[Pubblichiamo la traduzione di due articoli della femminista americana Nancy Fraser dal sito della rivista DISSENT. Il primo The end of “progressive neoliberalism” è del 2 gennaio 2017, il secondo Against Progressive Neoliberalism, A New Progressive Populism è stato pubblicato il 28 gennaio ed è una replica a un articolo critico di Johanna Brenner There Was No Such Thing as “Progressive Neoliberalism” del 14 gennaio. Nancy Fraser ha lanciato insieme a Angela Davis e altre femministe americane l'appello per uno sciopero internazionale e militante per l'8 marzo]
L’elezione
di Donald Trump rappresenta una della serie di drammatiche rivolte
politiche che insieme segnalano un crollo dell’egemonia neoliberista.
Queste rivolte comprendono tra le altre il voto per la Brexit nel Regno
Unito, il rifiuto delle riforme di Renzi in Italia, la campagna di
Bernie Sanders per la nomination del Partito Democratico negli Stati
Uniti e il sostegno crescente per il Fronte Nazionale in Francia. Anche
se differiscono per ideologia e obiettivi, questi ammutinamenti
elettorali condividono un bersaglio comune: sono tutti dei rifiuti della
globalizzazione delle multinazionali, del neoliberismo e delle
istituzioni politiche che li hanno promossi. In ogni caso, gli elettori
stanno dicendo “No!” alla combinazione letale di austerità, libero
commercio, debito predatorio e lavoro precario mal pagato che
caratterizza il capitalismo finanziarizzato oggi. I loro voti sono una
risposta alla crisi strutturale di questa forma di capitalismo che si è
prima materializzata con il quasi crollo dell’ordine finanziario globale
nel 2008.
Fino a
tempi recenti, però, la risposta principale alla crisi era la protesta
sociale – drammatica e vivace, di sicuro, ma in gran parte effimera. I
sistemi politici, al contrario, sembravano relativamente immuni, ancora
controllati da funzionari di partito e dalle élite dell’establishment,
almeno negli stati capitalistici potenti come gli Stati Uniti, il Regno
Unito e la Germania. Ora, però, le onde d’urto elettorali si riverberano
in tutto il mondo, anche nelle cittadelle della finanza globale. Coloro
che hanno votato per Trump, come quelli che hanno votato per la Brexit e
contro le riforme italiane, sono insorti contro i loro padroni
politici. Prendendo per il naso la classe dirigente di partito, hanno
ripudiato il sistema che ha eroso le loro condizioni di vita negli
ultimi trent’anni. La sorpresa non è che lo hanno fatto, ma che ci
abbiano messo così tanto tempo.
Tuttavia,
la vittoria di Trump non è solo una rivolta contro la finanza globale.
Ciò che i suoi elettori hanno respinto non era il neoliberismo tout
court, ma il neoliberismo progressista. Questo può sembrare ad
alcuni come un ossimoro, ma è un reale, anche se perverso, allineamento
politico che costituisce la chiave per comprendere i risultati
elettorali degli Stati Uniti e forse alcuni sviluppi anche altrove.
Nella sua forma degli Stati Uniti, il neoliberismo progressista è
un’alleanza tra correnti mainstream dei nuovi movimenti sociali
(femminismo, anti-razzismo, multiculturalismo, e diritti LGBTQ), da un
lato, e settori di business di fascia alta “simbolica” e basati sui
servizi (Wall Street, Silicon Valley, e Hollywood), dall’altro. In
questa alleanza, le forze progressiste sono effettivamente unite con le
forze del capitalismo cognitivo, in particolare della
finanziarizzazione. Tuttavia involontariamente le prime prestano il loro
carisma a quest’ultima. Ideali come la diversità e la
responsabilizzazione, che potrebbero in linea di principio servire scopi
diversi, ora danno lustro a politiche che hanno devastato la produzione
e quelle che un tempo erano le vite della classe media.
Il
neoliberismo progressista si è sviluppato negli Stati Uniti nel corso
degli ultimi tre decenni ed è stato ratificato con l’elezione di Bill
Clinton nel 1992. Clinton è stato il principale artefice e portabandiera
dei “Nuovi Democratici”, l’equivalente statunitense del “New Labour” di
Tony Blair. Al posto della coalizione di lavoratori manifatturieri
sindacalizzati, afro-americani e classi medie urbane del New Deal, ha
forgiato una nuova alleanza di imprenditori, abitanti dei suburbi, nuovi
movimenti sociali e giovani che proclamano tutti la loro buona fede
moderna, progressista abbracciando la diversità, il multiculturalismo e i
diritti delle donne. Mentre appoggiava questi concetti progressisti,
l’amministrazione Clinton corteggiava Wall Street. Consegnando
l’economia a Goldman Sachs, ha liberalizzato il sistema bancario e
negoziato gli accordi di libero scambio che accelerarono la
deindustrializzazione. Ad essere abbandonata fu la Rust Belt – un tempo
roccaforte della democrazia sociale del New Deal, e ora la regione che
ha consegnato il collegio elettorale a Donald Trump.
Quella
regione, insieme ai nuovi centri industriali del sud, ha subito un
grande colpo quando la finanziarizzazione galoppante si è dispiegata nel
corso degli ultimi due decenni. Continuate dai suoi successori, tra cui
Barack Obama, le politiche di Clinton hanno degradato le condizioni di
vita di tutti i lavoratori, ma soprattutto degli occupati nella
produzione industriale. In breve, il clintonismo ha una quota pesante di
responsabilità per l’indebolimento dei sindacati, il declino dei salari
reali, la crescente precarietà del lavoro e l’ascesa della famiglia a
doppio stipendio (two–earner family) al posto del defunto salario
familiare.
Come
suggerisce questo ultimo punto, l’assalto alla sicurezza sociale è stato
lucidato con una patina di carisma emancipatorio, preso in prestito dai
nuovi movimenti sociali. Nel corso degli anni in cui la produzione si
craterizzava, il paese brulicava di discorsi su “diversità”,
“empowerment,” e “non-discriminazione.” Identificando il “progresso” con
la meritocrazia, invece che con l’uguaglianza, questi termini hanno
equiparato l’”emancipazione” con l’ascesa di una piccola elite di donne,
minoranze e omosessuali “di talento” nella gerarchia aziendale dei
vincenti che prendono tutto invece che con l’abolizione di
quest’ultima. Queste interpretazioni liberal-individualiste del
“progresso” gradualmente hanno sostituito le interpretazioni
dell’emancipazione più espansive, anti-gerarchiche, egualitarie,
sensibili alla classe, anti-capitaliste che erano fiorite negli anni ’60
e ’70. Mentre la New Left declinava, la sua critica strutturale della
società capitalistica sbiadiva, e la caratteristica mentalità
liberal-individualista del paese si riaffermava, riducendo
impercettibilmente le aspirazioni dei “progressisti” e degli
autoproclamati esponenti della sinistra. Quella che sigillò l’accordo,
però, è stata la coincidenza di questa evoluzione con l’ascesa del
neoliberismo. Un partito dedito alla liberalizzazione dell’economia
capitalistica trovò il suo compagno perfetto in un femminismo aziendale
meritocratico focalizzato sul “farsi avanti” e “rompere il soffitto di
cristallo”.
Il
risultato è stato un “neoliberismo progressista” che mixava insieme
ideali troncati di emancipazione e forme letali di finanziarizzazione.
E’ stato quel mix che è stato respinto in toto dagli elettori di Trump.
In prima fila tra coloro che sono stati abbandonati in questo nuovo
mondo cosmopolita sono stati di sicuro gli operai industriali, ma anche
manager, piccoli imprenditori, e tutti coloro che si basavano
sull’industria nel Rust Belt e nel Sud, così come le popolazioni rurali
devastate dalla disoccupazione e dalla droga. Per queste popolazioni, al
danno della deindustrializzazione si è aggiunta la beffa del moralismo
progressista, che li etichetta regolarmente come culturalmente
arretrati. Rifiutando la globalizzazione, gli elettori di Trump hanno
anche ripudiato il cosmopolitismo liberal identificato con essa. Per
alcuni (se non tutti), è stato breve il passo a incolpare per il
peggioramento delle loro condizioni la correttezza politica, le persone
di colore, gli immigrati e i musulmani. Ai loro occhi, le femministe e
Wall Street erano due gocce d’acqua, perfettamente unite nella persona
di Hillary Clinton.
Ciò che
ha reso possibile quella fusione è stata l’assenza di qualsiasi vera
sinistra. Nonostante esplosioni periodiche, come Occupy Wall Street, che
si è rivelata di breve durata, non vi era stata alcuna presenza
prolungata della sinistra negli Stati Uniti per diversi decenni. Né c’è
stata alcuna narrazione esauriente di sinistra che avrebbe potuto
collegare le legittime rivendicazioni dei sostenitori di Trump con una
critica smaccata della finanziarizzazione, da un lato, e con una visione
anti-razzista, anti-sessista, e anti-gerarchica di emancipazione,
dall’altro. Ugualmente devastanti, i potenziali legami tra lavoro e
nuovi movimenti sociali sono stati lasciati languire. Scissi l’uno
dall’altro, quei poli indispensabili di una valida sinistra sono stati a
miglia di distanza, in attesa di essere contrapposti come antitetici.
Almeno fino alla straordinaria campagna per le primarie di Bernie
Sanders che ha lottato per unirli dopo qualche incitamento da Black
Lives Matter. Facendo esplodere il buon senso neoliberista dominante, la
rivolta di Sanders è stata il parallelo sul lato democratico di quella
di Trump. Proprio mentre Trump stava rovesciando l’establishment
repubblicano, Bernie non è riuscito per un soffio a sconfiggere la
successora consacrata di Obama, i cui burocrati controllavano ogni leva
di potere nel Partito Democratico. Tra di loro, Sanders e Trump hanno
galvanizzato una grande maggioranza degli elettori americani. Ma solo il
populismo reazionario di Trump è sopravvissuto.
Mentre
lui ha facilmente rovesciato i suoi rivali repubblicani, compresi quelli
favoriti dai grandi donatori e dai boss di partito, l’insurrezione di
Sanders è stata effettivamente bloccata da un molto meno democratico
Partito Democratico. Al momento delle elezioni generali, l’alternativa
di sinistra era stata soppressa. Ciò che restava era la scelta di Hobson
tra il populismo reazionario e il neoliberismo progressista. Quando la
cosiddetta sinistra ha serrato le fila attorno a Hillary Clinton, il
dado era tratto.
Ciononostante,
e da questo punto in poi, questa è una scelta che la sinistra dovrebbe
rifiutare. Invece di accettare i termini presentati a noi da parte delle
classi politiche, che oppongono l’emancipazione alla protezione
sociale, dobbiamo lavorare per ridefinirli attingendo al fondo vasto e
crescente di repulsione sociale contro l’attuale ordine. Piuttosto che
schierarsi con la finanziarizzazione-cum-emancipazione contro la
protezione sociale, dovremmo costruire una nuova alleanza di
emancipazione e di protezione sociale contro la finanziarizzazione. In
questo progetto, che si basa su quello di Sanders, l’emancipazione non
significa diversificare la gerarchia aziendale, ma piuttosto abolirla. E
la prosperità non significa aumentare il valore delle azioni o il
profitto aziendale, ma i prerequisiti materiali di una buona vita per
tutti. Questa combinazione rimane l’unica risposta di principio e
vincente nella congiuntura.
Io non
ho versato lacrime per la sconfitta del neoliberismo progressista.
Certo, c’è molto da temere da un’amministrazione Trump, razzista,
anti-immigrati, anti-ecologica. Ma non dovremmo piangere né l’implosione
dell’egemonia neoliberista, né la frantumazione del pugno di ferro del
clintonismo sul Partito democratico. La vittoria di Trump ha segnato una
sconfitta per l’alleanza di emancipazione e finanziarizzazione. Ma la
sua presidenza non offre alcuna soluzione alla crisi attuale, nessuna
promessa di un nuovo regime, nessuna egemonia sicura. Quello che abbiamo
di fronte, piuttosto, è un interregno, una situazione aperta e
instabile in cui i cuori e le menti sono in palio. In questa situazione,
non c’è solo pericolo, ma anche opportunità: la possibilità di
costruire una nuova new left.
Se
questo avviene dipenderà in parte da alcuni gravi di coscienza tra i
progressisti che hanno sostenuto la campagna della Clinton. Dovranno
abbandonare il mito confortante, ma falso che hanno perso a causa di un
“branco di miserabili”* (razzisti, misogini, islamofobi e omofobi)
aiutati da Vladimir Putin e dall’FBI. Dovranno riconoscere la propria
parte di colpa nel sacrificare la causa della tutela sociale, del
benessere materiale, e della dignità della classe lavoratrice a false
interpretazioni dell’emancipazione in termini di meritocrazia,
diversità, e empowerment. Dovranno riflettere profondamente su come
potremmo trasformare l’economia politica del capitalismo
finanziarizzato, facendo rivivere lo slogan “socialismo democratico” di
Sanders e capire cosa possa significare nel ventunesimo secolo.
Dovranno, soprattutto, raggiungere la massa degli elettori di Trump che
non sono né razzisti, né impegnati esponenti della destra, ma essi
stessi vittime di un “sistema truccato”, che possono e devono essere
reclutati per il progetto anti-neoliberista di una sinistra rinnovata.
Questo non significa silenziare le pressanti preoccupazioni per il
razzismo o il sessismo. Ma significa dimostrare come queste oppressioni
storiche di vecchia data trovano nuove espressioni e motivi oggi, nel
capitalismo finanziarizzato. Rifiutando il falso pensiero a somma zero
che ha dominato la campagna elettorale, dobbiamo collegare le offese
subite dalle donne e dalle persone di colore a quelle subite dai tanti
che hanno votato per Trump. In questo modo, una rivitalizzata sinistra
potrebbe gettare le basi per una nuova e potente coalizione impegnata
nella lotta per tutti.
*“Basket
of deplorables”, solitamente tradotto dai giornali italiani come
“branco di miserabili” è il termine con il quale la Clinton etichettò i
sostenitori di Trump durante la campagna elettorale
…………………………………………………..
Contro il neoliberismo progressista, un nuovo populismo progressista
La
lettura del mio saggio da parte di Johanna Brenner non coglie la
centralità del problema dell’egemonia. Il punto centrale è che il
capitale finanziario ha raggiunto il dominio odierno, oltre che con la
forza, anche attraverso il “consenso”, come lo chiama Gramsci. Forze che
favoriscono la finanziarizzazione, la globalizzazione delle imprese e
la deindustrializzazione sono riuscite a conquistare il Partito
Democratico statunitense, ho affermato, perché hanno presentato queste
politiche, palesemente contrarie ai lavoratori, come progressiste. I
neoliberisti hanno conquistato potere ammantando il loro progetto in una
nuova etica cosmopolita, che privilegia la diversità, l’emancipazione
delle donne, e i diritti LGBTQ. Adescando chi professa questi ideali, i
neoliberisti hanno forgiato un nuovo blocco egemonico, che ho battezzato
neoliberismo progressista. Nell’identificare e analizzare questo
blocco, non ho perso di vista il potere del capitale finanziario, come
mi rimprovera Johanna Brenner, ma ho tentato di spiegare la sua
supremazia politica.
L’ottica
dell’egemonia fa luce anche sulla posizione dei movimenti nei confronti
del neoliberismo. Invece di isolare collusi e cooptati, mi sono
concentrata sul diffuso slittamento dall’uguaglianza alla meritocrazia
nel pensiero progressista. Negli ultimi decenni, questo pensiero ha
sovraccaricato la comunicazione e ha influenzato non solo le femministe
liberali e i sostenitori della diversità, che ne hanno abbracciato con
consapevolezza l’etica individualista, ma ha influenzato anche molti
all’interno dei movimenti. Anche quelle che Brenner chiama femministe
del “social welfare” hanno trovato nel neoliberismo progressista
elementi in cui identificarsi, e hanno chiuso un occhio sulle sue
contraddizioni. Ciò non significa dar loro la colpa, come sostiene
Brenner, ma chiarire come funziona l’egemonia, cioè attirandoci e
seducendoci, al fine di capire come meglio costruire una controegemonia.
Quest’idea
è il canone di valutazione delle sorti della sinistra dagli anni
ottanta ad oggi. Rivisitando questi anni, Johanna Brenner esamina una
mole impressionante di attivismo di sinistra, che lei appoggia ed ammira
al pari di me. Ma l’ammirazione non viene meno quando si osserva che
l’attivismo non è assurto ad una controegemonia. Non è riuscito a
presentarsi come un’alternativa credibile al neoliberismo progressista,
né a sostituire i “noi” e i “loro” del neoliberismo con dei propri “noi”
e “loro”. Il perché richiederebbe un lungo studio, ma una cosa è
chiara: restii alla sfida frontale con le varianti
progressiste-neoliberiste del femminismo, dell’antirazzismo e del
multiculturalismo, gli attivisti di sinistra non sono mai stati in grado
di raggiungere i “reazionari populisti” (vale a dire, i bianchi della
classe operaia industriale), che hanno finito per votare per Trump.
Bernie
Sanders è l’eccezione che conferma la regola. La sua campagna
elettorale, con tutte le imperfezioni del caso, ha contestato
direttamente le linee consolidate di separazione politica. Ha preso di
mira “la classe dei miliardari”, ha teso la mano ai derelitti del
neoliberismo progressista, si è rivolta alle comunità che si aggrappano
al loro tenore di vita da “classe media”, le ha considerate alla stregua
di vittime di una “economia truccata”, che meritano rispetto e possono
fare causa comune con altre vittime, molte delle quali non hanno mai
avuto accesso ai posti di lavoro della “classe media”. Nel contempo,
Sanders ha strappato via una buona fetta di coloro che gravitavano verso
il neoliberismo progressista. Anche se sconfitto da Hillary Clinton,
Sanders ci ha indicato la strada verso una controegemonia possibile: ci
ha fatto intravedere, invece dell’alleanza progressista-neoliberista fra
finanziarizzazione ed emancipazione, un nuovo blocco
“progressista-populista” che unisce emancipazione e protezione sociale.
A mio
parere, nell’era di Trump la scelta di Sanders resta l’unica strategia
onesta e vincente. A coloro che adesso si mobilitano con la bandiera
della “resistenza”, suggerisco il contro-progetto della “correzione di
rotta”. Invece di ostinarsi nella definizione progressista-neoliberista
di “noi” (progressisti) contro “loro” (i “deplorevoli” partigiani di
Trump), questo contro-progetto ridisegna la mappa politica, e fa causa
comune con tutti quelli che l’amministrazione Trump si accinge a
tradire: non solo gli immigrati, le femministe, e le persone di colore
che gli hanno votato contro, ma anche quegli strati della classe operaia
della “Rust Belt” e del Sud che hanno votato per lui. Johanna Brenner
mi rinfaccia di dissolvere la “politica dell’identità” nella “politica
di classe.” Al contrario, la questione è identificare chiaramente le
radici comuni delle ingiustizie di classe e di status nel capitalismo
finanziario, e costruire alleanze tra coloro che devono unirsi per
combattere entrambe.
traduzione di Maurizio Acerbo e Ludovico Fischer
per aderire alla brigata traduttori mandare una mail a traduttori@rifondazione.it
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