Continuiamo ad assistere alle solite dissertazioni di stampo parateologico dottrinario su Di Pietro e la sinistra. Di Pietro non è buono, perché non “ha profondità di pensiero”, perché ha una visione ipostatica del diritto che invece è figlio del conflitto e della riproposizione continua del concetto di legalità quale risultante dei mutati equilibri nei rapporti di forza. Lo sappiamo. Questo Blog ne ha già parlato diverse volte, trattando degli argomenti e degli interrogativi che oggi si pongono i vari Revelli, Bascetta, Rossanda ecc. già un bel po’ di tempo addietro. Chapeau! Ci piace autoincensarci.
Sappiamo benissimo che se dessimo retta a una concezione del diritto come materia immobile, al di fuori delle dinamiche del conflitto e dei mutamenti sociali, oggi saremmo ancora alla servitù della gleba e i magistrati sarebbero costretti a dare la caccia agli schiavi fuggiaschi, violatori della legge. Il fatto è che tale posizione di principio non coincide affatto con la necessità di creare un fronte comune che costituisca un’alternativa all’attuale regime, né con una visione che sappia collocare la richiesta di legalità come necessità legata a un contesto storico-politico, dove l’intreccio fra potere mafioso e potere politico la fa da padrone. Continuare a proporre discriminanti e distinguo non ha alcun senso poiché significa dare valore assoluto a posizioni che invece rispondono a esigenze legate a contesti specifici. Nemmeno Di Pietro pensa che il diritto debba essere una specie di totem inviolabile, ma certo non può fare a meno di appellarsi al diritto, quando parla di mafia e di Berlusconi. La mafia se ne infischia della filosofia del diritto e così anche Berlusconi. La verità è che se non si temesse il confronto e non si fosse preda della paura di vedere le proprie identità deformate e stravolte, tali disquisizioni potrebbero essere tranquillamente ricondotte in un ambito neutrale di confronto dialettico, senza creare discriminanti ad escludendum.
In quanto alla “profondità di pensiero”, chiediamoci quanta di questa profondità non sia una sorta di dissociazione dalla realtà e di una rarefazione del senso comune in ragione di sottigliezze di pensiero che sono solo un esercizio di stile totalmente vuoto e privo di significato. Per dare retta alla “profondità di pensiero” siamo andati dietro alla cazzate senza senso dei vari Deleuze, Guattarì, Lacan e via dicendo. Siamo sprofondati in quella “profondità” fino a perdere il lume della ragione. Rimango d’accordo con Revelli, quando dice che Di Pietro ha restituito un senso vero alle cose che si dicono, nominando i soggetti e le loro azioni per quello che realmente sono.
Ora si tratta di darsi da fare sul serio e costruire una vera alternativa a questo regime, evitando sottigliezze e furbizie che ci distolgano la mente dall’urgenza della situazione. Lo sappiamo che sarà una scelta imperfetta perché dovrà nascere da un patto fra forze politiche eterogenee che si trovano a dover fronteggiare una situazione straordinaria e a immaginare una transizione che sottragga l’Italia dalle spire di un potere mafioso clientelare, ma non c’è altra via. Sappiamo anche che molti compagni li perderemo per strada: già adesso molte persone di sinistra dichiarano che giammai si faranno contaminare dal semplicismo giustizialista di Di Pietro. Altri poi resteranno ancorati alla nobile missione di ricostruire il Partito Comunista. Dobbiamo comunque cercare di convincere queste persone a mettere fra parentesi le loro convinzioni e ad accettare un compromesso che ci porti a una posizione più avanzata di quella attuale, che riesca a scongiurare il pericolo del fascismo della Lega e del regime berlusconiano. Non basta. Forse dirò una bestemmia, ma è necessario che impariamo a parlare a quel blocco sociale produttivo del nord fatto di piccole imprese di artigiani e di liberi professionisti, i quali identificano i loro interessi con quelli di Berlusconi poiché temono una sinistra fustigatrice del profitto quale giusta remunerazione del proprio lavoro. Che ci piaccia o no dovremmo cercare di coinvolgere questi ceti in un progetto di “ammodernamento” della società italiana coinvolgendoli in una strategia di rinnovamento delle dinamiche di prodotto piuttosto che di processo, in una visione più ecocompatibile. So che questo farà storcere il naso a molti a sinistra e nel movimento, perché può essere letto come una delle diverse variabili della riproduzione del capitalismo, che lasciano inalterate le ingiustizie e le diseguaglianze e portano ad accantonare la discussione sulla decrescita come unica via sensata per salvare il pianeta. La realtà dei fatti però è questa, e se una mediazione ci deve essere, non può che avere delle ricadute anche su un piano sociale. Dobbiamo in primo luogo considerare il rischio reale di un’involuzione autoritaria e di un disfacimento delle istituzioni democratiche e dell’unità del territorio. “La Jugoslavia dolce” è alle porte non dimentichiamocene.
Qualcosa si sta muovendo, ma non basta. Norma Rangeri e Valentino Parlato propongono un forum delle forze di opposizione. Una proposta saggia e apparentemente corretta ma insufficiente e persino contro producente, perché rischia di impantanare la discussione nei mille distinguo e nelle mille discriminanti che non faranno altro che piazzare bandierine e paletti per delimitare i confini senza portare al alcunché di propositivo. Purtroppo è un’esperienza già vissuta mille volte.
Bisogna osare di più e con moto più fragore. Il proposito principale non può essere mettersi al tavolo e discutere dei massimi sistemi per vedere quello che ne viene fuori. Bisogna formulare da subito una proposta di unione e sulla base di quella discutere di strategie. Si saltano dei passaggi? Troppo prematuro? Toh! Guardo di fuori e la casa brucia. Pausa caffè.
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