di Monica Lanfranco da ilfattoquotidiano
La vicenda del burkini si potrebbe anche raccontare così: in Australia c’è un’imprenditrice islamica praticante molto felice che ha fatto la sua fortuna fabbricando l’indumento per donne modeste (sono le sue parole), per cui ringrazia di cuore la Francia per l’inaspettata pubblicità.
Perché sì: in barba al fatto che l’abito sotto i riflettori sia un potente simbolo dell’islam fondamentalista salafita, che teorizza e pratica, con violenza, il dovere della modestia in tutti i comportamenti femminili, dall’abito alla relazione con gli uomini e quindi con la società: pecunia non olet, mai, e non confligge con la modestia.
Una decina di anni fa a Riccione fu accolta dalla giunta comunale la proposta di riservare pezzi di arenile per permettere a ricche saudite
di fare il bagno lontano da occhi indiscreti, visto che la zona è molto
apprezzata dalle famiglie facoltose del potente emirato. Tutto bene: si
tratta di far girare l’economia.
Dal mio punto di vista il ringraziamento alla Francia è per averci messo dinnanzi due evidenze: la prima è che, nella rete ma non solo, è quasi impossibile svolgere discussioni senza che prevalga lo storm shit (la tempesta di feci) evocata da B. Chul Han nel suo Nello sciame-visioni del digitale. Odiatori
e odiatrici per partito preso sono dovunque, poco o nulla si sta sul
tema con motivazioni e argomentazioni documentate, pur diverse ed
oppositive, e spopolano rancore, insulto e offesa.
Quanto a confusione surreale cito l’esempio delle suore, postate copiosamente nei social per dire che burkini e tonaca sono la stessa cosa, dimenticando che le suore fanno un voto di fede, che prevede castità,
(molte tra l’altro non vestono l’abito) e non sono una indicazione
religiosa di come tutte le donne devono andare vestite nella società.
La seconda evidenza è che, non da ora ma in questo caso potentemente,
pezzi di sinistra e alcune femministe hanno espresso adesione
incondizionata alla visione multiculturalista e al relativismo culturale e politico.
Quindi: senza se e senza ma, (giustamente su molti temi), ma quando si tratta del corpo delle donne ecco sbriciolarsi le granitiche certezze. La parola magica è: scelta.
Si tratta di un passaggio molto interessante: da antiliberisti si
diventa liberali, per cui si critica l’occidente imperialista e
coloniale, ma si difende un simbolo religioso fondamentalista caro a
teocrazie imperialiste, nel nome della libera scelta individuale.
Dettaglio non di poco conto: parliamo dell’unico ‘simbolo’ religioso
(declinato in vari stadi, dal velo all’jihab al burka al burkini), che come ci ricorda Giuliana Sgrena è un prodotto recente che diventa corpo, che insiste, più efficacemente di una bandiera sventolata, nell’evidenziare una alterità. A cosa? Ai (presunti) diritti occidentali,
che secondo lo sguardo relativista sono appunto di una parte sola:
peccato che tutti i movimenti laici che lottano contro l’integralismo si
sgolino nel dire che i diritti conquistati dalle donne sono universali.
La sociologa algerina Helie Lucas scrive, a proposito della giornata dell’orgoglio del velo:
”In Europa si tratterebbe sarebbe solo una scelta personale ‘di moda’
mentre nel resto del mondo sarebbe un’imposizione, e la disobbedienza o
la resistenza sarebbero punite con la morte? In Europa si potrebbe indossare qualsiasi abito,
mentre nel resto del mondo si fronteggiano limitazioni nel diritto allo
studio, o nell’accedere ai servizi sanitari quando sono forniti da
personale maschile, o nella libertà di movimento o di altri diritti
umani fondamentali negati alle donne e alle ragazze? Come si può
ignorare che nelle periferie di Parigi o Marsiglia controllate dai
fondamentalisti delle ragazze sono state uccise per non avere indossato
il velo?”. (L’articolo integrale sarà pubblicato a settembre nel nuovo
numero di Marea)
Il relativismo culturale e politico porta anche a questo: si può, giustamente, confliggere duramente con le Sentinelle in piedi, con l’autrice di Sposati e sii sottomessa, con la senatrice Binetti ma non con l’autrice di Porto il velo e amo i Queens, perché mettere in discussione le scelte di un’islamica alimenta l’islamofobia. Sottolineare la responsabilità di alimentare visioni regressive, discriminatorie, patriarcali, sessiste e misogine
quali sono le tesi delle succitate persone e gruppi non si applica alle
donne islamiche che ‘scelgono’ i vari sistemi di copertura. Perché
questa autocensura? Nel complicato presente penso che
l’unica strada, prima che sia tardi e vincano i fondamentalisti di ogni
tipo, (in Gran Bretagna si chiede da anni di applicare la sharia accanto
al sistema di legge statali), sia aprire conflitti culturali con chi fa politica, (perché di questo si tratta), invocando disposizioni religiose come ‘libera scelta’, riattivando pericolosi déjà vu, quali la modestia e il pudore femminile. Il sito internazionale Siawi mi appare molto importante già dal suo enunciare come “la laicità sia un problema delle donne”.
I video che v’invito a vedere raccontano in cosa consista (l’apparente) inoffensivo ‘scegliere’
per le donne fedeli islamiche di coprirsi: vogliamo continuare a
nasconderci dietro la simmetria perfetta secondo la quale anche da ‘noi’
c’è l’imposizione della taglia 42, e quindi è giusto riservare, (come
avviene a Torino), momenti in piscina solo per le donne, così che senza
gli uomini le islamiche praticanti possano nuotare, senza mettere in discussione nulla?
lunedì 22 agosto 2016
Burkini, la confusione tra scelta e imposizione
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