di Nadia Garbellini da economiaepolitica
La controversia sulla possibile implosione dell’attuale eurozona e sulle conseguenze di un abbandono della moneta unica risulta tuttora pervasa da un diffuso dogmatismo. I fautori dell’uscita dall’euro sono accusati di semplificare il problema e di restare volutamente nell’ambiguità per non affrontare la questione decisiva inerente a quale politica economica adottare e quali interessi sociali difendere una volta fuori dall’Unione. In alcuni casi si tratta di una critica assolutamente fondata. Tuttavia, è soprattutto tra i sostenitori della permanenza nell’euro che sembra prevalere una retorica banalizzatrice, che in alcune circostanze rasenta la superstizione. Molti di questi, infatti, continuano ad agitare lo spauracchio della catastrofe economica in caso di uscita dall’euro senza prendersi la briga di fornire la minima evidenza scientifica a sostegno delle loro predizioni. Questa tendenza all’oracolismo caratterizza non solo i giornalisti ma sembra diffondersi anche tra alcuni economisti e policymakers coinvolti nella discussione. Un celebre esempio è fornito dal Presidente della BCE Mario Draghi, che in un’intervista del 2011 sostenne che «i paesi che lasciano l’eurozona e svalutano il cambio creano una grande inflazione» (Draghi 2011). Da queste poche parole diversi commentatori hanno tratto l’implicazione che uscire dall’eurozona determinerebbe una violenta caduta del potere d’acquisto dei redditi fissi, in particolare dei salari dei lavoratori. Nessuno, per quel che ci risulta, si è posto il problema di verificarle empiricamente.
La controversia sulla possibile implosione dell’attuale eurozona e sulle conseguenze di un abbandono della moneta unica risulta tuttora pervasa da un diffuso dogmatismo. I fautori dell’uscita dall’euro sono accusati di semplificare il problema e di restare volutamente nell’ambiguità per non affrontare la questione decisiva inerente a quale politica economica adottare e quali interessi sociali difendere una volta fuori dall’Unione. In alcuni casi si tratta di una critica assolutamente fondata. Tuttavia, è soprattutto tra i sostenitori della permanenza nell’euro che sembra prevalere una retorica banalizzatrice, che in alcune circostanze rasenta la superstizione. Molti di questi, infatti, continuano ad agitare lo spauracchio della catastrofe economica in caso di uscita dall’euro senza prendersi la briga di fornire la minima evidenza scientifica a sostegno delle loro predizioni. Questa tendenza all’oracolismo caratterizza non solo i giornalisti ma sembra diffondersi anche tra alcuni economisti e policymakers coinvolti nella discussione. Un celebre esempio è fornito dal Presidente della BCE Mario Draghi, che in un’intervista del 2011 sostenne che «i paesi che lasciano l’eurozona e svalutano il cambio creano una grande inflazione» (Draghi 2011). Da queste poche parole diversi commentatori hanno tratto l’implicazione che uscire dall’eurozona determinerebbe una violenta caduta del potere d’acquisto dei redditi fissi, in particolare dei salari dei lavoratori. Nessuno, per quel che ci risulta, si è posto il problema di verificarle empiricamente.
In due studi realizzati con Emiliano
Brancaccio e pubblicati sulla Rivista di Politica Economica e sullo
European Journal of Economics and Economic Policies, abbiamo cercato di
affrontare il tema dei possibili effetti di un’uscita dall’euro alla
luce delle evidenze storiche disponibili. Basate su una statistica
descrittiva e un’analisi inferenziale di un campione di 28 episodi di
uscita da regimi di cambio fisso tra il 1980 e il 2013, le nostre
ricerche si sono soffermate sulle ripercussioni di tali eventi su tre
variabili: l’inflazione, i salari reali e le quote di reddito nazionale
spettante ai lavoratori (Brancaccio e Garbellini 2014; 2015). Più di
recente, da una applicazione di quella metodologia è scaturito il
contributo di Realfonzo e Viscione (2015) i quali hanno esteso l’analisi
ad altre variabili macroeconomiche, tra cui le esportazioni nette, la
crescita del Pil e l’occupazione. La conclusione di Realfonzo e Viscione
è la seguente: “ […] a meno di un auspicabile cambiamento in senso
espansivo e redistributivo delle politiche europee, l’uscita dall’euro
potrebbe essere la soluzione scelta da alcuni paesi in un futuro non
lontano. E ciò potrebbe anche rianimare l’economia. Ma non è sufficiente
un ritorno alla sovranità monetaria e alle manovre di cambio per
cancellare, come d’incanto, i problemi legati alle inadeguatezze degli
apparati produttivi o alla sottodotazione di infrastrutture materiali e
immateriali. La lezione più importante che possiamo trarre
dall’esperienza storica è che i risultati in termini di crescita,
distribuzione e occupazione dipendono […] più che dall’abbandono del
vecchio sistema di cambio in sé, dalla qualità delle politiche
economiche che si varano una volta tornati in possesso delle leve
monetarie e fiscali”. Tali considerazioni hanno dato avvio a un
interessante dibattito su questa rivista. Alcune delle repliche a
Realfonzo e Viscione, però, sembrano avere eluso lo sforzo dei due
autori, che condividiamo, di legare ogni giudizio sull’euro a precisi
riferimenti analitici. In questo senso tali repliche rischiano anch’esse
di assecondare una retorica di tipo “oracolistico”. A valle della
discussione può dunque essere utile tornare sul terreno della ricerca,
approfondendo ulteriormente alcuni aspetti salienti dei due studi la cui
metodologia ha ispirato il recente contributo di Realfonzo e Viscione.
Provo innanzitutto a riassumere i
risultati chiave dei nostri due lavori. In primo luogo, guardando i
paesi ad alto reddito procapite, abbiamo rilevato che gli episodi di
abbandono di regimi di cambio fisso sono associati a una crescita
dell’inflazione di poco superiore a due punti percentuali nell’anno
dell’uscita dal regime di cambio, e addirittura a una riduzione
dell’inflazione nei cinque anni successivi all’uscita rispetto ai cinque
anni precedenti. Siamo giunti così alla conclusione che, per quanto
riguarda i paesi ad alto reddito, il pericolo di una «grande inflazione»
evocato da Draghi non trova riscontri storici adeguati. In secondo
luogo, dalla parte inferenziale dei nostri studi è emerso che pure in
presenza di aumenti dell’inflazione contenuti e temporanei, le uscite da
regimi di cambio fisso risultano correlate in media a riduzioni non
trascurabili dei salari reali e della quota di reddito nazionale
spettante ai salari. D’altro canto, abbiamo fatto notare che si tratta
di riduzioni non troppo diverse da quelle che già si stanno registrando
dentro l’eurozona nei paesi maggiormente colpiti dalla crisi. In terzo
luogo, al di là degli andamenti medi, abbiamo segnalato che la dinamica
dei salari reali e della quota di reddito spettante al lavoro è
caratterizzata da un’alta variabilità tra paesi. In particolare,
l’impatto sulle due variabili sembra cambiare molto a seconda dei
diversi indirizzi di politica economica con cui i vari paesi affrontano
l’abbandono dei cambi fissi: controlli sui movimenti di capitale,
nazionalizzazioni e maggiori protezioni del lavoro potrebbero in questo
senso essere associate a una sostanziale tenuta delle retribuzioni reali
e delle quote salari, e talvolta addirittura a loro aumenti.
L’importanza dei diversi modi in cui l’uscita viene gestita risulta
confermata anche dall’analisi di Realfonzo e Viscione sugli andamenti
della bilancia commerciale, del prodotto e degli occupati.
A quanto pare, dunque, le evidenze
disponibili da un lato indicano che l’abbandono di un regime di cambio
solleva svariati problemi, ma dall’altro segnalano che lo si può
affrontare governando le variabili macroeconomiche, in particolare
salvaguardando le retribuzioni dei lavoratori. E’ interessante notare
che la letteratura mainstream non esclude questa eventualità ma tende ad
associarla a un andamento negativo della produzione e dell’occupazione.
Basti citare gli studi di Eichengreen e Sachs (1984) e di Fallon e
Lucas (2002), dai quali emerge la tesi secondo cui l’abbandono di un
cambio fisso e la conseguente svalutazione possono favorire la ripresa
economica solo nella misura in cui siano accompagnati da una riduzione
dei salari reali. Considerazioni simili sono state recentemente avanzate
anche da altri economisti impegnati nel dibattito sull’euro, tra cui
Michele Boldrin. Tali conclusioni vengono tuttavia criticate nel secondo
dei due papers che abbiamo pubblicato: applicando la tecnica di
Eichengreen e Sachs al nostro campione di episodi abbiamo rilevato che,
dopo l’abbandono del cambio fisso, se una relazione tra salario reale e
produzione esiste, essa non è affatto negativa ma al limite è positiva
(vedi figura 1).
Figura 1 – Salario reale e indice di produzione industriale a seguito di crisi valutarie
Fonte: Brancaccio e Garbellini (2015)
E’ opportuno chiarire che le tecniche
adoperate nei nostri studi non necessitano di alcuna ipotesi teorica del
tipo “ceteris paribus”; esse pertanto non sono soggette alla critica
che Paolo Guerrieri ha rivolto a quelle indagini sugli effetti
dell’uscita dall’euro basate su una logica di “equilibrio parziale”
(Guerrieri 2015). Una critica diretta alla nostra metodologia è invece
provenuta da Angelo Baglioni dell’Università Cattolica, che in un dibattito televisivo
ha sostenuto che le passate esperienze di crisi dei regimi di cambio
fisso non costituiscono un valido punto di riferimento per indagare
sulle conseguenze che deriverebbero da un evento assolutamente
eccezionale come l’uscita dall’euro. In particolare, Baglioni ha
affermato che l’eventuale abbandono dell’euro da parte di un paese
darebbe inizio a una sequenza di uscite a catena anche di altri paesi,
determinando così effetti sistemici impossibili da prevedere sulla base
delle evidenze passate. Questa tesi è stata in parte ripresa anche da
Mauro Gallegati, con argomenti robusti e per più di un verso
condivisibili (Gallegati 2015). Nel complesso, tuttavia, essa non può
essere accolta. La rilevanza della storia passata nell’esame di
possibili eventi futuri non va mai esagerata ma rinunciarvi
completamente significherebbe rinchiudersi nello spazio fondamentale ma
insufficiente della pura analisi teorica, senza alcun supporto
proveniente dall’indagine empirica. Del resto, la stessa idea di
Baglioni secondo cui l’uscita dall’euro provocherebbe abbandoni a catena
della moneta unica e quindi costituirebbe per questo un evento
eccezionale, è contestabile alla luce della stessa evidenza storica:
uscite da regimi di cambio fisso che abbiano provocato tracolli valutari
a catena si sono più volte verificate in passato, al punto da
caratterizzare quella che in letteratura va sotto il nome di “terza
generazione” di modelli sulle crisi valutarie.
Ovviamente, laddove gli “oracoli”
possono agevolmente spaziare nella totalità dello scibile umano, la
ricerca scientifica procede sempre a piccoli passi e su obiettivi
circoscritti. In questo senso bisogna riconoscere che le nostre analisi
gettano luce solo su alcune delle possibili conseguenze di un’uscita
dall’Unione monetaria europea. Esse potranno quindi non soddisfare chi,
come Salvatore Biasco, oggi sembra insistere sul convincimento che i
principali effetti negativi di un abbandono dell’euro deriverebbero da
una grave crisi sui mercati finanziari (Biasco 2015). Il problema è che
queste, come altre obiezioni, non potranno mai essere valutate sul piano
analitico se rimangono a un livello meramente narrativo. Più pregnante,
a questo proposito, mi sembra il contributo di chi in questi mesi ha
preso spunto da un modello del Levy Economics Institute per sostenere
che anche le ripercussioni finanziarie di una eventuale uscita dall’euro
dipenderebbero principalmente dalla capacità o meno di controllare i
conti verso l’estero. La Grecia, da questo punto di vista, sembra
trovarsi in una situazione di relativa difficoltà (Brancaccio e Zezza
2015). E l’Italia? Ecco una domanda alla quale sarebbe utile rispondere,
possibilmente su robuste basi analitiche.
In definitiva, le evidenze di cui
disponiamo sollevano una questione essenziale che viene troppo spesso
trascurata sia dai nemici dell’euro che dai suoi apologeti e che è stata
invece sottolineata dal “monito degli economisti” pubblicato sul
Financial Times nel 2013: l’abbandono della moneta unica porrebbe i
decisori politici di fronte a una scelta cruciale tra varie possibili
modalità di gestione dell’uscita, ognuna delle quali avrebbe
ripercussioni diverse sulle diverse classi sociali (AA.VV. 2013). E’
opportuno notare, a questo proposito, che in Italia e altrove le
piattaforme politiche espressamente avverse all’euro si stanno sempre
più intrecciando a proposte palesemente reazionarie, come la flat tax o
la guerra agli immigrati. Gli interessi di classe che queste piattaforme
intendono rappresentare sono in parte diversi da quelli che attualmente
dominano la scena politica europea, ma non c’è nessun motivo logico per
sperare che sarebbero maggiormente in sintonia con le istanze dei
lavoratori e delle fasce più deboli della società. Anzi, è possibile che
tali soluzioni reazionarie trovino a un certo punto una sintesi con
quelle oggi prevalenti, in un accrocco perverso tra liberismo e
xenofobia che è stato giustamente definito “gattopardesco”. Se la crisi
europea dovesse intensificarsi, c’è motivo di ritenere che tali
posizioni finirebbero per rafforzarsi. Se così andasse, un pezzettino di
responsabilità ricadrebbe anche su quegli “oracoli” che pur di
difendere la moneta unica hanno abbandonato il difficile campo della
riflessione analitica preferendo quello ben più comodo del dogmatismo.
*Università di Bergamo
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