minore, l’Italia e la Spagna, conterebbero
maggiormente e, soprattutto, la costringerebbero a rinunciare a una
parte dei suoi vantaggi competitivi e benefici economici.
La crisi del capitale non fa sconti a
nessuno e la riduzione della profittabilità degli investimenti e delle
quote di commercio mondiale non sono il migliore stimolo a dividere in
modo concorde le prede con gli altri concorrenti, specie se sono meno
forti.
Per il momento l’unico dato certo che va
registrato è l’aumento delle contraddizioni tra capitali e tra stati a
tutti i livelli, all’interno dell’asse atlantico e all’interno della Ue
che a cascata si estendono alle varie aree di influenza, dal Medio
Oriente all’Africa, all’Asia orientale. Ne consegue la necessità di
seguire con attenzione l’evoluzione di queste contraddizioni per capirne
gli esiti futuri e le implicazioni pratiche per le politiche delle
classi subalterne, che, sulla base di quanto detto fino a qui, devono
ruotare attorno al contrasto alla Ue e alla eliminazione della
integrazione valutaria.
Note
1 Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Il saggiatore, 2003.
2 Antonio Gramsci, Intellettuali italiani all’estero, in (a cura di) Giovanni Urbani, “La formazione dell’uomo”, Editori Riuniti, Roma 1974. Antonio Gramsci, Interpretazioni del Risorgimento, e Direzione politico-militare del moto, in A. Gramsci, “Quaderno 19 Risorgimento italiano”, Einaudi, Torino 1977.
3 A. Gramsci, Interpretazioni del Risorgimento, Ibidem.
4 Aa. Vv., Una proposta contro la crisi, un milione di addetti nella Pa, Economia e politica, 11 maggio 2017. http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/una-proposta-contro-la-crisi-un-milione-di-addetti-nella-p-a/
5 Domenico Moro, Le vere cause del debito pubblico italiano, in Keynes blog, 31 agosto 2012. https://keynesblog.com/2012/08/31/le-vere-cause-del-debito-pubblico-italiano/6 Nelle imprese della manifattura il Mol (margine operativo lordo) sul fatturato delle imprese italiane al di sopra del livello di piccola impresa è superiore a quello tedesco. In particolare in quella al di sopra dei 250 addetti, tra 2008 e 2014, passa dal 5,8 al 6,9%, quello della Germania passa dal 5,6 al 6,3%. Eurostat, Industry by employment size class (Nace rev. 2 B-E).
7 Domenico Moro, Perché e come l’euro va eliminato, 14 aprile 2014. https://www.sinistrainrete.info/europa/3598-domenico-moro-perche-e-come-leuro-va-eliminato.html.
8 Karl Marx, Il capitale, Libro I, La genesi del capitalista.
9 Friedrich Engels, L’Origine della Famiglia, della proprietà privata e dello stato.
10 Nicos Poulantzas, Il potere nella società contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1979.
11 “Eccesso di democrazia” è il termine utilizzato da Crozier e Huntington in The crisis of democracy, il rapporto della commissione Trilaterale del 1975. Su questo e sul ruolo dell’integrazione europea nel contrasto all’eccesso di democrazia vedi Domenico Moro, Il gruppo Bilderberg, L’élite del potere mondiale, Imprimatur, Reggio Emilia 2014.
12 Agamben, Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
13 Domenico Moro, La Terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico, Imprimatur, Reggio Emilia 2016.
14 Meccanismo di stabilizzazione finanziaria europea. Si tratta di un programma, gestito dalla Commissione europea, che recupera fondi sui mercati finanziari per aiutare gli stati in difficoltà, usando come collaterale il budget europeo.
15 Domenico Moro, Trump risposta alla crisi secolare e apertura della seconda fase della globalizzazione, Sinistra in rete https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/8531-domenico-moro-trump-risposta-alla-crisi-secolare-e-apertura-della-seconda-fase-della-globalizzazione.html
Parte III – Oltre il rifiuto del politico. L’euro come anello fondamentale del recupero della lotta politica
È necessario sul piano politico e prima
ancora sul piano teorico il superamento di una visione unilaterale della
realtà, che guardi unicamente o al livello statale o a quello
sovrastatale.
In ogni fase storica va definito qual è
il rapporto concreto che lega i livelli statale e sovrastatale
dell’accumulazione di capitale. Nell’epoca del capitalismo globalizzato
lo stato nazionale non si eclissa, si trasforma. Le funzioni che è più
utile tenere al suo interno e sulle quali il controllo della classe
dominante è più saldo, vengono rafforzate.
Viceversa, vengono delegate a organismi
sovrastatali le funzioni il cui controllo da parte della classe
dominante è più debole o incerto o la cui modifica è richiesta dalle
caratteristiche della fase dell’accumulazione capitalistica.
La conseguenza principale dell’unione
economica e valutaria europea (Uem) non è stata l’eliminazione della
sovranità nazionale dello stato, ma la modificazione dei rapporti di
forza tra le classi all’interno dello Stato, a favore dello strato di
vertice e internazionalizzato del capitale. Di conseguenza, l’obiettivo
politico principale della classe lavoratrice nel contesto europeo non è
tanto la rivendicazione della sovranità nazionale, quanto il recupero e
l’allargamento dei livelli precedenti di sovranità democratica e
popolare.
Il recupero della sovranità democratica e
popolare non va confuso con il ristabilimento di un governo popolare,
in realtà mai realizzatosi e impossibile in un contesto di rapporti di
produzione e sociali capitalistici. Il recupero della sovranità
democratica e popolare è, prima di tutto, il ristabilimento di un
contesto di lotta in cui i subalterni non siano sconfitti in partenza,
mediante la reintroduzione di meccanismi economico-istituzionali che
consentano di ridefinire rapporti di forza più favorevoli al lavoro
salariato.
Questi meccanismi si concretizzano,
innanzi tutto, nella ricollocazione al livello statale del controllo
sulla valuta, al fine di manovrare sui cambi e di attribuire alla Banca
centrale il ruolo di prestatore di ultima istanza e di acquisto dei
titoli di stato. Ovviamente, queste misure non risolvono di per sé tutte
le contraddizioni del capitalismo né i problemi dei lavoratori. Tanto
meno sono propedeutiche alla trasformazione dei rapporti di produzione
capitalistici in rapporti di produzione socialisti. Tuttavia,
indeboliscono i rapporti di produzione capitalistici, perché l’euro è
una importante leva di imposizione del comando del capitale sulla
forza-lavoro e di ristrutturazione della produzione di profitto,
mediante l’internazionalizzazione del capitale, elemento decisivo del
capitalismo odierno.
L’uscita dall’euro, dunque, è una condizione certamente non sufficiente ma necessaria, sul piano politico, e non solo sul piano economico, per il lavoro salariato.
È una condicio sine qua non,
cioè senza la quale non si può né portare avanti una politica di
bilancio pubblico espansiva, né un allagamento dell’intervento pubblico,
mediante vere pubblicizzazioni di banche o aziende di carattere
strategico, né tantomeno difendere efficacemente salari e welfare.
All’interno dell’euro si può e si deve lottare per il lavoro, il salario
e il welfare, ma non ci sono le condizioni per dispiegare con efficacia
tale lotta.
Il superamento della moneta comune
europea non va confuso con un cedimento al nazionalismo, sul quale vale
la pena fare qualche precisazione.
Come i classici del marxismo hanno ripetuto più volte, da Marx e Engels a Luxemburg a Lenin, i nazionalismi non sono qualitativamente tutti uguali dal punto di vista di classei.
Il loro carattere di classe dipende da come si collocano nei rapporti
economici e sociali, soprattutto nell’epoca dell’imperialismo.
Il nazionalismo della nazione oppressa
dall’imperialismo e il nazionalismo dei Paesi imperialisti sono molto
diversi tra loro. Ad esempio, non si può confondere il nazionalismo
arabo, in particolare quello dei Palestinesi, che si oppongono al
dominio neocoloniale israeliano con il nazionalismo italiano
novecentesco che fece da giustificazione all’invasione coloniale della
Libia e dell’Etiopia.
Oggi, l’ideologia maggiormente coerente
con il capitalismo e con l’imperialismo nella forma globalizzata, non è
tanto quella nazionalistica quanto quella cosmopolita. Ciò non toglie
che nel concreto possano realizzarsi delle combinazioni tra le due
tendenze idoelogico-politiche, ma l’aspetto globalista e cosmopolita
tende a prevalere, a meno di cambiamenti strutturali.
Ciò, però, non significa che lo stato
nazionale non si faccia carico di difendere i settori a base nazionale
del capitale, anche se questi agiscono a un livello transnazionale o
multinazionale, all’interno di una dialettica tra stati e frazioni di
capitale europei. Quello che vogliamo dire è che il capitale non si può
schematizzare e che il capitale europeo non ha interesse ad adottare una
ideologia nazionalista organica, così come non ha necessariamente
interesse alla diffusione di massa della xenofobia o del rifiuto degli
immigrati.
Al di là di certi livelli, la tendenza
xenofoba supererebbe i vantaggi dati dalla divisione interna al lavoro
salariato e, determinando il blocco dei flussi di immigrati, potrebbe
ostacolare la creazione di una massa di disoccupati e occupati precari,
cioè di quell’esercito industriale di riserva che è vitale per
l’accumulazione di capitale, specialmente nell’attuale contesto di
riduzione e di invecchiamento della popolazione europea. Secondo lo
scenario demografico delineato da Eurostat, la popolazione della Ue,
senza l’apporto degli immigrati, nel 2060 sarebbe inferiore di 60
milioni a quella del 2015, e la popolazione della Germania sarebbe
inferiore di 18,5 milioniii.
Non è un caso che il paese più aperto
all’immigrazione sia proprio la Germania, che, avendo il più basso tasso
di natalità e la popolazioni più anziana in Europa, ha bisogno di un
flusso continuo e consistente di immigrati se vuole mantenere il suo
ruolo di potenza economica mondiale. Né è un caso, dall’altra parte, che
proprio il liberale e europeista Macron, che avrebbe dovuto salvare
l’unità europea, proprio sugli immigrati rifiuti di collaborare con
l’Italia (ma non era la Le Pen quella anti-immigrati?).
Infatti, sempre tra 2015 e 2060, la
Francia sarebbe l’unico Paese europeo (insieme a Irlanda e Norvegia) a
aumentare la sua popolazione, anche senza immigrati, di 3,2 milioni,
superando la Germania come Paese più popoloso d’Europa. È, quindi,
evidente che dietro l’immigrazione ci sono potenti interessi, accentuati
dal fatto che l’immigrazione incide sulla modificazione dei rapporti di
forza e di potere tra i Paesi più importanti dell’Europa.
L’ideologia xenofoba e nazionalistica,
oltre a essere agitata da forze piccolo-borghesi, alcune volte ma non
sempre di origine neo-fascista, diventa espressione di una parte delle
masse lavoratrici salariate, spesso ridotte alla condizione di
sottoproletariato dalla internazionalizzazione dell’economia, dalle
delocalizzazioni e dall’austerity europea. Per la verità, è
persino difficile qualificare come nazionalismo l’insieme
contraddittorio e multiforme delle posizioni che emergono un po’
dappertutto in Europa.
Quello che chiamiamo ripresa del
nazionalismo non si caratterizza per l’esaltazione della propria
identità contro gli altri Paesi europei, né appare essere un sostegno
ideologico all’aggressione militare e all’espansionismo imperialista,
come nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento. A guidare
l’interventismo militare occidentale negli ultimi decenni sono state
dirigenze politiche tutt’altro che classicamente nazionaliste e che
semmai si sono caratterizzate per un orientamento globalista e
cosmopolita, come quelle liberal e socialdemocratiche di Clinton, Blair,
D’Alema e Hollande.
Al contrario, il “nazionalismo” attuale
ha un carattere difensivo, di reazione verso i costi della
globalizzazione e della integrazione europea. Oggi, l’aggressione e
l’espansionismo in Europa avvengono direttamente sul piano economico,
mediante meccanismi “neutrali”, che si servono dell’integrazione
monetaria e economica europea.
La Germania attuale, a differenza di
quella guglielmina e di quella nazista, non elimina le resistenze
interne del lavoro salariato e non raggiunge l’egemonia in Europa
mediante la violenza aperta, ma mediante i meccanismi impersonali del
mercato, di cui l’euro e i vincoli di bilancio europei sono
“facilitatori”. A “spezzare le reni” alla Grecia questa volta non sono
state le colonne di panzer germanici ma i vincoli del Fiscal compact e
dell’euro.
Coscienza politica di classe
Insomma, è accaduto quello che accade in
questi casi: le classi subalterne, in assenza di una ideologia e di una
soggettività politica organizzata, che siano autonome espressioni dei
loro interessi, adottano l’ideologia immediatamente disponibile, o che
nasce spontaneamente sulla base delle percezioni soggettive. In altri
termini, prevale quello che Lukacs chiamava il “pensiero della vita
quotidiana”, cioè una coscienza della realtà e del mondo basata su
esperienze immediate, particolari e frammentate, invece che sulla
costruzione di una visione organica e generale di classe, basata sulla
comprensione scientifica delle cause degli eventi socialiiii.
Oggi, chi voglia ricostruire un
antagonismo e una coscienza di classe è costretto a procedere
faticosamente in mezzo a un coacervo di tendenze contrastanti.
La prima tendenza è quella che indirizza i
lavoratori o verso avversari secondari e “superficiali”, come la
politica e i partiti, compresi indistintamente nella non categoria della
“casta”, o contro avversari fittizi, come gli immigrati.
La seconda è quella che si fonda sulla
combinazione di globalismo (che in Europa assume la forma
dell’europeismo), e di una cultura basata sui diritti della persona
astratta, e, quindi, sulle diversità e sulla difesa delle minoranze,
declinate, però, in alternativa (e in implicita contrapposizione) alla
contraddizione tra lavoro-salariato e capitale e soprattutto alla
trasformazione dei rapporti di produzione.
La terza consiste in una concezione fondamentalmente anarchica dello Stato, che considera lo Stato tout court il nemico, indipendentemente dal suo carattere di classe e finisce per ignorarlo come obiettivo e terreno della lotta.
Di conseguenza, non ci si pone
l’obiettivo di lottare per l’abbattimento dello stato del capitale e per
la sua trasformazione in senso democratico e socialista. Si pensa di
poter agire al di fuori e a prescindere dallo Stato, creando spazi
sociali paralleli a quelli del capitale e illusoriamente “liberati”. Di
conseguenza, la globalizzazione viene persino considerata positiva nella
misura in cui permetterebbe di superare e rendere obsoleto lo Stato,
identificato con lo stato nazione, liberando così le possibilità di
riscatto delle “moltitudini”.
La quarta tendenza, conseguenza delle
precedenti tendenze, consiste nel rifiuto della politica, che si estende
fino al rifiuto della forma del partito politico. In alcuni casi si
tratta di un rifiuto consapevole, in altri della implicita fuoriuscita
dal terreno della politica.
Per politica intendiamo l’orientamento a
muoversi sul terreno dei rapporti di forza complessivi tra le classi per
realizzare la loro modificazione. Marx prima e Lenin poi hanno definito
l’azione politica da parte del lavoro salariato come la capacità di
superare il particolare per andare al generale. Ciò significa andare
oltre la lotta che contrappone il singolo capitalista ai suoi operai o
persino oltre la lotta che oppone l’insieme dei capitalisti all’insieme
degli operai per andare sul terreno dei rapporti e della lotta fra tutte
le classi, che avesse come obiettivo la lotta contro lo Stato, inteso
come sintesi della generalità dei rapporti sociali.
Lenin definiva la tendenza
particolaristica con il termine di economicismo o di trade-unionismo,
perché impersonata dal sindacato, e quella generale come coscienza di
classe, questa sarebbe dovuta provenire dall’esterno.
Ma, al contrario di come alcuni hanno
voluto interpretare, l’”esterno” per Lenin non è il partito, inteso come
avanguardia separata e detentrice di una verità assoluta da calare
nelle teste dei lavoratori, bensì è il processo esperienziale delle
lotte generali, la capacità di ricollegare nella pratica particolare e
generale, tattica e strategia: “La coscienza politica di classe può
essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno
della lotta economica, dall’esterno della lotta economica, dall’esterno
della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il campo dal quale
soltanto è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti
tra tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi.”iv
Ovviamente con questo Lenin non intendeva
giudicare inutile la lotta economica o le lotte spontanee dei
subalterni, ma evidenziava la necessità di costruire una sintesi
dialettica e più alta delle lotte economiche e politiche. Del resto, la
storia della sinistra di classe in Europa e negli Stati Uniti dagli anni
’70 e ’80 dell’Ottocento agli anni ’70 del Novecento è il tentativo, a
volte riuscito a volte fallito, di combinare l’economico e il politico,
superandone la separazione determinata dalla struttura stessa dei
rapporti sociali capitalistici e dalla dialettica
politico-rappresentativa borghese.
Oggi, la frammentazione e il
particolarismo delle lotte sono molto più accentuati che all’inizio del
Novecento. Non esiste soltanto un problema di economicismo, cioè di
restringimento delle lotte dei salariati entro il perimetro della mera
rivendicazione economica e dell’ambiente lavorativo. La contraddizione
tra lavoro salariato e capitale è percepita all’interno della sinistra, a
partire dagli anni ’80-’90, sempre come più secondaria, confondendosi
in mezzo a una serie di altre tematiche, che non vengono collegate tra
di loro né – ed è l’aspetto peggiore – a una critica globale al sistema
capitalistico.
La tendenza dominante è quella a
sviluppare lotte a un livello sempre più particolaristico e locale, fino
ad arrivare a quelle lotte autoreferenziali che sono definite con
l’acronimo inglese nimby (not in my backyard, cioè non
nel mio giardino di casa). In genere, si tratta di lotte che, non solo
sono senza collegamento con una critica al modo di produzione
capitalistico, ma che fondamentalmente sono scollegate da una
interpretazione più complessiva delle relazioni economiche e sociali e,
quindi, sono incapaci di prospettate alternative e soluzioni realistiche
ed efficaci anche nel contesto dei rapporti di produzione vigenti.
Spesso tale approccio è motivato dalla sfiducia verso una prospettiva
di cambiamento complessivo e dalla erronea convinzione che il
perseguimento di obiettivi limitati sia il modo migliore per risolvere i
propri problemi.Cos’è la politica e come recuperare un discorso politico di classe
In un tale contesto la politica non ha
spazio. Ovviamente non ha spazio la politica in senso proprio, cioè
quella intesa come critica e modifica dei rapporti di forza generali e
delle condizioni complessive delle classi subalterne.
Visto che le linee guida generali su cui
si muove la società sono decise a livello governativo e intergovernativo
e si manifestano come conseguenza dei meccanismi impersonali dei
mercati, la politica si riduce a scontro di potere tra fazioni della
classe dominante, degenerando in accaparramento privato di risorse
pubbliche, particolarismo e scambio locale di favori, ecc. È naturale
che, in un tale contesto, venga meno la necessità e la spinta al
dibattito e al confronto ideologico e programmatico interno ai partiti.
Ciò rende asfittica la vita democratica
interna ai partiti e facilita l’emergere, al livello nazionale, del
leaderismo personalistico e, al livello locale, dei potentati e del
notabilato, generando al contempo, insieme alle privatizzazioni e alle
esternalizzazioni dei servizi pubblici, un terreno fertile per lo
sviluppo di fenomeni di corruzione e criminalità politica.
Di fronte alla percezione della inutilità
della politica ad affrontare le questioni veramente nodali – dalla
disoccupazione di massa al collasso dei servizi essenziali a livello
nazionale e locale -, l’astensionismo cresce dappertutto in Europa.
L’unico margine di partecipazione,
lasciato ai cittadini dai sistemi elettorali maggioritari, è la scelta
del “meno peggio” o la speranza della sostituzione di un partito con un
altro al governo del Paese, sulla base di una valutazione il più delle
volte morale, come se le cause della crisi fossero dovute alla maggiore o
minore onestà o alla semplice efficienza del ceto politico e non invece
ai rapporti di produzione, alle scelte di politica economica e ai
meccanismi valutari, all’interno dei quali quelle scelte vengono
attuate.
La politica, come abbiamo detto, è
capacità di operare su di un piano generale. Quindi, compito principale
di un partito è, in primo luogo, definire e fornire ai suoi riferenti
sociali un indirizzo, un orientamento generale. Ne consegue che
l’abilità di un vero politico consiste nel capire qual è l’anello
principale della catena dei fatti complessi e multiformi della realtà e
tenerlo saldamente in pugno. La ricostruzione di una linea e di una
organizzazione politica delle classi subalterne passa, quindi, per il
recupero di una prospettiva generale, che superi, inglobandole in modo
organico, le particolarità locali e le specificità tematiche in una
critica complessiva al responsabile delle situazione, cioè il modo di
produzione capitalistico.
Qual è oggi l’anello principale che si
deve tenere in pugno? Secondo la nostra opinione, per le ragioni fin qui
esposte, è l’integrazione europea e in particolare l’integrazione
valutaria.
In effetti, non è credibile lottare per
la sanità, per il salario, per la creazione di posti di lavoro, per i
servizi del proprio comune se si cozza contro la gabbia
dell’integrazione europea, soprattutto valutaria. Né è possibile lottare
per altre questioni, comprese quelle di genere e ambientali, se non ci
si pone la questione dell’Europa.
Inoltre, attaccare l’austerity e l’euro
vuol dire attaccare il capitale non solo nel suo punto centrale, ma
anche lì dove è più facile far leva, perché è lì che l’avversario è più
debole.
È nella sbilenca costruzione europea e
nella tutt’altro che ottimale unione monetaria che il capitale europeo
mostra più chiaramente le sue irrisolvibili contraddizioni. In questo
senso, l’obiettivo del superamento dell’euro permette di recuperare i
salariati, i disoccupati e i giovani alla partecipazione politica e di
ricostruire una coscienza di classe a livello europeo.
Infatti, l’euro determina non la
convergenza dei Paesi europei, bensì, ampliando i divari economici,
aumenta la divergenza tra i Paesi europei e tra le classi all’interno
dei singoli Paesi. L’aumento dei divari economici tra Paesi e classi e
l’espulsione di vaste masse dal mondo del lavoro garantito e dalla
capacità di incidere sul processo decisionale, hanno causato la
disaffezione verso la politica e i partiti tradizionali di
centro-sinistra e centro-destra e un conseguente vuoto di
rappresentanza.
In assenza di una risposta adeguata da
parte delle forze politiche della sinistra antagonista e del lavoro, ciò
ha costituito il terreno favorevole, oltre che per l’aumento
dell’astensionismo, per lo sviluppo delle uniche forze che si sono
presentate sulla scena. Sono le forze di estrema destra, xenofobe,
nazionaliste o legate a espressioni di una critica superficiale e
moralistica al sistema della politica.
L’euro, in quanto espressione e risposta
del capitale alla sua crisi strutturale, ha contribuito in modo
determinante a riprodurre in Europa occidentale il nazionalismo e la
xenofobia a livello di massa, per la prima volta dopo settanta anni
dalla fine della Seconda guerra mondiale. I meccanismi dell’integrazione
valutaria creano o approfondiscono le divisioni tra le classi operaie
dei singoli Paesi, mettendole in competizione le une contro le altre sul
piano salariale e della riduzione del welfare e dividendo i popoli in
“cicale” e spreconi, come i greci e gli italiani, e in “formiche” e
probi, come i tedeschi. Ben altro, quindi, che lo sviluppo di
solidarietà e valori comuni, ben altro che il superamento del
nazionalismo e la ricomposizione di classe grazie alla globalizzazione e
all’Europa.
Solamente una elaborazione politica che
metta al centro la pratica dell’obiettivo del superamento dell’euro,
collegandola a una critica dei rapporti di produzione, alla crisi del
capitale e al neoliberismo, può permettere di rilanciare una politica
che sia insieme efficace a livello nazionale e internazionalista a
livello europeo, permettendo alla sinistra di classe di ricreare una
forza politica che non sia vista come residuale e ormai destinata al
cimitero della storia.
Per concludere, lo scopo di una organizzazione politica della classe
lavoratrice non deve essere soltanto quello di raggiungere determinati
obiettivi pratici, di miglioramento delle condizioni di vita immediate
dei lavoratori salariati, cioè di essere “utile”.
Ovviamente, non stiamo dicendo che non
sia importante rendersi utili e che ciò non sia importante per poter
fondare un orientamento generale. Vogliamo dire che compito principale
di una forza politica che intenda crescere e radicarsi è soprattutto
quello di ragionare in prospettiva, sedimentando coscienza di classe,
come base essenziale della costruzione di rapporti di forza
progressivamente sempre più favorevoli.
Ciò significa promuovere la maturazione
nelle classi subalterne della consapevolezza dei rapporti di produzione,
di come questi funzionino e di quali siano gli interessi complessivi
dei salariati in quanto classe. Lo strumento di tale sedimentazione non
può limitarsi alla diffusione ideologica, sebbene la elaborazione e la
diffusione di una visione del mondo organica e scientifica sia
fondamentale. La sedimentazione della coscienza di classe a livello più
largo non può che avvenire sul terreno della politica, nel senso più
alto del termine, dimostrando a quanti sono sfiduciati e si astengono e
che un’altra politica è possibile.
Una politica diversa da quella delle
lotte per questo o quell’obiettivo particolare o dalla competizione per
qualche punto percentuale in più o in meno di voti allo scopo di
superare uno sbarramento elettorale.
La politica è uno strumento di
trasformazione soltanto quando la strategia di trasformazione della
realtà in senso complessivo e socialista si collega con la tattica, cioè
con la capacità di identificare e tenere con mano salda gli anelli che
risultano di volta in volta decisivi nella catena del divenire storico
della società capitalistica. Oggi, in Europa occidentale, questo anello è
rappresentato dall’integrazione economica e valutaria.
Notei Lenin, Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, in “L’internazionale comunista”, n.11, 14 giugno 1920.
ii Eurostat, Population on 1st January by age, sex and type of projection.
iii György Lukàcs, Estetica, volume primo, pp. 40-41, Einaudi, Milano 1975.
iv Lenin, Che fare?, in Lenin, Trockij, “Luxemburg, Rivoluzione e polemica sul partito”, Newton compton editori, Roma 1973, pag. 113.
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