L'elevato debito pubblico italiano costituisce un problema, per il
presidente Letta, perché danneggia le generazioni future, che saranno
gravate da ulteriori imposte nel caso in cui il debito dovesse
ulteriormente crescere. Sono tesi che si basano sulla fallace
equiparazione del debito di una famiglia con il debito di uno Stato. E
che devono essere superate, se davvero si vuole andare oltre il
disastroso dogma dell'austerità.
di Guglielmo Forges Davanzati da Micromega
Per
l’ex premier Mario Monti, il (presunto) elevato debito pubblico
italiano costituiva un problema dal momento che avrebbe incentivato
attacchi speculativi, così che occorreva porre in essere misure di
austerità, riducendo la spesa pubblica e soprattutto aumentando
l’imposizione fiscale. Due i risultati ottenuti: le misure di austerità
messe in atto per ridurre il rapporto debito pubblico/PIL hanno prodotto
l’esito esattamente opposto, determinandone un aumento di circa 7 punti
percentuali in un anno, anche in considerazione dell’errore di stima
del moltiplicatore fiscale, come evidenziato dal Fondo Monetario
Internazionale. In più, proprio in quella fase, all’aumentare del debito
pubblico non hanno fatto seguito attacchi speculativi, o almeno non di
entità e durata paragonabili a quelli sperimentati nell’estate del 2011,
quando l’indebitamento pubblico rispetto al PIL era inferiore ai valori
assunti nel corso del 2012.
Per il neo-Presidente del
Consiglio, Enrico Letta, il (presunto) elevato debito pubblico italiano
costituisce un problema perché danneggia le generazioni future, che,
inevitabilmente, a suo dire, saranno gravate da ulteriori imposte nel
caso in cui il debito dovesse ulteriormente crescere.
E’ bene
chiarire che queste convinzioni si basano sulla fallace equiparazione
del debito di una famiglia con il debito di uno Stato, e soprattutto si
basano sull’assunto – non dimostrato né dimostrabile – secondo il quale
il nostro debito pubblico è eccessivamente elevato. Si tratta di
un’assunzione opinabile dal momento che, allo stato attuale delle
conoscenze, non esiste alcun criterio “scientifico” per definire il
limite di sostenibilità del debito: sul piano empirico, può essere qui
sufficiente richiamare il caso giapponese, laddove, con un rapporto
debito pubblico/PIL che oscilla intorno al 240%, non sussistono problemi
di sostenibilità dello stesso. Si può, inoltre, ricordare che il
rapporto debito pubblico/PIL italiano è sostanzialmente in linea con la
media dei Paesi appartenenti all’Unione Monetaria Europea e che, stando a
studi recenti relativi alla quantificazione del c.d. debito pubblico
“implicito”, sembrerebbe che il debito italiano in rapporto al PIL sia inferiore a quello di tutti i Paesi dell’eurozona, Germania inclusa.
La
convinzione del Presidente Letta, secondo la quale le politiche di
rigore si giustificano per ragioni di equità intergenerazionale, è del
tutto priva di fondamento, per le seguenti ragioni.
1) Non è chiaro chi, perché e quando dovrebbe
accrescere l’imposizione fiscale a danno delle generazioni future. E
non è chiaro a quale futuro si fa riferimento, dal momento che l’aumento della tassazione a seguito di un aumento del debito pubblico non è affatto un automatismo, e rinvia a una decisione puramente politica. Né è dato sapere di quanto la
pressione fiscale aumenterà e a danno di quali gruppi sociali. In altri
termini, il Presidente Letta ritiene di poter persuadere i contribuenti
italiani rendendoli disponibili a impoverirsi oggi per evitare di
impoverire i posteri, ovvero ritiene che li si possa far diventare a tal
punto altruisti in senso intergenerazionale da far loro
desiderare il benessere di individui che potrebbero non conoscere mai,
accettando ulteriori sacrifici certi, oggi.
2) Si può, per contro, argomentare che è semmai l’aumento
del debito pubblico a non impoverire le generazioni future, dal momento
che maggiore spesa pubblica oggi comporta maggiori redditi disponibili e
maggiore disponibilità per lasciti ereditari. Il fatto che,
particolarmente nel caso italiano, la spesa pubblica possa in parte
generare corruzione, “sprechi”, inefficienze non legittima affatto la
tesi che essa non contribuisca a generare crescita economica. La spesa
pubblica (all’estremo, anche se “improduttiva”) ha effetti espansivi per
almeno due ragioni, ben note. In primo luogo, per l’attivarsi del
meccanismo keynesiano stando al quale la spesa pubblica, accrescendo la
domanda aggregata, accresce l’occupazione e la produzione, con effetti
moltiplicativi. In secondo luogo, perché, in quanto amplia i mercati di
sbocco, migliora le aspettative imprenditoriali e incentiva gli investimenti privati.
3)
Anche ammesso che la crescita del debito pubblico comporti un
trasferimento dell’onere fiscale a danno delle generazioni future, ciò
non costituisce un danno irreversibile, come è, con ogni evidenza, il
danno ambientale. Mentre, infatti, nel caso del danno ambientale vi è distruzione di risorse non riproducibili,
nel caso dell’aumento delle imposte ciò non accade: fatta eccezione per
le risorse naturali, gli altri fattori produttivi sono riproducibili,
non essendo soggetti a vincoli di scarsità.
L’esperienza
italiana degli ultimi decenni mostra, in effetti, che quanto più si è
cercato di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, tanto più questo
rapporto è aumentato e tanto più – per decisioni puramente politiche –
si è trasferito l’onere dell’aggiustamento sulle generazioni successive,
in una spirale perversa che ha generato il progressivo inarrestabile
impoverimento (in ordine di tempo) dei lavoratori, delle classi medie,
delle piccole e medie imprese e, infine, della forza-lavoro giovanile.
Ciò
è accaduto sostanzialmente a ragione del fatto che si è cercato di
ridurre il rapporto debito pubblico/PIL agendo esclusivamente sul
numeratore della frazione, e dunque riducendo la spesa pubblica e/o
aumentando la tassazione. Ne è seguita la caduta della domanda e
dell’occupazione, con conseguenti inevitabili effetti negativi sul tasso
di crescita. La conseguente riduzione della base imponibile ha reso
sempre più difficile reperire risorse per pagare il debito. Non si è
trovata altra strada se non aumentare la pressione fiscale, peraltro
rendendo sempre meno progressiva la tassazione e, dunque, facendo
gravare l’onere sempre più sulle fasce di reddito più basse. In tal
senso, dovrebbe essere ormai chiaro che è la riduzione del tasso di
crescita ad accrescere il debito, non il contrario.
Si riconosca
almeno che le politiche di austerità non sono un “imperativo
categorico”, valide in ogni circostanza di tempo e di luogo, e che altre
vie sono percorribili, peraltro con maggiore efficacia. La c.d. “Abenomics” giapponese
– ovvero l’attuazione di un’aggressiva politica fiscale (e monetaria)
espansiva, nell’ordine di 85 miliardi di euro come primo stanziamento,
con una stima di crescita del 2% su base annua – costituisce la conferma
più recente del fatto che il deficit spending può essere ancora considerato una strategia pienamente efficace almeno in funzione anti-ciclica.
Avendo
sperimentato l’inoppugnabile fallimento delle politiche di austerità,
non si vede ragione per la quale reiterare l’errore, soprattutto se il
rispetto del vincolo del rigore finanziario viene motivato con
argomentazioni che intendono legittimare una recessione politicamente
indotta appellandosi a discutibili argomenti etici. Gli argomenti etici
dovrebbero essere, al più, utilizzati per far fronte all’insostenibile
disuguaglianza distributiva che queste stesse politiche hanno
contribuito a produrre.
martedì 28 maggio 2013
Letta e il falso problema del debito pubblico
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