di William Mitchell e Thomas Fazi (da
American
Affairs)
traduzione di Domenico D'Amico
Attualmente l'Occidente si trova nel
bel mezzo di una ribellione contro l'establishment, una ribellione di
proporzioni storiche. Il voto sulla Brexit nel Regno Unito,
l'elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, il rifiuto della
riforma costituzionale neoliberista di Matteo enzi in Italia,
l'inopinata crisi di legittimità dell'Unione Europea – per quanto
questi fenomeni, pur correlati, differiscano quanto a fini e
motivazioni ideologiche, rappresentano tutti il rifiuto dell'ordine
(neo)liberista che ha dominato il mondo, particolarmente l'Occidente,
negli ultimi trent'anni.
Anche se il sistema si è dimostrato
capace (per lo più) di assorbire e neutralizzare simili agitazioni
elettorali, nell'immediato non ci sono segni che questa rivolta
contro l'establishment possa placarsi. (1) Nel mondo industrializzato
il consenso per i partiti anti-establishmant è al suo massimo dagli
anni 30, e continua a crescere. (2) Contemporaneamente, il sostegno
per i partiti maggiori, inclusi quelli di tradizione
socialdemocratica, è crollato. Le cause immediate di questa reazione
avversa sono piuttosto ovvie. La crisi finanziaria del 2007-2009 ha
posto sotto gli occhi di tutti la terra bruciata che il neoliberismo
lascia dietro di sé, per nascondere la quale le élite hanno fatto
grandi sforzi, sia materialmente (tramite la finanziarizzazione) sia
ideologicamente (tramite i richiami alla “fine della Storia”).
Mentre il credito si esauriva, diventava evidente che per anni
l'economia aveva continuato a crescere perché le banche stavano
distribuendo, per mezzo del debito, il potere di acquisto che
l'impresa non forniva col salario. Per parafrasare Warren Buffett,
l'abbassamento della marea sollevata dal debito ha rivelato che quasi
tutti, di fatto, stavano nuotando nudi.
La situazione, ieri come oggi, si è
aggravata ulteriormente a causa delle politiche di austerità e di
deflazione salariale perseguite dopo la crisi da molti governi
occidentali, particolarmente quelli europei. Questi governi hanno
visto nella crisi l'opportunità di imporre un regime neoliberista
ancora più drastico, e di perseguire politiche delineate per
compiacere il settore finanziario e le classi abbienti, a spese di
chiunque altro. Per cui il progetto (ancora da portare a termine) a
base di privatizzazioni, deregolamentazioni e tagli allo stato
sociale, è stato rilanciato con rinnovato rigore.
In un contesto di crescente
insoddisfazione popolare, disordini sociali e disoccupazione di massa
in molti paesi europei, le élite politiche di entrambe le sponde
dell'Atlantico hanno risposto con argomentazioni e politiche in
continuità col passato. Come risultato, il contratto sociale che
lega i cittadini ai tradizionali partiti di governo è più a rischio
oggi di quanto lo sia mai stato dai tempi della II Guerra Mondiale –
e in alcuni paesi è probabilmente già saltato.
Il Declino della Sinistra
Anche limitando il raggio della nostra
analisi al periodo postbellico, movimenti e partiti anti-sistema non
sono una novità in Occidente. Almeno fino agli anni 80,
l'anticapitalismo rimaneva una forza rilevante con cui si doveva fare
i conti. La novità è che oggi – a differenza di venti, trenta o
quaranta anni fa – sono movimenti e partiti di destra ed estrema
destra (insieme a nuove formazioni del neoliberista “estremo
centro”, come il partito La République en Marche del
neo-presidente francese Emmanuel Macron) a guidare la rivolta. Messi
insieme, destra ed “estremo centro” sopravanzano di gran lunga
movimenti e partiti di sinistra, sia in termini di forza elettorale
sia in termini di influenza sull'opinione pubblica. A parte poche
eccezioni, nella maggior parte dei paesi i partiti di sinistra –
vale a dire quelli a sinistra dei tradizionali partiti
socialdemocratici – sono relegati ai margini dello spettro
politico. Contemporaneamente, paese europeo dopo paese europeo, le
tradizionali forze socialdemocratiche vengono “pasokizzate” -
cioè ridotte all'irrilevanza parlamentare, alla pari di molte delle
loro controparti di centro-destra, per via della loro adesione al
neoliberismo e all'incapacità di offrire credibili alternative allo
status quo. (Il termine “pasokizzato” si riferisce al
partito socialdemocratico greco PASOK, praticamente spazzato via nel
2014 come conseguenza della sua inetta gestione della crisi debitoria
della Grecia, dopo aver dominato la scena politica per più di
trent'anni). Un destino analogo si è abbattuto su molti ex giganti
dell'establishment socialdemocratico, quali il Partito Socialista
francese e il Partito Laburista olandese (PvdA). Il consenso dei
partiti socialdemocratici è oggi al livello più basso degli ultimi
settant'anni – e la discesa continua. (3)
Come dovremmo spiegarci il declino
della Sinistra – non soltanto il declino elettorale di quei partiti
che sono comunemente associati all'ala sinistra dello spettro
politico, a prescindere dal loro effettivo orientamento politico, ma
anche il declino dei valori fondamentali della Sinistra sia nei
partiti sia nella società in generale? Come mai la Sinistra
anti-establishment si è finora dimostrata incapace di riempire il
vuoto provocato dal crollo della Sinistra di potere [establishment
Left]? Più in generale, com'è giunta la Sinistra a contare così
poco nella politica globale? È possibile per la Sinistra, sia
culturalmente sia politicamente, tornare a essere una forza di primo
piano nella nostra società? E nel caso, in qual modo?
In questi ultimi anni la Sinistra ha
fatto qualche progresso in alcuni paesi. Esempi significativi
includono Bernie Sanders negli Stati Uniti, il partito Podemos in
Spagna e Jean-Luc Mélenchon in Francia, così come l'ascesa al
potere di Syriza in Grecia (prima che venisse rapidamente rimessa in
riga dall'establishment europeo). Tuttavia è innegabile che, per lo
più, i movimenti e partiti di estrema destra siano stati più
efficaci di quelli di sinistra o progressisti nell'attingere al
malcontento di masse diseredate, marginalizzate, impoverite ed
espropriate dalla quarantennale lotta di classe scatenata dalle
classi dominanti. In particolare, queste sono le sole forze capaci di
fornire una risposta (più o meno) coerente alla diffusa – e
crescente – aspirazione a una maggiore sovranità territoriale o
nazionale. Questa esigenza viene vista sempre di più come l'unico
modo, in mancanza di un reale meccanismo rappresentativo
sovranazionale, per riconquistare un qualche grado di controllo
collettivo su politica e società, e in particolare sui flussi di
capitale, sugli scambi e sulle persone che formano il nucleo della
globalizzazione neoliberista.
Data la guerra che il neoliberismo ha
condotto contro la sovranità, non dovrebbe sorprenderci che “la
sovranità [sia] diventata lo schema dominante [master frame] [1]
della politica contemporanea,” come nota Paolo Gerbaudo. (4)
Dopotutto, lo svuotamento della sovranità nazionale e le restrizioni
al meccanismo della democrazia popolare – ciò che si è definito
come depoliticizzazione – è stato un elemento essenziale del
progetto neoliberista, mirante a proteggere le politiche
macroeconomiche dalla contestazione popolare, e a rimuovere qualsiasi
ostacolo si opponesse agli scambi economici e ai flussi finanziari.
Dati gli effetti nefasti della depoliticizzazione, è del tutto
naturale che la rivolta contro il neoliberismo debba primariamente e
principalmente assumere la forma di una richiesta impellente di
ripoliticizzazione dei processi decisionali nazionali.
Il fatto che alcune visioni della
sovranità nazionale si configurino per linee etniche, esclusiviste e
autoritarie, non dovrebbe essere visto come incriminante per la
sovranità nazionale in se stessa. La storia dimostra che la
sovranità nazionale e l'autodeterminazione nazionale non sono
intrinsecamente concetti reazionari e sciovinisti – di
fatto, essi sono stati il grido di battaglia di innumerevoli
movimenti di liberazione, socialisti e di sinistra, nel XIX e XX
Secolo.
Anche limitando la nostra analisi ai
maggiori paesi capitalisti, è evidente che in pratica tutti i
maggiori progressi sociali, economici e politici dei secoli passati
sono stati ottenuti tramite le istituzioni dello stato-nazione
democratico, e non per mezzo di istituzioni multilaterali,
internazionali o sovranazionali. Anzi, le istituzioni globali sono
state variamente utilizzate per far regredire quelle medesime
conquiste, come abbiamo visto nel contesto della crisi dell'Euro,
durante la quale istituzioni sovranazionali (che non rispondono a
nessuno) come la Commissione Europea, l'Eurogruppo e la Banca
Centrale Europea hanno usato il loro potere e la loro autorità per
imporre una rovinosa austerità a paesi in difficoltà. Il problema,
per farla breve, non è la sovranità in quanto tale, ma il fatto che
questo concetto sia stato abbandonato nelle mani di chi cerca di
imporre un progetto xenofobico e identitario. Sarebbe perciò un
grave errore liquidare la seduzione del “Trumpenproletariat” da
parte dell'Estrema Destra come un caso di falsa coscienza, come
osserva Marc Saxer. (5) Le classi lavoratrici si stanno semplicemente
rivolgendo agli unici (finora) movimenti e partiti che promettono
loro un minimo di riparo dai venti brutali della globalizzazione
neoliberista. Che intendano davvero mantenere simili promesse, questo
è un altro discorso. A ogni modo, ciò fa sorgere un interrogativo
ancora più grande: perché la Sinistra non è stata capace di
offrire alle classi lavoratrici e alle classi medie sempre più
proletarizzate un'alternativa credibile al neoliberismo e alla
globalizzazione neoliberista? Più di preciso, perché non è stata
capace di sviluppare una visione progressista della sovranità
nazionale? Come diciamo nel nostro libro di imminente uscita,
Reclaiming the State: A Progressive Vision of Sovereignty for a
Post-Neoliberal World (Pluto, Settembre 2017), le ragioni sono
tante e intrecciate tra loro. Per cominciare, è importante
comprendere che l'attuale crisi esistenziale della Sinistra ha
profonde radici storiche, risalenti almeno fino a anni 60. Se
vogliamo capire lo sbandamento della Sinistra, è da qui che la
nostra analisi deve iniziare.
La Fine dell'Era Keynesiana
Oggi molti a Sinistra magnificano l'era
“keynesiana” del secondo dopoguerra come un'età dell'oro in cui
i lavoratori organizzati, insieme a pensatori e politici illuminati
(come lo stesso Keynes) furono capaci di imporre ai capitalisti
recalcitranti un “compromesso di classe” portatore di un
progresso sociale mai visto prima – che però è stato in seguito
rintuzzato dalla cosiddetta controrivoluzione neoliberista. Se ne è
dedotto, quindi, che per sconfiggere il neoliberismo basterebbe che
un numero sufficiente di appartenenti all'establishment adottasse un
ordine di idee alternativo [al loro]. Tuttavia, l'ascesa e declino
del keynesismo non si può spiegare semplicemente considerando il
potere della classe lavoratrice o la vittoria di un'ideologia
sull'altra, ma dovrebbe essere vista come il risultato della
convergenza fortuita, nel secondo dopoguerra, di una serie di
condizioni sociali, ideologiche, politiche, economiche, tecniche e
istituzionali.
Non facendolo, si commetterebbe lo
stesso errore che in molti, a Sinistra, commisero nell'immediato
dopoguerra. Non riuscendo a valutare fino a che punto il compromesso
di classe alla base del sistema fordista-keynesiano fosse, di fatto,
elemento fondamentale di quello specifico (storicamente) regime di
accumulazione, molti socialisti di quel periodo si convinsero “di
aver fatto più del dovuto nel modificare l'equilibrio del potere di
classe e la relazione tra stato e mercato”. (6) In linea con questo
ragionamento, ignorarono il fatto che la classe capitalista aveva
attivamente sostenuto il compromesso di classe solo nella misura in
cui era funzionale al profitto, e che perciò, una volta cessata la
sua utilità, l'avrebbe rigettato. Alcuni affermavano perfino che il
mondo industrializzato fosse già entrato in una fase
postcapitalista, nella quale tutti gli aspetti caratteristici del
capitalismo erano scomparsi per sempre, grazie a una fondamentale
traslazione di potere a favore del lavoro e a svantaggio del
capitale, e dello stato a svantaggio del mercato. Inutile dirlo, le
cose non stavano affatto così. In aggiunta, il monetarismo –
precursore ideologico del neoliberismo – aveva cominciato a
diffondersi nelle concezioni politiche della Sinistra sin dai tardi
anni 60.
In tal modo, nella Sinistra furono in
molti a trovarsi sprovvisti degli strumenti teorici necessari per
comprendere contrastare adeguatamente la crisi capitalistica
che negli anni travolse il modello keynesiano. Si convinsero invece
che la lotta distributiva sorta a quell'epoca si potesse risolvere
all'interno dei limiti angusti del sistema socialdemocratico. La
verità era che il conflitto capitale-lavoro riemerso negli anni 70
si sarebbe potuto risolvere solo in due modi: dalla parte del
capitale, attraverso una riduzione del potere contrattuale del
lavoro, o dalla parte del lavoro, attraverso un estensione del
controllo dello stato su produzione e investimenti. Come mostriamo in
Reclaiming the State, riguardo l'esperienza dei governi
socialdemocratici britannici e francesi degli anni 70 e 80, la
Sinistra non ebbe la volontà di percorrere questa strada. L'unica
scelta rimasta fu quella di “gestire la crisi del capitale per
conto del capitale”, come scriveva Stuart Hall, legittimando
ideologicamente e politicamente il neoliberismo come unica soluzione
per la sopravvivenza del capitalismo. (7)
Da questo punto di vista, il governo
britannico del laburista James Callaghan (1976-1979) reca gravi
responsabilità. In un famoso (o famigerato) discorso del 1976
Callaghan giustificava il programma governativo di tagli alla spesa e
moderazione salariale dichiarando che il keynesismo era morto,
legittimando indirettamente l'emergente dogma monetarista
(neoliberista) e creando di fatto le condizioni perché l'“austerity
lite” [austerità
moderata] del Partito Laburista venisse rimodulata da Margarett
Tatcher in un assalto totale alla classe lavoratrice. Forse ancora
peggio, Callaghan rese popolare il concetto che l'austerity fosse
l'unica soluzione per la crisi degli anni 70, anticipando il mantra
“non ci sono alternative” [there is no alternative (TINA)] di
Tatcher, sebbene al tempo alternative radicali esistessero,
come quelle proposte da Tony Benn e altri. Ma queste, tuttavia,
“nella comune percezione non esistevano più” [no
longer perceived to exist]. (8)
In questo senso, lo smantellamento del
sistema keynesiano postbellico non può essere spiegato semplicemente
come la vittoria di un'ideologia (“neoliberismo”) su un'altra
(“keynesismo”), ma interpretato come la risultanza di numerosi, e
intrecciati, fattori ideologici, economici e politici: la risposta
dei capitalisti al calo dei profitti e alle implicazioni politiche
delle strategie per la piena occupazione, i difetti strutturali del
“keynesismo reale” [actually existing keynesism]; e la
significativa incapacità della Sinistra di proporre una risposta
coerente alla crisi del sistema keynesiano, men che meno
un'alternativa radicale.
La Globalizzazione e lo Stato
Oltretutto, lungo gli anni 70 e 80, un
nuovo (ed errato) concetto condiviso a sinistra cominciò a
concretizzarsi nel contesto dell'internazionalizzazione economica e
finanziaria – quella che oggi chiamiamo “globalizzazione” - e
rese lo stato sempre più impotente rispetto alle “forze del
mercato”. Ne conseguiva, questo il ragionamento, che le nazioni non
avevano quasi altra scelta che abbandonare le strategie economiche
nazionali e qualsiasi strumento tradizionale di intervento
nell'economia – imposte e altre barriere commerciali, controllo del
capitale, manipolazione di valute e tassi di scambio, politiche
fiscali e politiche legate alle banche centrali. Al massimo,
avrebbero potuto solo sperare in forme di gestione economica
transnazionali o sovranazionali. In altre parole, l'intervento dei
governi nell'economia veniva visto non solo come inefficace ma,
sempre di più, come del tutto impossibile. Tale processo –
generalmente (ed erroneamente) descritto come passaggio dallo stato
al mercato – era accompagnato da un attacco feroce contro la stessa
idea di sovranità nazionale, sempre più denigrata come reliquia del
passato. Come scriviamo in Reclaiming the State, la Sinistra –
in particolare la Sinistra europea – in queste vicende ha giocato
anch'essa un ruolo essenziale, rafforzando la migrazione ideologica
verso una visione del mondo post-nazionale e post-sovranità,
spesso in anticipo sulla Destra. Al riguardo, uno dei punti di svolta
più consequenziali fu, nel 1983, la svolta verso l'austerità di
François
Mitterrand – il cosiddetto tournant
de la rigueur – appena
due anni dopo la storica vitoria elettorale socialista del 1981.
L'elezione di Mitterand fece credere a molti che una rottura radicale
col capitalismo – almeno con la sua forma estrema affermatasi nei
paesi anglosassoni – fosse ancora possibile. Giunti al 1983,
comunque, i socialisti francesi erano riusciti a “dimostrare”
l'esatto contrario: che la globalizzazione neoliberista era una
realtà inevitabile e ineluttabile. Secondo le parole di Mitterand:
“Ormai la sovranità nazionale non significa più granché, né
possiede un ruolo apprezzabile nella moderna economia globale. (…)
È indispensabile un alto grado di sovranazionalità”. (9)
Le ripercussioni del voltafaccia di
Mitterand sono percepibili tutt'oggi. Intellettuali progressisti e di
sinistra insistono spesso che quella svolta fosse prova del fatto che
la globalizzazione e l'internazionalizzazione della finanza avesse
posto fine all'era dello stato-nazione e alla sua capacità di
perseguire politiche che non siano in consonanza coi diktat del
capitale globale. Il concetto è questo: se un governo cerca
autonomamente di perseguire la piena occupazione e un piano
progressista e redistributivo, inevitabilmente verrà punito dalle
forze anonime del capitale globale. Si pretende che Mitterand non
avesse altra scelta che abbandonare i suoi progetti di riforme
radicali. Per molti sinistrorsi di oggi, Mitterand rappresenta quindi
un politico pragmatico consapevole delle forze capitalistiche globali
cui doveva far fronte, e abbastanza responsabile da fare quel che era
giusto per la Francia.
In realtà, uno stato sovrano che
emetta moneta – come la Francia degli anni 80 – lungi dall'essere
inerme dinanzi al capitale globale, possiede ancora la capacità di
fornire ai propri cittadini piena occupazione e giustizia sociale.
Quindi, com'è riuscita l'idea della “morte dello stato” a
mettere radici così profonde nella coscienza collettiva? A questa
visione postnazionale del mondo era (è) sottesa l'incapacità da
parte del personale intellettuale e politico della Sinistra di
comprendere – e in qualche caso il tentativo di nascondere – che
la “globalizzazione” non era (non è) il risultato di cambiamenti
economici e tecnologici inesorabili, ma in gran parte il prodotto di
processi gestiti dallo stato. Tutti gli elementi che associamo alla
globalizzazione neoliberista – delocalizzazione,
deindustrializzazione, libero flusso di merci e capitali eccetera –
sono stati (e sono), nella maggior parte dei casi, il risultato di
scelte fatte dai governi. Più in generale, gli stati continuano a
svolgere un ruolo cruciale nel promuovere, garantire e sostenere la
struttura neoliberista internazionale (per quanto le cose sembrino in
via di cambiamento) e insieme creare le condizioni interne che
permettono all'accumulazione globale di prosperare.
La medesima cosa si può affermare per
il neoliberismo tout court. È convinzione diffusa –
particolarmente a sinistra – che il neoliberismo abbia implicato
(anche oggi) una “marcia indietro”, uno “svuotamento” o
“esaurimento” dello stato, il che a sua volta ha rafforzato il
concetto che attualmente lo stato sia stato “sopraffatto” dal
mercato. Tuttavia, uno sguardo più attento noterà che il
neoliberismo non ha comportato un'uscita di scena dello stato quanto
piuttosto una sua riconfigurazione, mirata a porre il timone
della politica economica “nelle mani del capitale, e principalmente
degli interessi finanziari”, come scrive Stephen Gill. (10)
È lapalissiano, dopotutto, che il
processo neoliberista non sarebbe stato possibile se i governi
– e in particolare quelli socialdemocratici – non fossero ricorsi
a tutta una panoplia di strumenti per promuoverlo: la
liberalizzazione di merci e flussi di capitale; la privatizzazione di
risorse e servizi sociali; la deregolamentazione delle attività
d'impresa, e dei mercati finanziari in particolare; la riduzione dei
diritti dei lavoratori (primo e più importante, il diritto alla
contrattazione collettiva) e, più in generale, la repressione
dell'attivismo sindacale; la riduzione delle tasse sulla ricchezza e
sul capitale, a spese dei lavoratori e della classe media; la
decimazione dei programmi sociali, e via e via. Queste politiche sono
state sistematicamente perseguite in tutto l'Occidente (e imposte ai
paesi in via di sviluppo) con inedita determinazione, e col sostegno
di tutte le maggiori istituzioni internazionali e dei principali
partiti politici.
Perfino la perdita di sovranità
nazionale invocata nel passato, come lo è tuttora, per giustificare
le politiche neoliberiste, è in gran parte il risultato di una
volontaria e cosciente limitazione dei diritti sovrani degli stati da
parte delle varie élite nazionali. A questo scopo, le svariate
politiche adottate dai paesi occidentali includono: (1) ridurre il
potere dei parlamenti, a fronte di quella delle burocrazie di
governo; (2) rendere le banche centrali indipendenti dai governi, col
fine dichiarato di sottomettere questi ultimi a una “disciplina
basata sul mercato”; adottare una politica focalizzata
sull'inflazione come strategia principale delle banche centrali –
un approccio che mette in primo piano una bassa inflazione come
principale obbiettivo della politica monetaria, escludendo altri
obbiettivi quali, ad esempio, la piena occupazione; adottare regole
limitatrici dell'azione politica – sulla spesa pubblica, sulla
proporzione debito-PIL, sulla concorrenza eccetera – in modo da
limitare quello che i politici possono fare su mandato dei loro
elettori; (5) subordinare i settori di spesa al controllo delle
tesorerie; (6) riadottare tassi di scambio fissi, che limitano
gravemente la capacità dei governi di esercitare il controllo sulla
politica economica; e infine, cosa forse più importante, (7) cedere
prerogative nazionali nelle mani di istituzioni sovranazionali e
burocrazie interstatali quali l'Unione Europea.
La ragione per cui i governi
sceglievano volontariamente di “legarsi le mani” è fin troppo
chiara: come esemplifica il caso europeo, la creazione di “vincoli
esterni” autoimposti ha permesso alle classi politiche nazionali di
ridurre il costo politico della transizione neoliberista – che
implicava ovviamente politiche impopolari – dando la colpa a regole
prestabilite e a istituzioni internazionali “indipendenti”, che a
loro volta venivano presentate come il risultato inevitabile delle
nuove, crude realtà della globalizzazione.
Lo Statalismo del Neoliberismo
Inoltre, il neoliberismo è stato (ed
è) associato a varie forme di autoritarismo di stato – quindi il
contrario dello stato minimo invocato dai neoliberisti – dato che
gli stati hanno rinforzato il settore securitario e poliziesco,
componente di una generale militarizzazione della gestione delle
manifestazioni di protesta. In altre parole, non solo la politica
economica neoliberista richiede la presenza di uno stato forte, ma
addirittura di uno stato autoritario sia a livello nazionale
sia internazionale, in particolar modo quando si tratta di forme
estreme di neoliberismo, come quelle sperimentate dai paesi
periferici. In questo senso, l'ideologia neoliberista, almeno nelle
sue vesti antistataliste, dovrebbe essere considerata come un mero,
conveniente alibi per quello che è stato, ed è, un progetto
essenzialmente politico e statale. Il capitale rimane
dipendente dallo stato tanto oggi quanto al tempo del keynesismo –
per tenere sotto controllo le classi lavoratrici, salvare grandi
imprese che altrimenti finirebbero in bancarotta, aprire mercati in
altri paesi (utilizzando a volte l'intervento militare) eccetera.
L'ironia suprema, o chiamiamola indecenza, è che i partiti della
Sinistra tradizionale, sia al governo sia all'opposizione, sono
diventati i portabandiera del neoliberismo.
Nei mesi e anni seguenti al crollo
finanziario del 2007-2009, la perenne dipendenza del capitale – e
del capitalismo – la dipendenza dallo stato in un'era neoliberista
è diventata vistosamente evidente, visto che i governi degli Stati
Uniti, Europa e altrove hanno tratto in salvo le rispettive
istituzioni finanziarie a colpi di bilioni di dollari. Eppure a quel
tempo nessun importante opinionista ha strillato “E i soldi da dove
si prendono?” Ben presto, comunque, quegli stessi soggetti, alcuni
dei quali diretti beneficiari dei provvedimenti di salvataggio, sono
tornati al solito ritornello, ammonendoci che i governi sono in
bancarotta, che i nostri nipoti saranno stritolati dal crescente peso
del debito pubblico, e che l'iperinflazione è in agguato.
Successivamente alla cosiddetta crisi dell'euro del 2010, in Europa
tutto questo è stato accompagnato da un assalto su tutti i fronti
contro il modello socioeconomico europeo del dopoguerra, con
l'obbiettivo di ristrutturare e riprogettare le società e le
politiche europee secondo linee maggiormente favorevoli al capitale.
Una tale riconfigurazione radicale delle società europee – che, lo
ripetiamo, ha visto in prima linea i governi socialdemocratici –
non si basa su un arretramento dello stato rispetto al mercato, ma
piuttosto da una ri-intensificazione dell'intervento statale a favore
del capitale. (11)
Nondimeno, l'idea erronea del declino
dello stato-nazione è diventata ormai elemento integrante
[entrenched fixture] della Sinistra. Visto quanto sopra, non
sorprende affatto che le maggiori formazioni di sinistra siano oggi
del tutto incapaci di offrire una concezione positiva della sovranità
nazionale che si contrapponga alla globalizzazione neoliberista. A
peggiorare ulteriormente la situazione, molti a sinistra si sono
bevuti le favole macroeconomiche che l'establishmant utilizza per
scoraggiare qualsiasi uso alternativo delle misure fiscali dello
stato. Ad esempio, hanno accettato senza fare domande la cosiddetta
analogia del “bilancio familiare”, che sostiene che i governi
emittenti valuta, come un nucleo familiare, hanno limiti finanziari
ineludibili [are financially constrained], e che un deficit fiscale
diventa un carico rovinoso per le future generazioni.
Dall'Emancipazione alla
Ratificazione dello Status Quo
Tutto ciò procede di pari passo con un
altro, parimenti tragico, sviluppo. Dopo la sua storica sconfitta, la
tradizionale attenzione anticapitalista della Sinistra verso il
concetto di classe ha lasciato il campo a una versione
liberal-individualista dell'emancipazione. Soggiogati dalle teorie
postmoderniste e poststrutturaliste, gli intellettuali della Sinistra
hanno abbandonato le categorie marxiane di classe per concentrarsi
invece su elementi del potere politico sull'uso di linguaggio e
narrazioni come mezzo per consolidare i significati. Questo cambio di
rotta ha anche delineato nuove aree di lotta politica che sono
diametralmente opposte a quelle descritte da Marx. Negli ultimi
trent'anni l'attenzione della Sinistra si è spostata dal
“capitalismo” a questioni come il razzismo, la politica di
genere, l'omofobia, il multiculturalismo eccetera. La marginalità
non viene più descritta in termini di classe ma in termini di
identità. La lotta contro l'illegittima egemonia della classe
capitalista ha lasciato il campo alle lotte di una varietà di gruppi
e minoranze (più o meno) oppresse e marginalizzate: donne, neri,
LGBTQ eccetera. Il risultato è che la lotta di classe ormai non
viene più vista come la via per la liberazione.
In questo mondo postmodernista, solo le
categorie che trascendono i confini tra le classi vengono considerate
rilevanti. In aggiunta, le istituzioni sviluppatesi per difendere i
lavoratori contro il capitale – come sindacati e partiti
socialdemocratici – sono ormai succubi di questi obbiettivi
estranei alla lotta di classe [non-class struggle foci]. Come osserva
Nancy Fraser, il risultato che è emerso, praticamente in tutti i
paesi occidentali, è una perversa consonanza politica tra “le
correnti principali dei nuovi movimenti sociali (femminismo,
antirazzismo, multiculturalismo e diritti LGBTQ) da una parte, e
dall'altra i settori imprenditoriali di servizi 'simbolici' e di
fascia alta (Wall Street, Silicon Valley e Hollywood)”. (12) Il
risultato è un progressismo neoliberista “che mette insieme
ideali ridimensionati di emancipazione e forme letali di
finanziarizzazione,” con i primi che prestano il loro carisma a
queste ultime.
Man mano che la società si è andata
dividendo sempre di più tra una classe urbanizzata, socialmente
progressista, cosmopolita, ben educata, altamente mobile e
specializzata, e una classe periferica, a bassa specializzazione, di
bassa cultura, che lavora di rado all'estero e che affronta la
concorrenza degli immigrati, la Sinistra di governo ha costantemente
preso le parti della prima. In effetti, il divorzio tra le classi
lavoratrici e la Sinistra intellettuale e culturale può essere
considerato uno dei principali motivi dietro la ribellione di destra
che investe attualmente l'Occidente. Come ha affermato Jonathan
Haidt, il modo in cui le élite urbane globaliste parlano e agiscono
innesca involontariamente le tendenze autoritarie di una frangia di
nazionalisti. (13) In quest'orribile circolo vizioso, tuttavia, più
le classi lavoratrici si volgono verso populismi e nazionalismo di
destra, più la Sinistra intellettual-culturale moltiplica le sue
fantasie liberali e cosmopolite, esacerbando ancora di più
l'etnonazionalismo del proletariato.
Ciò è particolarmente evidente nel
dibattito politico europeo in cui, nonostante gli effetti disastrosi
di Unione Europea e unione monetaria, la Sinistra di governo –
appellandosi spesso ai medesimi argomenti utilizzati più di una
generazione addietro da Callaghan e Mitterand – resta aggrappata a
simili istituzioni. A dispetto di ogni prova del contrario, la
Sinistra di governo afferma che queste istituzioni possono essere
riformate in chiave progressista, e rifiuta ogni argomentazione a
favore di una nuova agenda progressista basata su una ritrovata
sovranità nazionale, bollandola come un “arretramento su posizioni
nazionaliste”, destinate inevitabilmente a far precipitare il
continente in un fascismo stile anni 30. (14) Una tale posizione, per
irrazionale che sia, non desta sorpresa, considerando che, dopotutto,
l'unione monetaria europea è un'idea partorita dalla Sinistra
europea. Tuttavia, questa posizione presenta numerosi problemi, che
in definitiva hanno la loro radice nell'incapacità di comprendere
l'autentica natura dell'Unione Europea e dell'unione monetaria. Per
prima cosa, si ignora il fatto che la costituzione politica e
l'economia dell'UE sono strutturate proprio per ottenere i risultati
che abbiamo sotto gli occhi: l'erosione della sovranità popolare, il
massiccio trasferimento della ricchezza dalle classi medie e basse a
quelle dominanti, l'indebolimento della classe lavoratrice, e più in
generale l'arretramento delle conquiste democratiche e
socioeconomiche ottenute nel passato dalle classi subordinate. L'UE è
progettata appositamente per impedire quel tipo di riforme radicali a
cui aspirano i progressisti integrazionisti e federalisti.
Ancora più importante è il fatto che
queste posizioni riducono la Sinistra al ruolo di difensore dello
status quo, permettendo in tal modo alla Destra politica di
monopolizzare le legittime rimostranze anti-sistema (e specificamente
anti-UE) dei cittadini. Questo significa cedere alla Destra e
all'estrema Destra la lotta discorsiva e politica per l'egemonia
post-neoliberismo. Non è arduo accorgersi che se un cambiamento in
chiave progressista si può attivare solo al livello globale o
europeo – in altri termini, se l'alternativa offerta all'elettorato
è tra un nazionalismo reazionario e un progressismo
globalista – allora per la Sinistra la battaglia è persa in
partenza.
Rivendicare lo Stato
Non dev'essere così per forza,
tuttavia. Come spieghiamo in Reclaiming the State, una visione
progressista, emancipazionista della sovranità nazionale
radicalmente alternativa a quelle della Destra e dei neoliberisti –
una visione basata sulla sovranità popolare, sul controllo
democratico dell'economia, sul pieno impiego, la giustizia sociale,
una redistribuzione dai ricchi verso i poveri, una politica di
inclusione, e più in generale la trasformazione socio-ecologica
della società e della produzione – una tale visione è possibile.
È anzi indispensabile. Come scrive J. W. Mason:
“Qualsiasi ordinamento
[sovranazionale] si possa immaginare in linea di principio,
l'applicazione concreta degli apparati di sicurezza sociale, delle
leggi sul lavoro, della protezione dell'ambiente e della
redistribuzione della ricchezza avviene a livello nazionale, ed è
perseguita da governi nazionali. Per definizione, ogni lotta mirante
alla conservazione la democrazia sociale di oggi è una lotta per
difendere le istituzioni nazionali.” (15)
In modo analogo, la lotta per difendere
la sovranità democratica contro l'offensiva della globalizzazione
neoliberista è l'unica base su cui si possa rifondare la Sinistra,
sfidare la Destra nazionalista e ricucire lo strappo tra la Sinistra
e la sua “naturale” base sociale – i diseredati. A questo fine,
la Sinistra deve anche abbandonare la sua ossessione per le politiche
identitarie e recuperare un “concetto di emancipazione più
allargato, antigerarchico, egualitario, di classe e
anticapitalistico” che un tempo era il suo marchio di fabbrica.
Simili priorità, ovviamente, non sono in contraddizione con le lotte
contro il razzismo, il patriarcato, la xenofobia e altre forme di
oppressione e discriminazione. (16) Abbracciare una concezione
progressista della sovranità significa anche lasciarsi alle spalle i
tanti falsi miti macroeconomici che affliggono i pensatori
progressisti e di sinistra. Come abbiamo già affermato, uno dei miti
più diffusi e persistenti è il presupposto che i governi siano
schiavi delle loro entrate. Dando credito a simili miti, la Sinistra
è diventata incapace di concepire alternative radicali. E tuttavia,
è proprio di alternative radicali che c'è bisogno. Come ha
osservato di recente Perry Anderson: “Per i movimenti anti-sistema
della Sinistra in Europa” - come altrove, del resto - “la lezione
di questi ultimi anni è chiara. Se non vogliono farsi sorpassare dai
movimenti di destra, non possono permettersi di essere meno radicali
nell'attaccare il sistema, e in questa opposizione devono essere
coerenti.” (17) In altre parole, la Sinistra deve tornare a
essere radicale. In Reclaiming the State illustriamo
quelli che riteniamo i requisiti necessari – in termini teorici,
politici e istituzionali – per la creazione di una concezione
all'interno della quale il perseguimento di un progetto socialmente
ed economicamente progressista sia tecnicamente possibile. Questo è
ciò che è necessario:
- Una concezione corretta delle capacità dei governi monetariamente sovrani (o comunque emittenti valuta), e più specificamente la consapevolezza che simili governi non sono mai vincolati alle entrate e alla solvibilità, dato che emettono la loro moneta con un atto legislativo e di conseguenza non possono “finire i soldi” o diventare insolventi. Questi governi hanno sempre una capacità illimitata di spendere la loro stessa valuta: cioè possono acquistare tutto ciò che vogliono, finché esistono beni e servizi acquistabili con la valuta da loro emessa, e possono utilizzare il loro potere di emettere moneta per finanziare massicci investimenti in infrastrutture sociali e materiali. Come minimo, possono reclutare i disoccupati e riutilizzarli produttivamente (ad esempio, con un Programma di Lavoro Garantito [job guarantee] [2] Questo, naturalmente, non si può applicare a paesi che facciano parte dell'Unione Monetaria Europea. La comprensione della realtà operativa delle moderne economie di emissione valutaria diviene quindi una conditio sine qua non per prefigurare una visione progressista ed emancipatoria della sovranità nazionale.
- Una drastica espansione del ruolo dello Stato – e un pari ridimensionamento del ruolo del settore privato – nel sistema di investimenti, produzione e distribuzione. Un progetto progressista per il XXI Secolo deve quindi di necessità comportare una larga ri-nazionalizzazione dei settori chiave dell'economia – incluso, cosa più importante, il settore finanziario – e un nuovo e aggiornato concetto di pianificazione, mirato a porre le leve della politica economica sotto controllo democratico.
Questi due elementi, a nostro avviso,
forniscono la base su cui costruire un'alternativa progressista e
radicale al neoliberismo, i cui dettagli dovrebbero risultare da un
ampio dibattito tra pensatori progressisti, movimenti sociali e
pariti politici, a livello nazionale e internazionali.
Per finire, è chiaro che il possesso
di un programma socioeconomico convincente non basta per conquistare
il cuore e la testa della gente. A parte la centralità dello Stato
dal punto di vista politico-economico, la Sinistra deve farsi una
ragione del fatto che la gran maggioranza della gente che non
appartiene – e mai apparterrà – all'élite internazionale e
giramondo, la loro idea di cittadinanza, di identità collettiva e di
bene comune sono inestricabilmente legati al concetto di nazionalità.
Alla fine dei conti, essere un cittadino vuol dire dibattere con
altri cittadini all'interno di una comunità politica condivisa, e
far sì che la classe dirigente risponda delle proprie decisioni
[hold decision-makers accountable]. Oggi la Destra è vittoriosa
perché è in grado di intessere un'efficace narrazione dell'identità
collettiva in cui la sovranità nazionale viene sviluppata in
chiave nativista o addirittura razzista. I progressisti quindi devono
essere in grado di produrre narrazioni e miti altrettanto potenti,
che riconoscano il bisogno di appartenenza e interconnessione degli
esseri umani. In questo senso, una visione progressista della
sovranità nazionale dovrebbe mirare alla ricostruzione e
ridefinizione dello stato-nazione come luogo in cui i cittadini
possano trovare rifugio nella “sicurezza nella democrazia
[democratic protection], la legalità popolare, l'autonomia locale, i
beni collettivi e le tradizioni egualitariste” piuttosto che in una
società culturalmente ed etnicamente omogeneizzata, come dice
Wolfgang Streeck. (18) Questo è anche il requisito indispensabile
per la costruzione di un nuovo ordine internazionale, basato
sull'interdipendenza, e tuttavia indipendenza degli stati nazionali.
Articolo apparso in origine su
American Affairs,
Volume I, Numero 3 (Autunno 2017), pagg. 75-91
Note
1 See Perry Anderson, “Why the System
Will Still Win,” Le Monde diplomatique, Marzo 2017.
2 Ray Dalio et al., Populism: The
Phenomenon, Bridgewater, 22 marzo 2017.
3 “Rose Thou Art Sick,” Economist,
2 aprile 2016.
4 Paolo Gerbaudo, “Post-Neoliberalism
and the Politics of Sovereignty,” openDemocracy, 4 novembre
2016.
5 Marc Saxer, “In Search of a
Progressive Patriotism,” Medium, 15 aprile 2017.
6 Adaner Usmani, “The Left in Europe:
From Social Democracy to the Crisis in the Euro Zone: An Interview
with Leo Panitch,” New Politics 14, no. 54 (Inverno 2013),
http://newpol.org/content/left-europe-social-democracy-crisis-euro-zone-interview-leo-panitch.
7 Stuart Hall, “The Great Moving
Right Show,” Marxism Today (Gennaio 1979): 18.
8 Colin Hay, “Globalisation, Welfare
Retrenchment and ‘the Logic of No Alternative’: Why Second-Best
Won’t Do,” Journal of Social Policy 27, no. 4 (Ottobre
1998): 529.
9 John Ardagh, France in the New
Century: Portrait of a Changing Society (London: Penguin, 2000),
687–88.
10 Stephen Gill, “The Geopolitics of
Global Organic Crisis,” Analyze Greece!, 5 giugno 2015,
http://www.analyzegreece.gr/topics/greece-europe/item/231-stephen-gill-the-geopolitics-of-global-organic-crisis.
11 Richard Peet, “Contradictions of
Finance Capitalism,” Monthly Review 63, no. 7 (Dicembre
2011),
https://monthlyreview.org/2011/12/01/contradictions-of-finance-capitalism/.
12 Nancy Fraser, “The End of
Progressive Neoliberalism,” Dissent, January 2, 2017,
https://www.dissentmagazine.org/online_articles/progressive-neoliberalism-reactionary-populism-nancy-fraser.
13 Jonathan Haidt, “When and Why
Nationalism Beats Globalism,” American Interest 12, no. 1
(Luglio 2016),
https://www.the-american-interest.com/2016/07/10/when-and-why-nationalism-beats-globalism/.
14 Yanis Varoufakis e Lorenzo Marsili,
“Varoufakis: ‘A un anno dall’Oxi, non rifugiamoci nei
nazionalismi. Un’Europa democratica è possibile,’” La
Repubblica, July 8, 2016,
http://www.repubblica.it/esteri/2016/07/08/news/varoufakis_a_un_anno_dall_oxi_non_rifugiamoci_nei_nazionalismi_un_
europa_democratica_e_possibile_-143703316/.
15 J. W. Mason, “A Cautious Case for
Economic Nationalism,” Dissent (Primavera 2017),
https://www.dissentmagazine.org/article/cautious-case-economic-nationalism-global-capitalism.
16 Fraser, “The End of Progressive
Neoliberalism.”
17 Anderson, “Why the System Will
Still Win.”
18 Wolfgang Streeck et al., “Where
Are We Now? Responses to the Referendum,” London Review of Books
38, no. 14 (14 luglio 2016),
https://www.lrb.co.uk/v38/n14/on-brexit/where-are-we-now.
note del traduttore
[1] Master frame: cfr. (a cura
di) Nicola Montagna, I movimenti Sociali e le Mobilitazioni
Globali, Franco Angeli 2007, pagg. 28 e sgg.
[2] Crf. qui.
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