di Raffaele Carcano e Adele Orioli da Micromega
A: Se non sottintendesse questioni ben più pregnanti e complesse, che
sembrano però passare in secondo piano, l’odierno e pompato dibattito
sul burkini sì - burkini no starebbe benissimo nell’elenco dei classici
tormentoni estivi. Dai consigli antiafa, alle diete lampo, ai bollini
sulle autostrade.
R: È proprio il caso di dirlo, una classica lettura da spiaggia! Ho
personalmente sentito persone intelligenti definire il dibattito sul
burkini “un’arma di distrazione di massa”. Purtroppo non è così: è anzi
il caso che sta portando alla luce molti temi che si era cercato di
nascondere sotto il tappeto. Da questo punto di vista, è benvenuto.
A: A guardarlo così, il burkini a me personalmente fa lo stesso
identico effetto dello scomodo, incongruo e fronzoluto bikini che vedo
imporre alle bambine dai due anni in poi sulle nostre spiagge. Una sorta
di maliziosa e ipocrita pudicizia che rivela una paradossale
impudicizia di fondo e che guarda caso colpisce, quale che sia la
latitudine, il cromosoma xx in quanto tale.
R: Un po’ come le pecette sui cartelloni dei film porno, negli anni
’70. C’è anche questo elemento, nel dibattito in corso. A me è
particolarmente piaciuta la provocatoria proposta di Caroline Fourest di
rispondere praticando il nudismo di massa. http://www.marianne.net/caroline-fourest-face-au-burkini-optons-nudisme-100245094.html
Uomini e donne insieme, beninteso. Un altro aspetto che non viene
evidenziato è il retroterra del burkini: un marchio commerciale proposto
ormai non solo alle musulmane, ma a tutte le donne che vogliono
“sentirsi alla moda”. Veicolando in tal modo un vittorianesimo di
ritorno di cui non si sentiva la mancanza.
A: Retroterra recentissimo, infatti, così come modernissimi i materiali utilizzati.
http://www.askanews.it/esteri/burkini-la-stilista-che-l-ha-creato-non-e-simbolo-d-oppressione_711881422.htm
Lycra e integralismo modaiolo. Ed è proprio questa sorta di reflusso,
una gigantesca ernia iatale reazionaria, che meriterebbe di essere
analizzata più a fondo, non limitandosi alla facile comparazione delle
foto delle spiagge di ieri e di oggi di molti paesi, compreso il nostro.
In ogni caso non occulta i lineamenti di chi li indossa, a differenza
del burka vero e proprio. Che “mostrare il volto sia dovere sociale”
infatti, per usare le parole della Merkel, mi sembra onestamente
scontato. http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08/19/burqa-merkel-frena-lintegrazione-si-a-divieto-parziale/2982939/
Come non entrare con il passamontagna alle poste o con il casco in farmacia.
R: Ma il casco non è un simbolo religioso. Il fattore ‘R’ https://blog.uaar.it/2016/08/19/il-fattore-r/
consente alle religioni e ai suoi fedeli privilegi sconosciuti ad
altri. In Italia le suore e le musulmane possono velarsi il capo sulla
carta d’identità, ma è un privilegio riservato a chi lo giustifica con
la fede. Sono i frutti avvelenati dell’accomodazionismo, nato per
proteggere le minoranze ma che è finito per proteggere cristianesimo e
islam.
A: Beh dai, in qualche paese europeo anche i pastafariani e i loro scolapasta. http://www.corriere.it/cronache/11_luglio_13/scolapasta-in-testa-burchia_bdcd2f64-ad24-11e0-83b2-951b61194bdf.shtml
Che, con irridente goliardia ben evidenziano il raccolto di quei frutti
avvelenati ai quali ti riferivi. In ogni caso, alle Olimpiadi il
burkini continua a sembrarmi del tutto fuori luogo. E anche in netta
contrapposizione con la miriade di norme che regolano il ferreo dress code
di ogni disciplina e di tutta la competizione in generale. Puoi
gareggiare in mutande ma non puoi salire sul podio se non hai i
pantaloni lunghi, per dirne una. Alcuni costumi sono stati oggetto di
polemiche perché pericolosi o al contrario troppo facilitanti ma, se è
in gioco l’eccezione religiosa, poco importa che si facciano competere
atlete con palandrane improbabili. E che, mi sembra evidente, oltre ogni
possibile altro aspetto e considerazione, penalizzano e non di poco la
performance sportiva. Mettete un burkini a Simon Biles e ne riparliamo.
R: Vale quanto sopra. È probabile che le atlete egiziani fossero
comunque poco performanti, ma in tal modo si sdoganano valori che con lo
sport non hanno niente a che fare. Il problema è del resto
istituzionale: alle Olimpiadi è addirittura all’opera un comitato
interfedi, https://cruxnow.com/global-church/2016/08/15/brazils-african-faiths-beat-back-attempt-exclude-olympics/ ovviamente inventato a Torino.
A: Sarà che sono refrattaria alla logica del meno peggio, ma la
contro argomentazione semplicisticamente feliciotta dell’“Almeno adesso
possono... che bello!” ha il suono di un insulto. Quote rosa (di pelle
scoperta).
R: La presidente dei giovani musulmani ha infatti risposto in questo
modo, denunciando la negazione di un diritto. Come se vietare la
poligamia (altra rivendicazione di questi giorni) significasse negare a
una donna maggiori possibilità di trovare un marito. Remona Aly, sul Guardian, https://www.theguardian.com/commentisfree/2016/aug/15/five-reasons-wear-burkini-annoy-french-cannes-mayor-muslim
ha addirittura invitato a indossare il burkini per “celebrare una
liberazione”. Curioso che le donne musulmane non abbiano invece mai
molto da dire sulla sottomissione di genere vigente nell’islam. Del
resto, islam significa “sottomissione”: in qualche modo sono coerenti.
A: L'immagine che a non pochi maître à penser della nostra cosiddetta
sinistra ha messo tanta allegria, “tanti colori e tante culture” (tra
il folklore e il pittoresco, insomma) delle giocatrici di beach volley,
due in bikini due modello spedizione polare, a me continua a sembrare
una violazione quantomeno termica dei diritti umani.
R: È uno dei due corni del delirio comunitarista. È la posizione di
chi vorrebbe che gli africani girino per sempre seminudi, perché così
anche i suoi figli potranno in futuro mostrare agli amici foto esotiche.
Il ghetto valorizzato come attrazione turistica. Come il caso-Capalbio,
fa tutto molto gauche-caviar.
A: Non che a destra vada meglio; un altro po’ e le vorrebbero tutte nude per principio, se islamiche. http://www.ansa.it/lombardia/notizie/2016/08/17/burkini-mozione-lega-per-vietarlo_78ecb242-7418-4c8b-be4f-5b350a26cc2b.html
Perché non si impongono simboli religiosi. Che non siano crocifissi o presepi, ovviamente.
R: La destra, per giustificare i privilegi che concede alla propria
religione, deve necessariamente applicare due pesi e due misure. In
questa contrapposizione viene sempre meno preso sul serio
l’universalismo: sia nel senso di uguaglianza di tutti davanti alla
legge, sia nel senso di diritti condivisi che dovrebbero costituire il
minimo comun denominatore del vivere insieme.
A: Eppure il cortocircuito c’è o quantomeno è pericolosamente vicino e
latente. Illiberale vietare il burkini, a mio avviso, così come è
illiberale per contro vietare il topless, checché ne pensino le donne di
Comunione e Liberazione, favorevoli al primo ma non al secondo
(strano).
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2016/08/21/burkini-piu-sensato-del-topless-le-donne-del-meeting-di-cl-contro-i-divieti/553844/
E ancor più nel complesso è illiberale e condannabile il restringere,
sulla base poi dell’ordine pubblico, concetto pericolosissimamente
elastico e strumentalizzabile, l’ambito dell’autodeterminazione
dell'individuo sul proprio corpo, in generale. L’ambito dell’abito,
nello specifico.
R: Un’altra delle favole che gira è che le ordinanze francesi siano
basate sul principio di laicità, anziché su quello di sicurezza come
invece è in realtà. Al contrario, la laicità è basata su altri principi:
l’autodeterminazione, appunto. Ma anche l’uguaglianza. Le religioni –
pressoché tutte, anche se con modalità diverse – discriminano le donne. È
un problema che le istituzioni perseverano cocciutamente a non voler
vedere: vogliono sembrare laiche e, nello stesso tempo, favorire le
religioni. Una quadratura del cerchio di cui la vicenda-burkini sta
palesando l’insensatezza.
A: Esattamente il punto cruciale di tutta la questione. Illiberale
vietare, ma quanta dose di autodeterminazione e libertà c’è, al
contrario, nello scegliere il velo, il burka, il burkini? C’è tout court
libertà di scegliere? Quanto è labile e tagliente il confine tra il
volere e l’essere costretta a volere? Non parlo dei paesi islamici,
parlo delle spiagge vip dal divieto facile del nostro occidente. Quanti e
quali diritti ha una donna musulmana, oltre a quello di essere, per
l'appunto, musulmana?
R: Il New York Times ha accusato le autorità francesi di paternalismo, http://www.nytimes.com/2016/08/19/opinion/frances-burkini-bigotry.html
perché vorrebbero dire alle donne come si dovrebbero o non dovrebbero
vestire. Ma non ha speso una parola per denunciare i tanti padri che
battono le loro figlie perché si rifiutano di indossare il velo. La
libertà, per essere tale, deve essere liberamente esprimibile: se sono
d’accordo sul fatto che, andando in spiaggia, le donne musulmane
potrebbero avere qualche chance in più di entrare in contatto con idee
diverse, resta il fatto che ciò è precluso (talvolta duramente)
all’interno della famiglia. Nelle comunità musulmano si passa per
radicali quando ci si toglie il velo, non quando (nel caso degli uomini)
ci si fa crescere la barba e si comincia a chattare con qualche
jihadista.
A: Senza voler entrare nel difficile dibattito su identità e fede,
quanto uno stato che si dice laico può o deve incidere? Quanto
l'integrazione tanto nominata, sempre che sia necessaria e necessitata,
si costruisce su divieti che giocoforza irrigidiscono tutte le posizioni
in gioco, o al contrario su permissività di facciata, su diritti
speciali e contingentati, che finiscono per quando non creare quantomeno
spesso proteggere ghetti etnico-religiosi sempre più serrati?
L’immagine dei poliziotti francesi che obbligano una donna a spogliarsi
(levarsi strati di tessuto, ma l'effetto resta quello) è
integrazione, imposizione di civiltà o sopraffazione?
R: Non è integrazione passare dal velo al topless, ma non lo è
neanche lasciare che alla porta accanto si violino diritti umani – basta
che tengano il volume abbassato. Se si “crede” realmente che i valori
proclamati dalle Costituzioni europee siano da tradurre in pratica senza
soluzione di continuità. Se si vuole realmente formare individui
consapevoli, si deve allora dire senza troppi giri di parole che – per
esempio – i veli sono simboli di sottomissione della donna, che le
religioni trattano diversamente donne e uomini. A cominciare dalle
scuole per proseguire sui mezzi di informazione. Capita invece che ogni
critica all’islam sia tacciata (anche autorevolmente) di “islamofobia”.
Non si dà spazio alle donne musulmane che si tolgono il velo, o che
addirittura abbandonano la fede, né si parla dei rischi a cui vanno
incontro. Però siamo ormai a un bivio. Negli anni ’70 la maggioranza
delle musulmane andava a capo scoperto, mentre gay e lesbiche dovevano
nascondere il loro orientamento sessuale. Oggi c’è il matrimonio
omosessuale (anche se non da noi) e non si sono mai viste così tante
donne velate. È un confronto a puro titolo di esempio, ma non possiamo
far finta che non vi siano pezzi di società che prendono direzioni
opposte e persino antagoniste. Soprattutto, non possono non tenerne
conto i musulmani. Pena la legalizzazione dei ghetti e la ghettizzazione
delle leggi. E non è solo un gioco di parole.
lunedì 29 agosto 2016
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