di Carlo Galli da ragionipolitiche
1.L’Europa come costruzione unitaria o
presunta tale ha natura ibrida e oscillante. Nasce fortemente politica
(il federalismo di Spinelli prevedeva una superpotenza europea neutrale
fra Usa e Urss) poi diviene economica (con la CECA del 1951) per
riproporsi come politica (con il tentativo della CED, abortita nel
1954); la reazione è stata di nuovo economica e funzionalistica (il MEC
del 1957) e lo sviluppo successivo è nuovamente
politico-economico-tecnocratico (l’Europa di Maastricht del 1992
governata dagli eurocrati della Commissione e dal Consiglio dei Capi di
Stato e di governo, con il metodo intergovernativo), fino al Fiscal compact
del 2012 che ha tolto sovranità agli Stati a favore di un trattato
economico gestito da Bruxelles e interpretato autorevolmente dalla
Germania. Questa oscillazione continua e la complessità contraddittoria
della configurazione attuale spiega perché è impazzita la maionese
europea, ovvero perché il calabrone si è accorto che non può volare (un
tempo si diceva che l’Europa è come un calabrone, che per le leggi della
fisica non potrebbe volare eppure vola ugualmente).
2.La possibile fine della Ue nella sua
configurazione attuale (resa visibile dalla Brexit, e dalla scelta
inglese per un modello imperiale finanziario informale, il cosiddetto global England che
coesiste con un marcato neonazionalismo) sta insieme ad altre fini:
della globalizzazione che la destra anglofona ha aperto e che ora chiude
(oltre alla secessione del Regno Unito, la guerra di Trump a chi ha
guadagnato troppo dalla globalizzazione: Cina e Germania), del doppio
modello neoliberista e ordoliberale imposto all’Europa dall’euro (che ha
portato o stagnazione o forti disuguaglianze economiche e sociali, o
entrambe, e che ha fatto nascere i populismi); e in prospettiva della
stessa democrazia occidentale postbellica.
3.L’euro è un dispositivo deflattivo che
obbliga gli Stati dell’area euro a passare dalle svalutazioni
competitive delle monete nazionali alle svalutazioni economiche e
giuridiche del lavoro, e alla competizione sulle esportazioni, in una
deriva neomercantilistica senza fine (ma, ovviamente, intrinsecamente
limitata). Modellato su ipotesi francesi (culminanti nel memorandum
Delors) in una pretesa di egemonia politica continentale della Francia
in prospettiva post-statuale (e infatti non a caso la protesta francese
contro l’Europa è oggi marcatamente statalista e
protezionista/protettiva), l’euro è stato “occupato” dal marco tedesco e
dall’ordoliberalismo sotteso (la «economia sociale di mercato altamente
competitiva» citata dal trattato di Lisbona è appunto
l’ordoliberalismo, con la sua teoria che il mercato e la società
coincidono, e che lo Stato – ovvero, nel modello europeo, le istituzioni
comunitarie – è garante del mercato). Il doppio cuore dell’Europa – la
guida politica alla Francia, il traino economico alla Germania – ha qui
l’origine dei suoi equivoci: la Francia ha un primato solo apparente, e
la Germania traina soprattutto se stessa, le proprie esportazioni, e le
economie incorporate in modo subalterno nel proprio spazio economico. La
stessa Germania ha dovuto, peraltro, orientare l’ordoliberalismo verso
il neoliberismo, abbandonando in parte le difese sociali dei lavoratori,
con le riforme Schroeder-Hartz fra il 2003 e il 2005. Ne è nato un
disagio sociale che sembra oggi orientarsi anche verso la SPD (che pure
ne è stata a lungo responsabile).
4.Gli spazi politici in Europa (la
questione centrale) sono multipli e intersecati. Vi sono gli spazi degli
Stati, demarcati da muri fisici e giuridici; vi è lo spazio della NATO,
che individua una frontiera calda a est, e che è a sua volta
attraversato dalla tensione fra Paesi più oltranzisti in senso
anti-russo (gli ex Stati-satellite dell’Urss) e Stati di più antica e
moderata fedeltà atlantica (tra cui la Germania); vi è la frontiera fra
area dell’euro e le aree di monete nazionali; e soprattutto vi sono i cleavages interni all’area euro – che non è un’area monetaria ottimale –, ovvero vi sono gli spread,
e oltre a questi vi è la differenziazione cruciale fra Stati debitori e
creditori; vi è poi uno spazio economico tedesco, il cuore dell’area
dell’euro, che implica una macro-divisione del lavoro industriale e
un’inclusione gerarchizzata di diverse economie nello spazio economico
germanico. È decisivo capire che lo spazio economico tedesco e lo spazio
politico tedesco non coincidono (molti Paesi inglobati di fatto
nell’economia germanica hanno una politica estera lontana da quella
tedesca): è questa mancata sovrapposizione a impedire l’affermarsi di un
IV Reich, che peraltro neppure la Germania desidera. A questa
complessità spaziale si aggiunga il fatto che la NATO ora non è più la
priorità americana, e che gli Usa di Trump sembrano al riguardo un po’
più scettici (ma su questo punto è necessario attendere l’evoluzione
degli eventi; probabilmente lo scopo statunitense è solo quello di far
sostenere agli alleati un peso economico maggiore a quello attuale, e in
ciò Trump è in linea con Obama).
5.È del tutto implausibile pensare che la
Germania, anche in caso di vittoria socialdemocratica, possa avanzare
verso l’assunzione di una maggiore responsabilità politica europea (ad
esempio, accedendo a qualche forma di eurobond): anzi, la cancelliera
Merkel verrà forse punita per il suo presunto lassismo verso la Grecia e
verso i migranti. Del resto, la sua proposta di Europa a due velocità –
qualunque cosa significhi – vuol dire proprio l’opposto di
un’assunzione di maggiore responsabilità. In Europa convivono già
diversi “regimi” su molteplici aspetti della politica internazionale; il
punctum dolens è il regime dell’euro, che Draghi ha difeso
come «irreversibile», richiamando così la Germania alle proprie
responsabilità e implicitamente riproponendo la propria politica di Qe –
che la Germania non gradisce, benché le porti sostanziosi vantaggi
sulle intermediazioni, effettuate attraverso la BuBa –, che però non è
in alcun modo risolutiva della crisi economica. In ogni caso, lo status quo
benché complessivamente favorevole alla Germania presenta per
quest’ultima qualche svantaggio: oltre al contenzioso politico con gli
anelli deboli della catena dell’euro, anche l’inimicizia americana,
motivata dal fatto che l’euro è mantenuto debole per facilitare le
esportazioni tedesche (prevalentemente). Mentre un euro a due velocità –
che nel segmento più forte verrebbe apprezzato rispetto all’attuale –
risolverebbe qualche problema politico, non impedirebbe alla Germania
(che ha grande fiducia nella propria base industriale) di continuare a
esportare merci ad alto valore aggiunto e ad esercitare egemonia nel
proprio spazio economico, e toglierebbe di mezzo alcune preoccupazioni
di Trump. Insomma, un nuovo SME, benché non risolutivo, sarebbe
probabilmente una boccata d’ossigeno per molti.
6.In Italia la UE è stata pensata come
«vincolo esterno» per superare d’imperio le debolezze della nostra
democrazia, e il nostro acceso europeismo è stato il sostituto
compensativo della nostra scarsa efficacia politica sulla scena
internazionale, diminuita ulteriormente da quando la fine del
bipolarismo mondiale ci ha privato del pur modesto ruolo di mediatori,
nel Mediterraneo, fra Occidente e mondo islamico. Il continuo acritico
rilancio del nostro Paese sugli step successivi dell’integrazione europea – SME, euro, Fiscal compact
– non è stato poi esente da aperti intenti punitivi: basti ricordare il
sarcasmo di Monti sul posto fisso, da dimenticare perché «noioso», o
gli auspici di Padoa-Schioppa sul fatto che l’euro avrebbe nuovamente
insegnato ai giovani, a cui lo Stato sociale l’ha fatta dimenticare, la
«durezza del vivere».
7.Impiccarci al «vincolo esterno» vuol
quindi dire preservare una configurazione di spazi politici che vede la
nostra sovranità compromessa dal nostro partecipare alla pluralità
incontrollabile degli spazi politici europei. Anche quando eludiamo più o
meno astutamente alcuni vincoli dell’euro, restiamo subalterni alle sue
logiche economiche complessive, oltre che ai «guardiani dei trattati»,
più o meno benevoli o rigorosi – secondo i loro disegni. E soprattutto
vuol dire privarci degli strumenti per invertire la nostra filosofia
economica e politica, e quindi consegnare l’Italia alla protesta sociale
causata dall’insostenibilità del modello economico.
8.Sono necessarie riforme che vadano in
senso opposto a quello che si è affermato fino ad ora. Ci si deve porre
come obiettivo non la crescita generica ma la piena occupazione, si deve
far leva sulla domanda interna e non principalmente sulla esportazione,
si deve perseguire la rivalutazione economica e giuridica del lavoro e
scalzare la centralità sociale e politica del mercato e/o del pareggio
di bilancio, si deve mirare alla redistribuzione della ricchezza e non
solo all’aumento del Pil, alla giustizia e non alla indiscriminata
diminuzione del carico fiscale (peraltro mai realizzata). Questi sono i
veri problemi dell’Italia, non i vitalizi né le date dei congressi, che
sono solo momenti della lotta politica di palazzo, e che servono a
celare i conflitti politici fondamentali. Questi, una volta che la
rivoluzione neoliberista ha esaurito la sua spinta propulsiva, e che
l’ipotesi ordoliberista si è rivelata mera conservazione del potere
tedesco, sono ormai una contrapposizione oggettiva tra ristrette élites
economiche e massa impoverita della popolazione (ceti medi inclusi). Le
leggi elettorali, altro tema che appassiona il ceto politico, a loro
volta, sono certo importanti; ma il pericolo più grave – l’Italicum – è
stato sventato.
9.Lo strumento principale per questa
rivoluzione, per questa discontinuità – o se si vuole, più
semplicemente, per rimettere ordine in casa nostra, per ridare l’Italia
agli italiani, nella democrazia e non nel populismo –, è lo Stato e la
sua rinnovata centralità. La Stato non è intrinsecamente portatore di
nazionalismo e di egoismo: è invece uno spazio politico potenzialmente
democratizzabile (soprattutto se in parallelo i cittadini si impegnano
in un nuovo civismo, e non nella protesta populistica, incoraggiati in
ciò dal constatare che non tutte le strade sono chiuse, che il destino
non è segnato), una via importante per la riduzione della complessità
dell’indecifrabile spazio europeo. Il termine dispregiativo «sovranista»
non significa nulla se non un rifiuto di approfondire l’analisi del
presente, e quindi denota una subalternità di fatto ai poteri dominanti
(e declinanti).
10.L’Europa va ridefinita come spazio di
pace, di democrazie, di libero scambio, ma anche secondo i suoi principi
essenziali, che sono il pluralismo degli Stati e il conseguente
dinamismo, l’immaginazione di futuri alternativi. Gli Stati uniti
d’Europa sono un modello impraticabile (dove sta il popolo europeo col
suo potere costituente?), che del resto nessuno in Europa vuole
veramente. L’Europa deve insomma configurarsi come una fornitrice di
«servizi» – anche giuridici –, come una cornice leggera che contorna
Stati sovrani liberi di allearsi e di praticare modelli economici
convergenti ma non unificati. Non si può pensare che finite le «cornici»
delle due superpotenze vittoriose, che davano forma a due Europe, la
nuova Europa libera dalla cortina di ferro debba essere a sua volta una
gabbia d’acciaio, una potenza unitaria continentale – di fatto ciò non
sta avvenendo –. È invece necessaria una nuova cultura del limite, della
pluralità e della concretezza, dopo i sogni illimitati della
globalizzazione che hanno prodotto contraddizioni gravissime e hanno
messo a rischio la democrazia; cioè una cultura della politica
democratica, non della tecnocrazia o dell’ipercapitalismo. Sotto il
profilo storico e intellettuale Europa e democrazia si coappartengono,
benché la prima democrazia moderna sia nata in America; ma per altri
versi si escludono, se ci si attende la democrazia da un blocco
continentale unificato da trattati monetari e dall’egemonia riluttante
della Germania: di fatto la democrazia in Europa vive insieme agli
Stati, e alla loro collaborazione. Dire che l’euro è irreversibile è in
fondo un atto di disperazione intellettuale e politica, o almeno di
scarsa immaginazione: un atto anti-europeo, in fondo. Di irreversibile, a
questo mondo, c’è solo l’entropia, un destino fisico; ma ciò che la
storia ha fatto può essere cambiato, soprattutto se il cambiamento deve
salvare le nostre società e le nostre democrazie. Ed è appunto la
politica quella che, posto che se lo proponga, serve a cambiare le cose,
mentre al contrario le profezie catastrofiche – minacciate a chi
pretende di percorrere una via difforme dal mainstream elevato a destino – non si sono avverate. Questo ci sia di conforto e di stimolo al pensiero e all’azione.
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