Riforme. Il premier non accetta mediazioni, Grasso spiana il dibattito, votazioni a passo di carica. Strilli, canguri, voti a tamburo battente, regole stracciate. Così nasce la nuova Costituzione
Alle 16 e 50 il senato entra ufficialmente nel più totale inarrestabile inemendabile caos. Così va avanti fino a notte. L’aula esplode, i 5 stelle battono le mani sui banchi e urlano «non-si-può»,«non-si-può», le cravatte verdi dei leghisti garriscono come bandiere; dalla parte opposta dell’emiciclo la senatrice De Petris si sbraccia per intervenire. I democratici sonnecchiano ma i grillini li provocano: «Vi ha scritto il compitino Renzi». E allora quelli: «è a voi che lo scrive Grillo»; il torinese Esposito, era un dalemiano prima del ciclone Renzi, «smettetela di dire che siamo ricattati»; il capogruppo Pd Zanda «Andremo fino in fondo, vogliamo lavorare in pace»; dai banchi grillini si alza un cartello sarcastico «Grasso cedi la poltrona a Zanda». E Petrocelli (M5S): «Grasso si sta comportando come lo zerbino della maggioranza, se oggi non ci sono stati i tumulti, occhio a domani».
Succede quello che si temeva, sperava, paventava, organizzava e tentava di sventare da giorni. Il governo sembrava pronto a discutere con le opposizioni sulle riforme costituzionali? Era uno scherzo, un sapiente lavoto di spin. Oppure Renzi ha capito di avere la maggioranza ed ha cambiato idea. Si doveva discutere sulla democrazia diretta, l’equilibrio dei poteri, i referendum? Si fa il braccio di ferro, e la discussione diventa caos.
La mattina del giorno che doveva essere quello della mediazione, il capofila dei dissidenti Pd Vannino Chiti espone in aula il suo ramoscello di pace: per non disperdersi «in migliaia di emendamenti», si può concentrare la discussione sulle «proposte fondamentali» entro l’8 agosto, per poi rimandare l’approvazione finale a settembre «così da consentire ai cittadini di percepire la serietà e del confronto parlamentare». La ministra Boschi tace. Sel, 5 stelle, Lega, spiegano che se c’è un gesto di buona volontà gli emendamenti ostruzionistici — solo quelli — si possono ritirare. Ma il gesto non arriva. La ministra Boschi anzi sceglie con cura le parole per far saltare i nervi alle opposizioni: «Il governo ha dato prova di collaborazione e volontà di mediazione» in questi mesi «ma non può sottostare al ricatto ostruzionista» non è concepibile, «che sia la minoranza ad affermare le proprie ragioni a scapito della maggioranza». Mediazione fallita. La riunione dei capigruppo poi sancisce la fine del dialogo fra sordi. Sel offre il ritiro di 1475 emendamenti ma, spiegherà poi in aula De Petris «evidentemente si voleva girare un altro film».
Alle tre del pomeriggio l’aula riattacca i lavori. Ma c’è un fatto nuovo: Pietro Grasso, quello che il Pd aveva duramente contestato per aver accettato alcuni voti segreti («i regolamenti sono chiari», si era giustificato), quello a cui da giorni le opposizioni si rivolgono con rispetto e gratitudine, si è trasformato. È un’altra persona. Va avanti tutta. Per primo fa approvare, su richiesta del Pd, un emendamento sulla parità di genere. Poi parte il braccio di ferro dei voti segreti. Si inizia con l’1.29 di Sel. È il primo voto segreto che Grasso ha ammesso, lo rende obbligatorio una citazione delle minoranze lingustiche. Ma Grasso è pronto a spacchettarlo, l’aula si infiamma, i grillini urlano il loro grido di battaglia «non-si può», «non-si-può». Grasso interrompe, alla ripresa il disordine è peggio, De Petris ritira l’emendamento e lo trasforma in un ordine del giorno. È una tecnica ostruzionistica, la ripeterà varie volte. Arriva l’emendamento 1.28, dice che le camere debbono essere elette con il «suffragio universale diretto»: se passa, salta l’elezione indiretta del senato. Si vota se votare, come in un aula magna occupata dagli studenti. Il librone bianco e rosso dei regolamento è il best seller su tutti i banchi. Il forzista Schifani fa l’elogio del voto segreto ma poi è dice sì a quello palese, i grillini fanno l’elogio del voto palese ma poi sono per quello segreto. Il centrista dissidente Di Maggio attacca: «La maggioranza teme il voto segreto, delle due l’una: o non è una maggioranza o ha i suoi parlamentari ricattati».
A questo punto è Chiti a rispondere: «Il voto segreto non tutela i senatori del Pd, non ne abbiamo bisogno». Avanti a singhiozzo, a strilli, a strappi. Il forzista Paolo Romani: «Prendiamo atto che così non si può andare avanti. Decidiamo una volta per tutte come si fa il voto segreto». Grasso non intende prendersi la responsabilità di decidere — che pure gli spetta per regolamento. Va avanti. Parte il cannoneggamento contro Sel. Arriva il sottosegretario Lotti e dichiara: l’atteggiamento di Sel «preclude ogni alleanza futura, soprattutto sul territorio. Non so voi, ma io un accordo politico con chi distrugge la Carta non lo farei». Sel buttata fuori da tutte le alleanze? Il vendoliano De Cristofaro replica in aula: «Non ci ricattate. Una resa senza condizioni non ci sarà». Accanto a lui c’è il senatore Dario Stefàno, già candidato alle primarie della Puglia. La Lista Tsipras fa sapere che oggi i senatori di Sel sono attesi al loro sit in al Pantheon. Intanto Grasso procede a passo di carica con il «canguro», la tecnica di accorpamento degli emendamenti. Nessuno capisce quello che vota, M5S chiede uno stop: «Ci ha fatto saltare d’un salto 600 pagine». A fine serata mancano ancora più di 4mila emendamenti. Renzi sa che alla fine la riforma passerà, ma vuole scaricare la figuraccia sulle opposizioni, «la palude». In serata scrive su facebook: «La nostra determinazione è più forte dei loro giochetti. Andiamo avanti pronti a discutere con tutti ma non ci faremo mai ricattare da nessuno».
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