di Luca Timponelli da Senso-Comune
Senso Comune è un movimento che crede nella giustizia sociale e nella
collaborazione tra le nazioni per il raggiungimento di una prosperità
comune. Ed è proprio per questo che la nostra posizione non può che
essere radicalmente critica dell’Unione europea e delle sue istituzioni.
Ci hanno raccontato che l’Unione europea sarebbe stato un sogno di pace
e prosperità; esso si è rivelato un incubo che fomenta la competizione
al ribasso nei diritti e l’ostilità tra i paesi. Questo perché la sua
architettura istituzionale rende costitutivamente impossibile qualsiasi
politica finalizzata al miglioramento delle condizioni di lavoro e
dell’occupazione, al soddisfacimento dei bisogni dei cittadini mediante
l’erogazione di servizi pubblici, a una politica industriale che
promuova lo sviluppo e colmi i gravissimi squilibri regionali che, ora
come ora, si stanno soltanto accrescendo.
Vediamo bene perché:
1) I vincoli alla politica fiscale: lo Stato deve poter spendere per
poter assicurare servizi che siano alla portata di tutti (istruzione,
sanità, alloggio, mobilità, accesso ai beni comuni, ecc.), realizzare
opere a vantaggio della collettività che altrimenti resterebbero
appannaggio di poche aree già ben inserite nel commercio internazionale
(un’efficiente rete infrastrutturale, una ricerca ad alto livello,
ecc.), creare posti di lavoro quando i privati – come oggi – si mostrano
maldisposti a farlo, intervenire in situazioni di emergenza come i
terremoti che hanno martoriato recentemente il nostro paese e mettere in
sicurezza il territorio. Poiché il settore privato difficilmente fa
pieno uso delle risorse disponibili (men che meno in una situazione come
la presente, in cui la disoccupazione in Italia supera l’11%, il 22% in
Grecia, il 17% in Spagna, il 9% in Francia, cifra quest’ultima
corrispondente alla media europea), non solo la spesa pubblica non
rischia di generare derive inflazionistiche, ma, mobilitando risorse che
altrimenti resterebbero inutilizzate e creando domanda che altrimenti
non vi sarebbe, può stimolare la crescita. A questa condizione il
ricorso alla spesa a deficit non deve costituire un elemento di
preoccupazione, e anzi rappresenta uno strumento necessario per la
realizzazione di una società più equa e prospera, tanto mobilitando
capacità produttiva non adoperata ed estirpando il flagello della
disoccupazione, quanto indirizzandone l’uso verso scopi socialmente
utili.
Già il trattato di Maastricht prevedeva un tetto al 3% al rapporto
deficit/PIL. Il Fiscal Compact, in vigore dal 2013, ha poi portato allo
0,5% il rapporto deficit/PIL strutturale, al netto delle situazioni di
emergenza, e disposto l’inserimento del pareggio di bilancio nelle
Costituzioni degli Stati aderenti, snaturando così la marcata
impostazione sociale di molte di esse. È questo il caso anche della
nostra, in cui la realizzazione di alcuni princìpi fondamentali, il
diritto al lavoro e l’obbligo di colmare le diseguaglianze materiali tra
i cittadini, è contraddetta dal nuovo articolo 81. Lo Stato ha così,
come orgogliosamente proclamavano due sostenitori dell’unione economica e
monetaria, Francesco Giavazzi e Marco Pagano,
“le mani legate” davanti all’ingiustizia lacerante che sommerge sempre
più i paesi europei, anche quelli sbandierati come modello di pubblica
virtù.
2) L’indipendenza della banca centrale e i vincoli di mandato: per
poter praticare politiche fiscali espansive come quelle di cui abbiamo
appena parlato, lo Stato necessita di finanziarsi a un tasso di
interesse sostenibile. Il controllo del tasso di interesse è in mano
alla banca centrale, che può regolarlo attraverso l’acquisto (o la
vendita) dei titoli di Stato. La decisione di rendere indipendente la
banca centrale dal governo fa venir meno questa garanzia di
finanziamento a un tasso sostenibile. Lo Stato è così costretto a
doversi finanziare ai tassi di interesse praticati sui mercati
internazionali e vede messa a rischio la sostenibilità dei propri
programmi di spesa (e, dunque, delle tutele accordate ai suoi
cittadini), che si trova alla mercé dei capricci del capitale
finanziario. L’indipendenza della banca centrale fu decisa in Italia nel
1981 per accordo tra l’allora ministro del tesoro Beniamino Andreatta e
il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. Questa mossa
fu vista come necessaria per assicurare alla Banca d’Italia la capacità
di mantenere il cambio nei margini stabiliti dagli accordi del 1979
sullo SME, il sistema di cambi semi-rigidi istituito dall’allora
Comunità economica europea. Dietro la volontà tanto sbandierata
dall’allora governatore di contenere l’inflazione ancorando il valore
della propria moneta a un paniere di valute di paesi stranieri, uno dei
quali – la Germania – perseguiva già storicamente un orientamento
restrittivo di politica monetaria, si nascondeva a stento la finalità –
confessata esplicitamente dallo lo stesso ministro a proposito del
divorzio – di moderare le rivendicazioni salariali dei lavoratori
attraverso una contrazione del credito che, facendo aumentare la
disoccupazione, ne avrebbe minato il potere contrattuale. Vediamo già
all’opera la perniciosa ideologia del vincolo esterno: si invoca
un’istanza moralizzatrice superiore alla quale dovremmo cedere la
sovranità che noi, popolo minorenne e incivile, saremmo incapaci di
gestire da soli. Si progetta un’architettura insostenibile senza
politiche restrittive e, giustificando queste ultime in nome dei
sacrifici per restare nel club dei paesi civili e rispettabili, si
procede alla macelleria sociale. Il risultato principale del divorzio,
sia detto per inciso, fu un sostanziale incremento della spesa per
interessi che ha contribuito non poco all’accumulo del nostro stock di
debito pubblico.
Lo Statuto della Banca centrale europea, istituita dal Trattato di
Maastricht, ha confermato questa impostazione per il nuovo istituto e
per tutte le banche centrali facenti parte dell’Eurosistema (art. 7 del
Protocollo sullo statuto del Sistema europeo di banche centrali e della
Banca centrale europea), proibendo l’acquisto diretto di titoli di Stato
dei paesi membri e qualsiasi altra facilitazione creditizia nei
confronti di enti pubblici (art. 21). Si aggiunga a questo che
l’obiettivo principale della politica monetaria della BCE è
dichiaratamente la stabilità dei prezzi, alla quale ogni eventuale
obiettivo occupazionale è esplicitamente subordinato (art. 2).
Considerazioni sul contenimento dell’inflazione hanno priorità sul
mantenimento di un basso tasso di disoccupazione. L’agenda della BCE è
dunque smaccatamente conservatrice, favorendo un clima deflattivo
dichiaratamente ostile all’erogazione dei servizi pubblici e a una piena
occupazione capace di rafforzare eccessivamente, a giudizio di chi ha
redatto i Trattati, le rivendicazioni dei lavoratori. Ben vengano
piuttosto la stagnazione e la disoccupazione, noialtri, pensano a
Bruxelles e a Francoforte, certo non morremo di fame nel frattempo! Si
noti tra l’altro che la BCE si è rivelata incapace di garantire finanche
la stabilità dei prezzi, visto che sono anni che cerca – inutilmente –
di alzare il tasso di inflazione medio dell’eurozona per arrivare almeno
al livello “vicino ma inferiore al 2%” che sarebbe tenuta a rispettare
per mandato.
C’è poi un altro punto da sottolineare: “l’indipendenza” delle altre
banche centrali dai loro rispettivi governi è ben diversa
dalla’“indipendenza” della BCE dai rispettivi Stati membri. Prendiamo
l’esempio della Fed: pur essendo formalmente indipendente, la banca
centrale statunitense non si sognerebbe mai di mettersi di traverso
alle politiche del governo, dimostrando che negli USA – a differenza che
nell’eurozona – la banca centrale non considera le decisioni del
governo in materia di politica fiscale come un fatto di sua competenza.
D’altronde, Bernanke ha messo bene in chiaro quale sia il grado di
“indipendenza” della Fed quando ha dichiarato che “è ovvio che faremo
quello che il Congresso ci dice di fare”. Nell’eurozona, invece, la BCE
si comporta come un vero e proprio governo, utilizzando il proprio
monopolio della moneta per imporre politiche agli Stati membri. Lo
abbiamo visto in maniera eclatante in Grecia nel corso dell’estate del
2015, quando “la BCE ha effettivamente interrotto il supporto di
liquidità deliberatamente allo scopo di destabilizzare ulteriormente il
sistema dei pagamenti greci e costringere il governo di SYRIZA ad
accettare le dure misure di austerità” volute dalla troika, come ha
scritto Mario Seccareccia. Insomma, in Europea non è la banca centrale
ad essere indipendente dai governi ma sono i governi ad essere
dipendenti dalla banca centrale: una bella differenza!
3) La libera circolazione dei capitali e delle merci: se lo Stato è
impossibilitato a spendere, gran parte della domanda dovrà
inevitabilmente provenire dal molto più instabile settore privato. Tale
domanda, complice anche la pesante finanziarizzazione dell’economia a
cui si è assistito negli anni ’80 e ’90, si espanderà rapidamente nelle
fasi di euforia, per poi collassare a seguito di investimenti mal
diretti e rischiosi, come quelli in titoli coperti da mutui subprime che
hanno fatto esplodere la grande crisi del 2008. Nel frattempo,
l’apertura dei singoli paesi al commercio internazionale mette a
repentaglio le industrie nazionali il cui costo del lavoro per unità di
prodotto è più alto a vantaggio dei paesi in cui è più basso. È il caso,
quest’ultimo, della Germania, in cui a una produttività del lavoro
storicamente superiore si aggiunge nel frattempo una politica di
contenimento del costo del lavoro (= taglio dei salari) con le riforme
Hartz. Gli effetti però non vengono percepiti immediatamente: il credito
erogato dai paesi del centro viene adoperato per consumi privati e
permette così il mantenimento di un invariato tenore di vita, mentre in
nome del principio del vantaggio comparato gli economisti invitano a non
preoccuparsi troppo della deindustrializzazione in corso nei paesi
periferici, che possono “specializzarsi” nella loro “vocazione
naturale”: il turismo, l’agricoltura e altri settori a basso valore
aggiunto. Nasce in questo modo una nuova divisione internazionale del
lavoro in cui alcune aree assumono necessariamente una posizione
subordinata. Le norme sulla concorrenza costringono inoltre lo Stato a
liberalizzare tutti quei settori, monopoli naturali conclusi, in cui
esercitava precedentemente un controllo e ne assicurava l’accesso a
basso prezzo alla popolazione: elettricità, gas, servizio ferroviario.
Mentre l’indebitamento pubblico si riduce a causa della crescita
indotta dall’euforia degli investitori, quello privato si espande fino
al momento in cui si scopre che investimenti intelligenti e razionali
come la speculazione su mutui concessi a disoccupati o il finanziamento
al consumo delle famiglie non daranno alcun rendimento. Si ha allora il
tracollo, e il flusso di credito (che dalle banche tedesche si dirigeva
abbondantemente verso le periferie) si interrompe. Lo Stato è costretto a
intervenire per socializzare le perdite delle banche, moltiplicando
così, nonostante i tagli ai servizi fatti per restare conformi ai
parametri di Maastricht, il proprio stock di debito pubblico. Privo
degli strumenti di politica monetaria e fiscale che gli permetterebbero
di generare crescita e occupazione lui stesso, lo Stato non ha altra
scelta, ci dicono, che sperare di far ripartire gli investimenti privati
cercando di “riconquistare la fiducia” degli investitori attraverso le
famose “riforme strutturali”. Si cercherà dunque di aumentare i loro
margini di profitto comprimendo il costo del lavoro (leggasi: tagliando i
salari, oppure le imposte sui redditi che finanziano pensioni e stato
sociale) e l’imposizione fiscale (attaccando inoltre il principio della
sua progressività). Da un lato si indeboliscono le tutele dei lavoratori
(come successo in Italia con il Jobs Act), dall’altro, riducendo la
tassazione, si mina l’altra fonte di finanziamento dei servizi pubblici.
I risultati tardano ad arrivare, e intanto il grande capitale può
comunque trarre vantaggio dalla ridefinizione dei rapporti di forza nei
confronti dei lavoratori. Contemporaneamente il venir meno del credito
privato, dal quale dipende anche la sostenibilità del debito pubblico,
condanna a continue “cure dimagranti”, praticate sulla nostra pelle per
ridurre lo stock di debito accumulato. Tali “cure” hanno però l’effetto
contrario: comprimendo la domanda aggregata e rallentando la crescita,
aggravano ulteriormente la situazione: nasce in questo modo un circolo
vizioso in cui lo stock di debito cresce, i liberisti invocano un’altra
dose di tagli, e così via… Va da sé che i singoli Stati dovranno fare a
gara per assicurare agli investitori condizioni per loro sempre più
vantaggiose, generando una competizione al ribasso mediante il dumping
sia salariale che fiscale, competizione in cui la stessa BCE ha giocato
un ruolo non da poco condizionando l’erogazione del quantitative easing
alla messa in pratica di riforme strutturali.
Se la fiducia dei mercati è assicurata (almeno così ci dicono) dalla
compressione della domanda interna praticata tagliando il settore
pubblico e comprimendo i salari, diventa allora necessario puntare sulla
domanda estera. La domanda generale dell’eurozona (con riflessi non di
poca importanza sulla domanda globale) è così destabilizzata da un
modello di sviluppo che punta sulla competitività di prezzo (tanto
mediante la compressione dei salari quanto, particolare non
trascurabile, una svalutazione dell’euro). Si compromettono allo stesso
modo anche le buone relazioni con il resto del mondo, che legittimamente
non vede di buon occhio una politica mercantilista così aggressiva. Un
quadro simile non permette se non ai paesi più prosperi investimenti in
innovazione, che risultano comunque scoraggiati quando si preferisce e
risulta più facile tagliare i salari. Nel frattempo, i singoli governi
nazionali giustificano le politiche liberiste invocando l’Unione europea
come istanza superiore (“ce lo chiede l’Europa!”) o facendo del paese
vicino il capro espiatorio del contesto generale (“se siamo ridotti così
è colpa del tedesco cattivo / dell’italiano pigro!”), rafforzando
pericolose tendenze nazionaliste e spegnendo ogni possibile sentimento
di solidarietà. L’euro, come ha molto correttamente notato Wolfgang Streeck, divide l’Europa.
L’architettura dell’eurozona è perciò costitutivamente incapace a
reagire a crisi sistemiche che inevitabilmente, in un capitalismo non
regolato, si ripetono, se non accelerando il processo già in atto di
compressione dello stato sociale, i cui servizi passano via via alla
gestione privata, e di destrutturazione del diritto del lavoro. Non
solo, ma tale architettura era stata voluta con l’esplicita finalità di
destrutturare l’unica modalità possibile di controllare i processi
economici sottoponendoli a istanze democratiche: lo Stato sovrano
moderno. Ci sono a questo proposito le dichiarazioni, ad esempio, di
Jacques Delors, di Tommaso Padoa Schioppa e di Mario Monti. Per tale
motivo, storicamente, i partiti socialisti e comunisti guardavano
all’integrazione economica europea con sospetto, da Tony Benn in
Inghilterra a Georges Marchais in Francia, senza dimenticare Giancarlo
Pajetta in Italia e lo stesso Giorgio Napolitano prima di essere
folgorato sulla via per Bruxelles. Dovrebbe ora essere chiaro a tutti
perché per Senso Comune l’integrazione europea per come si è svolta e
per come la si intende proseguire, come ebbe a riconoscere anche l’ex
presidente francese François Mitterand, è incompatibile con la giustizia sociale.
Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di una costruzione
incompleta, che i trattati si possono riformare, che basta cambiare il
mandato della BCE affinché diventi simile alla Fed perché tutto si
risolva, che tutti questi ostacoli saranno superati quando un bel giorno
(oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente!) avremo un’Europa
federale. Bisogna anzitutto sottolineare che l’Unione europea non è una
struttura incompleta, ma un meccanismo di governance multilivello in cui
la frammentazione delle competenze e l’allontanamento delle decisioni
dalle istituzioni di rappresentanza parlamentare è funzionale a impedire
l’aggregazione al centro di istanze sociali. Un’integrazione in senso
“statalista” è peraltro osteggiata da tutte le principali forze
europeiste. La soluzione federale, più che sovvertire questo impianto,
lo rafforzerebbe, eliminando ogni ambiguità residua di competenze tra i
diversi livelli. Fautori dell’opzione federale erano pensatori liberali
come von Hayek e Einaudi,
lucidamente consapevoli del fatto che una federazione europea avrebbe
reso impossibile politiche sociali a causa degli inevitabili conflitti
tra le diverse regioni del continente per la distribuzione delle
risorse, in concomitanza all’impossibilità per i singoli Stati di far
uso di politiche monetarie e fiscali espansive. Non manca anche oggi chi, vagheggiando
il sogno europeo, ci ricorda che questo sarà possibile soltanto con una
percentuale di spesa pubblica in rapporto al PIL inferiore a quella degli Stati Uniti,
i quali a loro volta, non sono esattamente un luogo in cui sia facile
portare avanti rivendicazioni sociali. Ma anche immaginando che una
soluzione di raffinata ingegneria costituzionale permetta di superare
questi ostacoli, un cambiamento dei trattati richiederebbe l’accordo di
tutti i paesi membri. 27 governi con posizioni radicali in materia di
politica economica dovrebbero essere contemporaneamente al potere. Che
si crei un consenso tale nello stato attuale delle cose è impossibile
anche a voler essere ottimisti, e chi ancora invita a confidarci, sembra
farlo con la stessa simpatia verso le istanze sociali del Megadirettore
di fantozziana memoria, che invita a discuterne finché non saremo tutti
d’accordo. Lui, comunque, può permettersi di aspettare…
La linea di Senso Comune non ha dunque nulla a che vedere con le
prese di posizione euroscettiche della destra, né ritiene auspicabile
una rottura degli attuali equilibri se questo non si accompagni
all’adozione di quelle politiche economiche espansive che l’ordinamento
dell’Unione europea proibisce. Siamo inoltre ben lungi dal credere che
la riconquista della libertà del tasso di cambio costituisca la panacea
dei problemi di produttività del sistema paese, che necessitano di una
politica industriale volta alla riqualificazione del tessuto produttivo
verso settori più innovativi e al recupero del Mezzogiorno. Politica
industriale che, è superfluo ribadirlo, la normativa europea valuterebbe
come interferenza nel meccanismo concorrenziale. Nulla abbiamo da
spartire con i Salvini che attaccano l’euro per poi ribadire che a
creare il lavoro sono i privati e mai lo Stato, né con chi coltiva miti
di autarchia: forme di collaborazione con i nostri vicini diverse
dall’Unione europea e che producono risultati positivi ce ne sono tante,
senza che queste comportino cessioni di sovranità ad autorità lontane
dalla legittimazione democratica. Pensiamo ad esempio all’ESA, l’Agenzia
Spaziale Europea, o alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Allo
stesso modo appoggiamo tutti i movimenti e partiti democratici che in
Europa perseguono il nostro stesso ideale di una società più giusta e
prospera. Con loro vogliamo costruire una nuova Europa, di paesi sovrani
che insieme possono collaborare allo sviluppo della propria casa comune
e a un avvenire migliore per le nuove generazioni rispetto a quello che
Maastricht ha consegnato alla nostra.
mercoledì 26 luglio 2017
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