mercoledì 26 luglio 2017

La UE e il Megadirettore Galattico

 di Luca Timponelli da Senso-Comune


Senso Comune è un movimento che crede nella giustizia sociale e nella collaborazione tra le nazioni per il raggiungimento di una prosperità comune. Ed è proprio per questo che la nostra posizione non può che essere radicalmente critica dell’Unione europea e delle sue istituzioni. Ci hanno raccontato che l’Unione europea sarebbe stato un sogno di pace e prosperità; esso si è rivelato un incubo che fomenta la competizione al ribasso nei diritti e l’ostilità tra i paesi. Questo perché la sua architettura istituzionale rende costitutivamente impossibile qualsiasi politica finalizzata al miglioramento delle condizioni di lavoro e dell’occupazione, al soddisfacimento dei bisogni dei cittadini mediante l’erogazione di servizi pubblici, a una politica industriale che promuova lo sviluppo e colmi i gravissimi squilibri regionali che, ora come ora, si stanno soltanto accrescendo.

Vediamo bene perché:

1) I vincoli alla politica fiscale: lo Stato deve poter spendere per poter assicurare servizi che siano  alla portata di tutti (istruzione, sanità, alloggio, mobilità, accesso ai beni comuni, ecc.), realizzare opere a vantaggio della collettività che altrimenti resterebbero appannaggio di poche aree già ben inserite nel commercio internazionale (un’efficiente rete infrastrutturale, una ricerca ad alto livello,  ecc.), creare posti di lavoro quando i privati – come oggi – si mostrano maldisposti a farlo, intervenire in situazioni di emergenza come i terremoti che hanno martoriato recentemente il nostro paese e mettere in sicurezza il territorio. Poiché il settore privato difficilmente fa pieno uso delle risorse disponibili (men che meno in una situazione come la presente, in cui la disoccupazione in Italia supera l’11%, il 22% in Grecia, il 17% in Spagna, il 9% in Francia, cifra quest’ultima corrispondente alla media europea), non solo la spesa pubblica non rischia di generare derive inflazionistiche, ma, mobilitando risorse che altrimenti resterebbero inutilizzate e creando domanda che altrimenti non vi sarebbe, può stimolare la crescita. A questa condizione il ricorso alla spesa a deficit non deve costituire un elemento di preoccupazione, e anzi rappresenta uno strumento necessario per la realizzazione di una società più equa e prospera, tanto mobilitando capacità produttiva non adoperata ed estirpando il flagello della disoccupazione, quanto indirizzandone l’uso verso scopi socialmente utili.

Già il trattato di Maastricht prevedeva un tetto al 3% al rapporto deficit/PIL. Il Fiscal Compact, in vigore dal 2013, ha poi portato allo 0,5% il rapporto deficit/PIL strutturale, al netto delle situazioni di emergenza, e disposto l’inserimento del pareggio di bilancio nelle Costituzioni degli Stati aderenti, snaturando così la marcata impostazione sociale di molte di esse. È questo il caso anche della nostra, in cui la realizzazione di alcuni princìpi fondamentali, il diritto al lavoro e l’obbligo di colmare le diseguaglianze materiali tra i cittadini, è contraddetta dal nuovo articolo 81. Lo Stato ha così, come orgogliosamente proclamavano due sostenitori dell’unione economica e monetaria, Francesco Giavazzi e Marco Pagano, “le mani legate” davanti all’ingiustizia lacerante che sommerge sempre più i paesi europei, anche quelli sbandierati come modello di pubblica virtù.

2) L’indipendenza della banca centrale e i vincoli di mandato: per poter praticare politiche fiscali espansive come quelle di cui abbiamo appena parlato, lo Stato necessita di finanziarsi a un tasso di interesse sostenibile. Il controllo del tasso di interesse è in mano alla banca centrale, che può regolarlo attraverso l’acquisto (o la vendita) dei titoli di Stato. La decisione di rendere indipendente la banca centrale dal governo fa venir meno questa garanzia di finanziamento a un tasso sostenibile. Lo Stato è così costretto a doversi finanziare ai tassi di interesse praticati sui mercati internazionali e vede messa a rischio la sostenibilità dei propri programmi di spesa (e, dunque, delle tutele accordate ai suoi cittadini), che si trova alla mercé dei capricci del capitale finanziario. L’indipendenza della banca centrale fu decisa in Italia nel 1981 per accordo tra l’allora ministro del tesoro Beniamino Andreatta e il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. Questa mossa fu vista come necessaria per assicurare alla Banca d’Italia la capacità di mantenere il cambio nei margini stabiliti dagli accordi del 1979 sullo SME, il sistema di cambi semi-rigidi istituito dall’allora Comunità economica europea. Dietro la volontà tanto sbandierata dall’allora governatore di contenere l’inflazione ancorando il valore della propria moneta a un paniere di valute di paesi stranieri, uno dei quali – la Germania – perseguiva già storicamente un orientamento restrittivo di politica monetaria, si nascondeva a stento la finalità – confessata esplicitamente dallo lo stesso ministro a proposito del divorzio –  di moderare le rivendicazioni salariali dei lavoratori attraverso una contrazione del credito che, facendo aumentare la disoccupazione, ne avrebbe minato il potere contrattuale. Vediamo già all’opera la perniciosa ideologia del vincolo esterno: si invoca un’istanza moralizzatrice superiore alla quale dovremmo cedere la sovranità che noi, popolo minorenne e incivile, saremmo incapaci di gestire da soli. Si progetta un’architettura insostenibile senza politiche restrittive e, giustificando queste ultime in nome dei sacrifici per restare nel club dei paesi civili e rispettabili, si procede alla macelleria sociale. Il risultato principale del divorzio, sia detto per inciso, fu un sostanziale incremento della spesa per interessi che ha contribuito non poco all’accumulo del nostro stock di debito pubblico.

Lo Statuto della Banca centrale europea, istituita dal Trattato di Maastricht, ha confermato questa impostazione per il nuovo istituto e per tutte le banche centrali facenti parte dell’Eurosistema (art. 7 del Protocollo sullo statuto del Sistema europeo di banche centrali e della Banca centrale europea), proibendo l’acquisto diretto di titoli di Stato dei paesi membri e qualsiasi altra facilitazione creditizia nei confronti di enti pubblici (art. 21). Si aggiunga a questo che l’obiettivo principale della politica monetaria della BCE è dichiaratamente la stabilità dei prezzi, alla quale ogni eventuale obiettivo occupazionale è esplicitamente subordinato (art. 2). Considerazioni sul contenimento dell’inflazione hanno priorità sul mantenimento di un basso tasso di disoccupazione. L’agenda della BCE è dunque smaccatamente conservatrice, favorendo un clima deflattivo dichiaratamente ostile all’erogazione dei servizi pubblici e a una piena occupazione capace di rafforzare eccessivamente, a giudizio di chi ha redatto i Trattati, le rivendicazioni dei lavoratori. Ben vengano piuttosto la stagnazione e la disoccupazione, noialtri, pensano a Bruxelles e a Francoforte, certo non morremo di fame nel frattempo! Si noti tra l’altro che la BCE si è rivelata incapace di garantire finanche la stabilità dei prezzi, visto che sono anni che cerca – inutilmente – di alzare il tasso di inflazione medio dell’eurozona per arrivare almeno al livello “vicino ma inferiore al 2%” che sarebbe tenuta a rispettare per mandato.

C’è poi un altro punto da sottolineare: “l’indipendenza” delle altre banche centrali dai loro rispettivi governi è ben diversa dalla’“indipendenza” della BCE dai rispettivi Stati membri. Prendiamo l’esempio della Fed: pur essendo formalmente indipendente, la banca centrale statunitense non si sognerebbe mai di  mettersi di traverso alle politiche del governo, dimostrando che negli USA – a differenza che nell’eurozona – la banca centrale non considera le decisioni del governo in materia di politica fiscale come un fatto di sua competenza. D’altronde, Bernanke ha messo bene in chiaro quale sia il grado di “indipendenza” della Fed quando ha dichiarato che “è ovvio che faremo quello che il Congresso ci dice di fare”.  Nell’eurozona, invece, la BCE si comporta come un vero e proprio governo, utilizzando il proprio monopolio della moneta per imporre politiche agli Stati membri. Lo abbiamo visto in maniera eclatante in Grecia nel corso dell’estate del 2015, quando “la BCE ha effettivamente interrotto il supporto di liquidità deliberatamente allo scopo di destabilizzare ulteriormente il sistema dei pagamenti greci e costringere il governo di SYRIZA ad accettare le dure misure di austerità” volute dalla troika, come ha scritto Mario Seccareccia. Insomma, in Europea non è la banca centrale ad essere indipendente dai governi ma sono i governi ad essere dipendenti dalla banca centrale: una bella differenza!

3) La libera circolazione dei capitali e delle merci: se lo Stato è impossibilitato a spendere, gran parte della domanda dovrà inevitabilmente provenire dal molto più instabile settore privato. Tale domanda, complice anche la pesante finanziarizzazione dell’economia a cui si è assistito negli anni ’80 e ’90, si espanderà rapidamente nelle fasi di euforia, per poi collassare a seguito di investimenti mal diretti e rischiosi, come quelli in titoli coperti da mutui subprime che hanno fatto esplodere la grande crisi del 2008. Nel frattempo, l’apertura dei singoli paesi al commercio internazionale mette a repentaglio le industrie nazionali il cui costo del lavoro per unità di prodotto è più alto a vantaggio dei paesi in cui è più basso. È il caso, quest’ultimo, della Germania, in cui a una produttività del lavoro storicamente superiore si aggiunge nel frattempo una politica di contenimento del costo del lavoro (= taglio dei salari) con le riforme Hartz. Gli effetti però non vengono percepiti immediatamente: il credito erogato dai paesi del centro viene adoperato per consumi privati e permette così il mantenimento di un invariato tenore di vita, mentre in nome del principio del vantaggio comparato gli economisti invitano a non preoccuparsi troppo della deindustrializzazione in corso nei paesi periferici, che possono “specializzarsi” nella loro “vocazione naturale”: il turismo, l’agricoltura e altri settori a basso valore aggiunto. Nasce in questo modo una nuova divisione internazionale del lavoro in cui alcune aree assumono necessariamente una posizione subordinata. Le norme sulla concorrenza costringono inoltre lo Stato a liberalizzare tutti quei settori, monopoli naturali conclusi, in cui esercitava precedentemente un controllo e ne assicurava l’accesso a basso prezzo alla popolazione: elettricità, gas, servizio ferroviario.

Mentre l’indebitamento pubblico si riduce a causa della crescita indotta dall’euforia degli investitori, quello privato si espande fino al momento in cui si scopre che investimenti intelligenti e razionali come la speculazione su mutui concessi a disoccupati o il finanziamento al consumo delle famiglie non daranno alcun rendimento. Si ha allora il tracollo, e il flusso di credito (che dalle banche tedesche si dirigeva abbondantemente verso le periferie) si interrompe. Lo Stato è costretto a intervenire per socializzare le perdite delle banche, moltiplicando così, nonostante i tagli ai servizi fatti per restare conformi ai parametri di Maastricht, il proprio stock di debito pubblico.  Privo degli strumenti di politica monetaria e fiscale che gli permetterebbero di generare crescita e occupazione lui stesso, lo Stato non ha altra scelta, ci dicono, che sperare di far ripartire gli investimenti privati cercando di “riconquistare la fiducia” degli investitori attraverso le famose “riforme strutturali”. Si cercherà dunque di aumentare i loro margini di profitto comprimendo il costo del lavoro (leggasi: tagliando i salari, oppure le imposte sui redditi che finanziano pensioni e stato sociale) e l’imposizione fiscale (attaccando inoltre il principio della sua progressività). Da un lato si indeboliscono le tutele dei lavoratori (come successo in Italia con il Jobs Act), dall’altro, riducendo la tassazione, si mina l’altra fonte di finanziamento dei servizi pubblici. I risultati tardano ad arrivare, e intanto il grande capitale può comunque trarre vantaggio dalla ridefinizione dei rapporti di forza nei confronti dei lavoratori. Contemporaneamente il venir meno del credito privato, dal quale dipende anche la sostenibilità del debito pubblico, condanna a continue “cure dimagranti”, praticate sulla nostra pelle per ridurre lo stock di debito accumulato. Tali “cure” hanno però l’effetto contrario: comprimendo la domanda aggregata e rallentando la crescita, aggravano ulteriormente la situazione: nasce in questo modo un circolo vizioso in cui lo stock di debito cresce, i liberisti invocano un’altra dose di tagli, e così via… Va da sé che i singoli Stati dovranno fare a gara per assicurare agli investitori condizioni per loro sempre più vantaggiose, generando una competizione al ribasso mediante il dumping sia salariale che fiscale, competizione in cui la stessa BCE ha giocato un ruolo non da poco condizionando l’erogazione del quantitative easing alla messa in pratica di riforme strutturali.

Se la fiducia dei mercati è assicurata (almeno così ci dicono) dalla compressione della domanda interna praticata tagliando il settore pubblico e comprimendo i salari, diventa allora necessario puntare sulla domanda estera. La domanda generale dell’eurozona (con riflessi non di poca importanza sulla domanda globale) è così destabilizzata da un modello di sviluppo che punta sulla competitività di prezzo (tanto mediante la compressione dei salari quanto, particolare non trascurabile, una svalutazione dell’euro). Si compromettono allo stesso modo anche le buone relazioni con il resto del mondo, che legittimamente non vede di buon occhio una politica mercantilista così aggressiva. Un quadro simile non permette se non ai paesi più prosperi investimenti in innovazione, che risultano comunque scoraggiati quando si preferisce e risulta più facile tagliare i salari.  Nel frattempo, i singoli governi nazionali giustificano le politiche liberiste invocando l’Unione europea come istanza superiore (“ce lo chiede l’Europa!”) o facendo del paese vicino il capro espiatorio del contesto generale (“se siamo ridotti così è colpa del tedesco cattivo / dell’italiano pigro!”), rafforzando pericolose tendenze nazionaliste e spegnendo ogni possibile sentimento di solidarietà. L’euro, come ha molto correttamente notato Wolfgang Streeck, divide l’Europa.

L’architettura dell’eurozona è perciò costitutivamente incapace a reagire a crisi sistemiche che inevitabilmente, in un capitalismo non regolato, si ripetono, se non accelerando il processo già in atto di compressione dello stato sociale, i cui servizi passano via via alla gestione privata, e di destrutturazione del diritto del lavoro. Non solo, ma tale architettura era stata voluta con l’esplicita finalità di destrutturare l’unica modalità possibile di controllare i processi economici sottoponendoli a istanze democratiche: lo Stato sovrano moderno. Ci sono a questo proposito le dichiarazioni, ad esempio, di Jacques Delors, di Tommaso Padoa Schioppa e di Mario Monti. Per tale motivo, storicamente, i partiti socialisti e comunisti guardavano all’integrazione economica europea con sospetto, da Tony Benn in Inghilterra a Georges Marchais in Francia, senza dimenticare Giancarlo Pajetta in Italia e lo stesso Giorgio Napolitano prima di essere folgorato sulla via per Bruxelles. Dovrebbe ora essere chiaro a tutti perché per Senso Comune l’integrazione europea per come si è svolta e per come la si intende proseguire, come ebbe a riconoscere anche l’ex presidente francese François Mitterand, è incompatibile con la giustizia sociale.

Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di una costruzione incompleta, che i trattati si possono riformare, che basta cambiare il mandato della BCE affinché diventi simile alla Fed perché tutto si risolva, che tutti questi ostacoli saranno superati quando un bel giorno (oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente!) avremo un’Europa federale. Bisogna anzitutto sottolineare che l’Unione europea non è una struttura incompleta, ma un meccanismo di governance multilivello in cui la frammentazione delle competenze e l’allontanamento delle decisioni dalle istituzioni di rappresentanza parlamentare è funzionale a impedire l’aggregazione al centro di istanze sociali. Un’integrazione in senso “statalista” è peraltro osteggiata da tutte le principali forze europeiste. La soluzione federale, più che sovvertire questo impianto, lo rafforzerebbe, eliminando ogni ambiguità residua di competenze tra i diversi livelli. Fautori dell’opzione federale erano pensatori liberali come von Hayek e Einaudi, lucidamente consapevoli del fatto che una federazione europea avrebbe reso impossibile politiche sociali a causa degli inevitabili conflitti tra le diverse regioni del continente per la distribuzione delle risorse, in concomitanza all’impossibilità per i singoli Stati di far uso di politiche monetarie e fiscali espansive. Non manca anche oggi chi, vagheggiando il sogno europeo, ci ricorda che questo sarà possibile soltanto con una percentuale di spesa pubblica in rapporto al PIL inferiore a quella degli Stati Uniti, i quali a loro volta, non sono esattamente un luogo in cui sia facile portare avanti rivendicazioni sociali. Ma anche immaginando che una soluzione di raffinata ingegneria costituzionale permetta di superare questi ostacoli, un cambiamento dei trattati richiederebbe l’accordo di tutti i paesi membri. 27 governi con posizioni radicali in materia di politica economica dovrebbero essere contemporaneamente al potere. Che si crei un consenso tale nello stato attuale delle cose è impossibile anche a voler essere ottimisti, e chi ancora invita a confidarci, sembra farlo con la stessa simpatia verso le istanze sociali del Megadirettore di fantozziana memoria, che invita a discuterne finché non saremo tutti d’accordo. Lui, comunque, può permettersi di aspettare…

La linea di Senso Comune non ha dunque nulla a che vedere con le prese di posizione euroscettiche della destra, né ritiene auspicabile una rottura degli attuali equilibri se questo non si accompagni all’adozione di quelle politiche economiche espansive che l’ordinamento dell’Unione europea proibisce. Siamo inoltre ben lungi dal credere che la riconquista della libertà del tasso di cambio costituisca la panacea dei problemi di produttività del sistema paese, che necessitano di una politica industriale volta alla riqualificazione del tessuto produttivo verso settori più innovativi e al recupero del Mezzogiorno. Politica industriale che, è superfluo ribadirlo, la normativa europea valuterebbe come interferenza nel meccanismo concorrenziale. Nulla abbiamo da spartire con i Salvini che attaccano l’euro per poi ribadire che a creare il lavoro sono i privati e mai lo Stato, né con chi coltiva miti di autarchia: forme di collaborazione con i nostri vicini diverse dall’Unione europea e che producono risultati positivi ce ne sono tante, senza che queste comportino cessioni di sovranità ad autorità lontane dalla legittimazione democratica. Pensiamo ad esempio all’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea, o alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Allo stesso modo appoggiamo tutti i movimenti e partiti democratici che in Europa  perseguono il nostro stesso ideale di una società più giusta e prospera. Con loro vogliamo costruire una nuova Europa, di paesi sovrani che insieme possono collaborare allo sviluppo della propria casa comune e a un avvenire migliore per le nuove generazioni rispetto a quello che Maastricht ha consegnato alla nostra.

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