dal Blog di Maurizio Acerbo
Nel maggio 2013 ho avuto il piacere di trattare quest’argomento durante il sesto Subversive Festival di Zagabria. Solo ora sono riuscito a metterlo per iscritto e ad espanderlo per quanto riguarda alcuni aspetti significativi.
- 1. Introduzione. Una confessione radicale
Nel
2008, il capitalismo ha subito la sua seconda grande contrazione a
livello mondiale, causando una reazione a catena che ha sprofondato
l’Europa in una spirale recessiva che sta tuttora minacciando gli
europei con un vortice di depressione permanente, cinismo,
disintegrazione e misantropia.
Negli
scorsi tre anni, mi è capitato di esprimermi sul momento difficile
dell’Europa di fronte a platee estremamente variegate. Migliaia di
dimostranti anti-austerity a Piazza Syntagma ad Atene, staff della
Federal Reserve di New York, europarlamentari dei Verdi al Parlamento
Europeo, analisti della Bloomberg a Londra e New York, studenti nei
sobborghi degradati di Atene e New York, la Camera dei Comuni di Londra,
attivisti di Syriza a Salonicco, proprietari di fondi comuni
d’investimento a Manhattan e a Londra, la lista è lunga tanto quanto la
progressiva ritirata dei leader europei da principi umanisti, e la
ragione di tali interventi continua a persistere. Nonostante
l’eterogeneità delle platee, il messaggio è stato sempre uno: l’attuale
crisi europea non è solamente una minaccia per i lavoratori, per gli
spossessati, per i banchieri, per gruppi particolari, classi sociali o
persino nazioni. No, l’attuale atteggiamento dell’Europa pone una seria
minaccia alla civiltà così come noi oggi la conosciamo.
Se la
mia prognosi è corretta, e la crisi europea non è solamente un’altra
caduta ciclica che verrà presto superata nel momento in cui i tassi di
profitto aumenteranno in seguito all’inevitabile caduta dei salari, la
questione all’ordine del giorno per i pensatori radicali è questa:
dovremmo accogliere questo stallo totale del capitalismo europeo come
un’opportunità per rimpiazzarlo con un sistema migliore? O dovremmo
esserne talmente preoccupati da intraprendere una campagna per
stabilizzare il capitalismo europeo? La mia risposta in questi tre anni è
stata chiara, e la sua sostanza è stata male interpretata dalla
summenzionata lista di diverse platee che ho tentato di influenzare. La
crisi europea è, per come la vedo, gravida non di potenziali alternative
progressiste, ma di forze radicalmente regressive che avrebbero la
capacità di causare un bagno di sangue umanitario estinguendo la
speranza di qualsiasi azione progressista per generazioni a venire.
A causa
di tale teoria, da voci radicali in buona fede, sono stato accusato di
“disfattismo”: un menscevico fuori tempo massimo che si batte senza
sosta a favore di analisi il cui scopo sarebbe quello di salvare un
sistema socio-economico europeo indifendibile. Un sistema che
rappresenta tutto quello che un radicale dovrebbe condannare e
combattere: un’Unione Europea anti-democratica, irreversibilmente
neoliberista, altamente irrazionale, transnazionale, che ha possibilità
praticamente nulle di evolvere in una comunità sinceramente umanista in
cui le nazioni europee possano respirare, vivere e svilupparsi. Questa
critica, lo confesso, mi fa male. E mi fa male perché contiene più di
una parte di verità.
Infatti,
condivido la visione di questa Unione Europea come un’istituzione
fondamentalmente anti-democratica e irrazionale che sta conducendo i
popoli europei verso un sentiero di misantropia, conflitto e recessione
permanente. E mi inchino anche alla critica che io mi sto battendo su
un’agenda che si basa sul presupposto che la sinistra era, e rimanga,
sconfitta in pieno. E così si, in questo senso, mi sento costretto ad
accondiscendere al fatto che vorrei che i miei obiettivi fossero di un
altro tipo; vorrei molto più promuovere un programma la cui ragion
d’essere sia la sostituzione del capitalismo europeo con un differente
sistema più razionale – piuttosto che sforzarsi solamente per
stabilizzare il capitalismo europeo che fa a pugni con la mia
definizione di Buona Società.
A questo
punto, forse può essere pertinente introdurre una seconda confessione:
confessare che… le confessioni tendono sempre ad essere egocentriche. In
effetti, le confessioni sono sempre molto simili a quel che John Von
Neumann una volta disse parlando di Robert Oppenheimer dopo aver sentito
dire che il suo ex direttore nel Manhattan Project si era trasformato
in un attivista contro il nucleare e aveva confessato di sentirsi in
colpa per il suo contributo alla carneficina di Hiroshima e Nagasaki. Le
caustiche parole di John Von Neumann furono: “Sta confessando il peccato per rivendicarne la gloria”.
Grazie
al cielo, non sono Oppenheimer e, di conseguenza, non sarà difficile
evitare di rivendicare vari peccati come tentativo di auto-promozione
ma, piuttosto, come una finestra da cui dare un’occhiata alle mie
visioni di un capitalismo europeo ossessionato dalla crisi,
profondamente irrazionale e ripugnante la cui esplosione, malgrado i
suoi molti mali, dovrebbe essere evitata ad ogni costo. È una
confessione con cui convincere i radicali del fatto che siamo chiamati
ad una missione contraddittoria: arrestare la caduta libera del
capitalismo europeo allo scopo di guadagnare il tempo di cui c’è bisogno
per formulare l’alternativa.
- 2. Perché sono un marxista?
Quando
scelsi il tema della mia tesi di dottorato, nel 1982, scelsi,
intenzionalmente, un argomento altamente matematico e un tema nel quale
il pensiero di Marx era irrilevante. Quando, più tardi, intrapresi la
carriera accademica, come professore in dipartimenti mainstream di
Economia, il contratto implicito tra me e i dipartimenti che mi
offrivano di tenere le lezioni era che avrei trattato quegli argomenti
di teoria economica che non lasciavano spazio a Marx. Alla fine degli
anni Ottanta, a mia insaputa, fui assunto all’Università di Sidney in
modo da far fuori un altro candidato di sinistra. Poi, dopo il mio
ritorno in Grecia nel 2000, unii i miei sforzi a quelli di George
Papandreou, cercando di rimuovere il rischio del ritorno al potere di
una risorgente destra ostinata a far tornare la Grecia in un
atteggiamento di xenofobia (sia per quanto riguardava la politica
interna, con un giro di vite contro i lavoratori migranti, sia in
questioni di politica estera). Così come tutto il mondo sa ora, il
partito del signor Papandreou non solo fallì nel combattere la xenofobia
ma, invece, promosse le più virulenti politiche macroeconomiche
liberiste comandate dai cosiddetti piani di salvataggio dell’Eurozona,
causando involontariamente il ritorno dei nazisti per le strade di
Atene. Nonostante io avessi rassegnato le mie dimissioni come
consigliere del signor Papadreou all’inizio del 2006, e fossi divenuto
uno dei critici più insistenti del governo durante la sua pessima
gestione dell’implosione greca post-2009, i miei interventi nel
dibattito pubblico in Grecia e in Europa (ad esempio la Modesta proposta per risolvere la crisi dell’Euro, della quale sono co-autore e per la quale mi sono battuto) non contenevano la minima traccia di marxismo.
In virtù
di questo lungo sentiero attraverso le università e i dibattiti
politici in Europa, uno potrebbe essere sorpreso dal vedermi tirar fuori
il proverbiale segreto dal cassetto dichiarandomi marxista. Tali
affermazioni non mi giungono naturali. Vorrei poter evitare le
etero-definizioni (ovvero l’essere definiti in base al metodo e alla
visione del mondo di qualcun altro). Marxista, hegeliano, keynesiano,
humiano, sarei naturalmente predisposto a dire che non sono nessuna di
queste cose; che ho trascorso il mio tempo cercando di diventare l’ape
di Francis Bacon: una creatura che raccoglie il nettare da milioni di
fiori e lo trasforma, nel suo stomaco, in qualcosa di nuovo, qualcosa di
personale, un qualcosa che è debitore di ogni singolo fiore ma che non è
definito da nessuno di essi preso singolarmente. Ma, ahimè, questo
sarebbe falso, e dunque non un buon metodo per iniziare una…confessione.
A dire
il vero, Karl Marx è stato responsabile nel formare la mia prospettiva
del mondo in cui viviamo, dalla mia infanzia al giorno d’oggi. Non è
qualcosa di cui parlerei volentieri molto nella buona società odierna
perché la sola menzione della parola che inizia con M estingue ogni
interesse della platea. Ma è una cosa che non ho mai nemmeno negato. In
effetti, dopo alcuni anni trascorsi ad indirizzarmi a platee con le
quali non condividevo il retroterra ideologico, è sorto recentemente in
me un bisogno di parlare candidamente dell’influenza di Marx sul mio
pensiero. Per spiegare il perché, il perché essere un marxista
impenitente, penso che sia importante resistergli con ardore su molti
argomenti. Essere, in altre parole, eretici nel proprio marxismo.
Se la
mia carriera accademica ha largamente ignorato Marx, e i miei attuali
consigli politici sono impossibili da descrivere come marxisti, allora
perché tirar fuori ora il mio marxismo? La risposta è semplice: persino
le mie visioni economiche non-marxiste sono guidate da un assetto
mentale pesantemente influenzato da Marx. Ho sempre pensato che un
teorico sociale radicale possa sfidare il pensiero economico dominante
in due modi diversi: uno è attraverso la strada della critica immanente.
Accettare gli assiomi dominanti e quindi esporne le contraddizioni
interne. Dire: “Non contesto i tuoi presupposti, ma ecco perché le tue
conclusioni non derivano logicamente da quelli”. Questo era, infatti, il
metodo usato da Marx per minare il sistema dell’economia politica
britannica. Marx accettò ogni singolo assioma di Adam Smith e David
Ricardo al fine di dimostrare che, nel contesto delle loro assunzioni,
il capitalismo era un sistema contraddittorio. La seconda strada che un
teorico radicale può perseguire è, ovviamente, quella della costruzione
di teorie alternative a quelle dell’establishment, sperando che esse verranno prese sul serio (che è ciò che gli economisti marxisti del tardo XX secolo stanno facendo).
Il mio
parere su questa doppia alternativa è sempre stato che i poteri in
carica non sono mai perturbati da teorie che partono da assunti diversi
dai propri. Nessun economista dell’establishment presterà mai
attenzione a un modello marxista o neo-ricardiano in questi giorni.
L’unica cosa che può destabilizzare e sfidare seriamente gli economisti mainstream neoclassici
è la dimostrazione dell’inconsistenza dei loro propri modelli. È per
questa ragione che, fin dall’inizio, ho scelto di penetrare nelle
viscere della teoria neoclassica e di non spendere quasi nessuna energia
nel tentativo di sviluppare modelli alternativi, marxisti, di
capitalismo. Le mie ragioni, lo ammetto, erano piuttosto…marxiste[1].
Quando
spinto a commentare il mondo in cui viviamo, in quanto contrario
all’ideologia dominante sul funzionamento dell’economia globale, non
avevo alternative che tornare alla tradizione marxista che aveva
forgiato il mio pensiero sin da quando mio padre, metallurgista, aveva
impresso in me, quando ero ancora bambino, l’importanza dei cambiamenti
tecnologici e delle innovazioni nel processo storico. Come, per esempio,
il passaggio dall’Età del Bronzo a quella del Ferro velocizzò la
storia; come la scoperta dell’acciaio accelerò il tempo storico dieci
volte; e come le tecnologie informatiche basate sul silicio sono
discontinuità storiche e socio-economiche di primaria importanza.
Questo
trionfo costante della ragione umana sulla natura e sui mezzi
tecnologici, che serve anche periodicamente ad esporre l’arretratezza
delle nostre sovrastrutture sociali e delle nostre relazioni, è una
prospettiva insostituibile che devo a Marx. Il suo materialismo storico
fu rinforzato nel modo più interessante e inaspettato. Chiunque abbia
guardato l’episodio di Star Trek Voyager intitolato “In un batter d’occhio”,
riconoscerà una meravigliosa raffigurazione in quarantacinque minuti
del materialismo storico al lavoro: un’impressionante narrazione del
processo per cui lo sviluppo dei mezzi di produzione genera progressi
tecnologici che costantemente mettono in discussione la superstizione e
creano impulsi storici che, in maniera non lineare, generano nuove fasi
della civilizzazione.
Il mio
primo incontro con i testi di Marx avvenne molto presto nella mia vita,
come risultato degli strani tempi in cui mi ritrovai a crescere, con la
Grecia intenta ad uscire dall’incubo della dittatura neofascista del
1967-1974. Quel che attirò la mia attenzione fu l’insuperabile,
affascinante dono di Marx nel ritrarre la storia umana come un’opera
teatrale, in cui la dannazione umana è riscattata da una reale
possibilità di salvezza e da una spiritualità autentica. Leggendo frasi
quali…
“la
moderna società borghese con le sue condizioni borghesi di produzione e
di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, una società che ha evocato
come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio,
rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze
sotterranee da lui evocate”. (Il Manifesto del Partito Comunista, 1848)
…sembrava
quasi di presenziare a un incontro fra, da una parte, Faust e il Dottor
Frankestein, e dall’altra, Adam Smith e David Ricardo, nella creazione
di una narrativa popolata da figure (lavoratori, capitalisti,
funzionari, scienziati), che erano gli attori drammatici della Storia,
agenti che combattevano per imbrigliare la ragione e la scienza allo
scopo di rendere più forte l’umanità mentre, contrariamente alle loro
intenzioni, scatenavano forze infernali che usurpavano e sovvertivano la
loro libertà e la loro umanità.
Questa
prospettiva dialettica, in cui ogni cosa genera il suo opposto, e
l’occhio acuto con cui Marx individuava il potenziale per il cambiamento
nelle strutture sociali apparentemente più fisse e immutabili, mi aiutò
a cogliere le grandi contraddizioni dell’epoca capitalista. Dissolveva
il paradosso di un’età che generava le condizioni di benessere più
notevoli e, nello stesso istante, la povertà più nera. Oggi, volgendosi
alla crisi europea, alla crisi di realizzazione americana, alla
stagnazione di lungo termine del capitalismo giapponese, quasi tutti i
commentatori non riescono a cogliere il processo dialettico che si
svolge sotto il loro naso. Riconoscono la montagna di debiti e le
perdite delle banche, ma dimenticano l’altro lato della medaglia, la sua
antitesi: la montagna di risparmi inattivi che sono congelati dalla
paura e che dunque non si convertono in investimenti produttivi.
Un’attenzione marxista alle opposizioni binarie li avrebbe aiutati ad
aprire gli occhi…
Una
delle ragioni principali per cui l’opinione dominante non riesce a fare i
conti con la realtà contemporanea è che non ha mai compreso la tensione
dialettica della produzione congiunta di debiti e surplus, di crescita e
disoccupazione, di benessere e povertà, di spiritualità e depravazione,
per non dire di bene e male, di nuove forme di piacere e di schiavitù,
di libertà e sottomissione: di questo calderone di opposizioni binarie
che gli scritti drammatici di Marx ci indicavano come le risorse
dell’ingegno della Storia.
Fin
dalle mie prime riflessioni come economista, giungendo ad oggi, mi è
sempre parso chiaro come Marx abbia compiuto una scoperta che sarebbe
dovuta rimanere il punto centrale di ogni utile analisi del capitalismo.
Questa scoperta era, ovviamente, quella di un’altra opposizione binaria
intrinseca al lavoro umano. Questo è dotato di due nature differenti:
1) lavoro come creazione di valore (respiro vitale), attività che non
può mai essere specificata o quantificata in anticipo (e per cui
impossibile da mercificare) e, 2) lavoro come quantità (numero di ore di
lavoro), utilizzato per la vendita e trasformato in un prezzo. Ciò è
quel che contraddistingue il lavoro da altre risorse produttive come
l’elettricità: la sua duplice, contraddittoria natura. Una
differenza-contraddizione che gli economisti politici dimenticavano di
fare prima di Marx, e che gli economisti mainstream rifiutano fermamente di accettare tutt’oggi.
Sia
l’elettricità che il lavoro possono essere pensati come merci. Tanto i
datori di lavoro quanto i lavoratori lottano per mercificare il lavoro. I
datori di lavoro usano tutta la loro ingegnosità, e quella dei loro
manager delle risorse umane, per quantificare, misurare e omogeneizzare
il lavoro. Allo stesso tempo i potenziali impiegati si dannano l’anima
in un tentativo ansioso di mercificare il loro potere lavorativo,
scrivendo e riscrivendo i loro curricula per ritrarsi come
fornitori di unità di lavoro quantificabili. E questo è il problema!
Perché se lavoratori e datori di lavoro riuscissero a mercificare
completamente il lavoro, il capitalismo morirebbe. Questa è una
prospettiva senza la quale la tendenza del capitalismo di generare crisi
cicliche non potrà mai venire pienamente compresa, una prospettiva alla
quale nessuno, senza una conoscenza di base del pensiero di Marx, avrà
mai accesso.
- 3. La fantascienza diventa documentario
In un grande classico, il film del 1953 L’invasione degli ultracorpi, gli alieni non ci attaccano frontalmente, a differenza, ad esempio, di quel che accade in La guerra dei mondi di
H.G. Wells. Piuttosto, gli umani sono attaccati dall’interno, fino a
che non rimane nulla della loro anima e delle loro emozioni. I loro
corpi sono tutto ciò che rimane, come gusci che una volta contenevano
una libera volontà e che ora lavorano, attraversano meccanicamente la
vita quotidiana, e funzionano da simulacri umani “liberati”
dall’aleatoria capricciosità della natura umana. Questo processo è
equivalente alla trasformazione necessaria a trasformare il lavoro umano
in una fonte di energia non differente dai semi, dall’elettricità, in
effetti dai robot. Parlando in termini moderni, è quel che sarebbe
accaduto se il lavoro umano fosse diventato perfettamente riducibile a
capitale umano e dunque adatto ad essere inserito nei rozzi modelli
economici.
Provate a
pensarci, ogni singola teoria economica non marxista che tratta gli
impulsi produttivi umani e non-umani come se fossero intercambiabili,
quantità qualitativamente equivalenti, adotta il presupposto che la
de-umanizzazione del lavoro umano sia completa. Ma se tale processo
giungesse mai ad essere completo, il risultato sarebbe la fine del
capitalismo inteso come sistema capace di creare e distribuire valore.
Innanzitutto, una società di simulacri de-umanizzati, o automi,
assomiglierebbe ad un orologio meccanico pieno di ingranaggi e molle,
ognuno con la sua propria funzione, e che nel complesso producono un
“bene”: la misurazione del tempo. Ma se questa società contenesse
nient’altro che automi, la misurazione del tempo non sarebbe un “bene”.
Sarebbe un “prodotto”, certamente, ma perché mai un “bene”? Senza esseri
umani reali a sperimentare il funzionamento dell’orologio, non
potrebbero esserci cose come “beni” o “mali”. Una “società” di automi
sarebbe, così come gli orologi meccanici o dei circuiti integrati, piena
di ingranaggi funzionanti, dimostrando una funzione, una funzione che
però non potrebbe venire descritta né in termini morali, né di valore.
Dunque,
per ricapitolare, se il capitale dovesse mai riuscire nel quantificare, e
dunque nel mercificare completamente, il lavoro, così come prova a fare
in ogni momento, lo prosciugherebbe anche di quell’indeterministica,
recalcitrante libertà umana che permette la generazione del lavoro. La
brillante rivelazione di Marx riguardo l’essenza più profonda delle
crisi capitaliste era precisamente questa: maggiore sarà il successo del
capitalismo nel convertire il lavoro in una merce, minore sarà il
valore che ogni unità genererà, minore il profitto e, infine, più vicina
la prossima odiosa recessione sistemica dell’economia. Il ritratto
della libertà umana intesa come categoria economica è un aspetto unico
del pensiero di Marx, rendendo possibile una peculiare e astute
interpretazione drammatica e analitica della propensione del capitalismo
a piombare nella recessione, persino nella depressione, a partire dalle
fasi più sfrenate di crescita.
Quando
Marx scriveva che il lavoro era il fuoco vivente che dava forma alle
cose, la transitorietà delle cose, la loro temporalità, stava fornendo
il più grande contributo che ogni economista abbia mai dato alla nostra
comprensione della profonda contraddizione sepolta dentro il DNA del
capitalismo. Quando ritraeva il capitale come “una forza cui
dobbiamo sottometterci…che sviluppa un’energia cosmopolita, universale,
che oltrepassa ogni limite e rompe ogni legame, e si pone come unica
regola, unica universalità, solo limite e solo legame”[2],
stava evidenziando la realtà per cui il lavoro può essere comprato
tramite capitale liquido (denaro), nella sua forma di merce, ma porta
sempre dentro di sé un desiderio ostile al capitalista compratore. Ma
Marx non stava solamente facendo un’affermazione psicologica, filosofica
o politica. Stava, piuttosto, fornendo una ragguardevole analisi del
perché nel momento in cui il lavoro (inteso come attività non
quantificabile) si spoglia di tale ostilità, diviene sterile, incapace
di produrre valore.
In un
momento in cui i neoliberisti hanno invischiato la maggior parte delle
persone nei loro tentacoli teoretici, rigurgitando incessantemente
l’ideologia del miglioramento della produttività del lavoro allo scopo
di aumentare la competitività e creare così “crescita” e così via, le
analisi di Marx offrono un potente antidoto. Il capitale non potrà mai
vincere nella sua lotta per trasformare il lavoro in una risorsa
infinitamente elastica e meccanizzata senza distruggere sé stesso.
Questo è ciò che né i neoliberisti né i keynesiani comprenderanno mai! “Se l’intera classe dei salariati venisse annichilita dai macchinari” scriveva Marx, “quanto terribile sarebbe ciò per il capitale che, senza lavoro salariato, cesserebbe di essere quello che è”[3]. Quanto
più il capitale si avvicina alla sua vittoria finale sul lavoro, tanto
più la nostra società si fa somigliante a quella di un altro film di
fantascienza. Un film che era stato presagito proprio da Karl Marx: Matrix.
Ciò che è unico in Matrix è che, in esso, la ribellione dei nostri manufatti non è un semplice caso di uccisione del padre creatore. A differenza della Cosa
di Frankestein, che aggredisce irrazionalmente gli esseri umani a causa
della sua assoluta angoscia esistenziale, o delle macchine della serie
di Terminator, che vogliono solamente sterminare tutti gli umani per consolidare il loro futuro dominio sul pianeta, in Matrix l’emergente
impero delle macchine vuole conservare l’esistenza umana per i propri
fini: mantenerci in vita in quanto risorsa primaria. L’Homo sapiens, nonostante
abbia inventato la schiavitù umana, e nonostante la nostra storia senza
precedenti nell’infliggere orrori indicibili ai nostri consanguinei,
non avrebbe mai potuto neppure immaginare il ruolo spregevole che le
macchine ci assegnano in Matrix: bloccati in apparecchiature
che ci immobilizzano per risparmiare energia, le macchine ci
sottopongono ad alimentazione forzata con una miscela di sostanze
nutrienti nauseabonde volte a intensificare la produzione di calore.
Ad ogni
modo, ben presto le macchine scoprono che gli umani non durano a lungo
una volta che il loro spirito è spezzato e la loro libertà infranta. Il
nostro curioso bisogno di libertà minaccia l’efficacia dei loro impianti
a energia umana. Così, le macchine ci imprigionano in quella che Marx
avrebbe chiamato “falsa coscienza”. Non instillano nei nostri corpi
solamente sostanze nutrienti, ma anche le illusioni che il nostro
spirito brama. Ingegnosamente, attaccano degli elettrodi ai nostri crani
con i quali percepiscono, direttamente nel nostro cervello, la vita
virtuale, ma profondamente realistica che, come umani, vorremmo vivere.
Mentre i nostri corpi sono brutalmente attaccati ai loro generatori di
potenza, alimentandoli con l’elettricità scaturita dal calore dei nostri
corpi, il software delle macchine noto come Matrix riempie le
nostre menti con visioni di una vita immaginaria, illusoria, ma
verosimile e “normale”. In questo modo i nostri corpi, ignari della
realtà, possono vivere per decenni, tutto a vantaggio delle macchine che
possono così generare l’energia bastante per sostenere la loro nuova
civiltà. L’oblio dell’umanità costituisce così un fattore cruciale per
la produzione dell’economia di Matrix.
“Le macchine hanno acquisito il dominio sul lavoro umano e sui suoi prodotti”[4],
così Marx descriveva l’ascesa delle macchine, un incrocio fra un’antica
tragedia greca e una shakespeariana che si svolgeva sullo sfondo di una
rivoluzione industriale in cui i pochi possedevano le macchine e i
molti le facevano lavorare. Il punto centrale di Marx era che,
nell’universo del capitale, siamo già trans-umani. Matrix non è
futurologia. È parte della nostra realtà già da un pezzo! È il miglior
documentario possibile sulla nostra era o, per essere precisi, sulla
tendenza della nostra era a cancellare dal lavoro umano tutte quelle
caratteristiche che gli impediscono di diventare pienamente flessibile,
perfettamente quantificato, infinitamente divisibile. Quanto a Marx il
suo ruolo è stato quello di fornirci l’opzione della pillola rossa[5];
una possibilità per guardare in faccia, senza le rassicuranti illusioni
dell’ideologia borghese, la squallida realtà di un sistema che produce
crisi e deprivazione ogni giorno, intenzionalmente e non certo per caso.
Leggete qualsiasi manuale di management,
qualsiasi articolo in qualsiasi rivista accademica di economia,
qualsiasi documento prodotto dall’Unione Europea sull’istruzione, sulla
scuola, sull’università, i programmi di innalzamento della produttività,
sulla competitività eccetera. Capirete immediatamente che stiamo già
vivendo nella nostra versione di Matrix. Gli inesorabili sforzi
del capitale di quantificare e usurpare il lavoro hanno infestato tutti
questi documenti, che sponsorizzano una società in cui le persone
aspirino a divenire automi. Un’ideologia la cui estensione programmatica
è la trasformazione del lavoro umano in una versione di energia termica
che permetta alle macchine maggiori margini di funzionamento e la
costruzione di altre macchine che, tragicamente, mancheranno di ogni
capacità di generare…valore.
In questo senso, la nostra Matrix può
essere solo provvisoria poiché più si avvicina alla perfetta versione
del film più probabile è lo scatenamento di una crisi di dimensioni
catastrofiche, e, con il precipitare dei valori economici, il
sopraggiungere di una Grande Recessione, e il ruolo delle macchine è
rovesciato quando gli investimenti in esse divengono negativi. Da questa
prospettiva marxiana, tornando nuovamente al film, il gruppo di uomini
liberati nel cuore della società delle macchine (che guidano la
risorgenza degli esseri umani) simbolizza la resistenza umana al
diventare capitale umano; l’irriducibile ostilità intrinseca nei
confronti della quantificazione che rimane insita nei cuori e nelle
menti persino di coloro che spendono tutte le loro energie nel cercare
di mercificarsi per conto dei propri datori di lavoro. L’ironia
deliziosa in tutto ciò è che proprio quest’ostilità che il capitale
tenta di sradicare nel lavoro è proprio ciò che rende il lavoro capace
di produrre valore e permette al capitale di accumularsi.
- 4. Cos’ha fatto Marx per noi?
In
un’occasione Paul Samuelson denigrò Marx chiamandolo un seguace minore
di Ricardo. Quasi ogni scuola di pensiero, compresi alcuni economisti
progressisti, vorrebbe far finta che, nonostante Marx sia stato una
figura carismatica, molto poco, se non niente del tutto, dei sui
contributi rimanga rilevante al giorno d’oggi. Mi sia consentito di
dissentire.
Oltre
all’aver individuato il dramma fondamentale della dinamica capitalista
(vedere la precedente sezione), Marx mi ha fornito gli strumenti con cui
divenire immune dalla propaganda tossica dei nemici neoliberisti della
vera libertà e razionalità. Ad esempio, l’idea che la ricchezza sia
prodotta privatamente e quindi fatta oggetto di appropriazione da parte
di uno stato quasi illegittimo attraverso la tassazione è un’idea cui è
facile soccombere se non si è fatti i conti con l’acuta osservazione di
Marx per cui è vero esattamente il contrario: la ricchezza è prodotta
collettivamente e quindi fatta oggetto di appropriazione privata
attraverso le relazioni sociali di produzione e i diritti di proprietà
che si basano, per la loro riproduzione, quasi esclusivamente sulla
falsa coscienza. Vale lo stesso per il concetto di “autonomia” che suona
così bene nel nostro mondo “postmoderno”. Anch’essa è prodotta
collettivamente, attraverso la dialettica del mutuo riconoscimento, e
quindi fatta oggetto di privatizzazione. Se solo Marx fosse stato preso
sul serio (dai marxisti prima ancora che dai suoi detrattori, deve
essere detto), molta dell’aria fritta prodottasi nella storia degli
annali degli studi culturali sarebbe stata evitata.
Phil Mirowski ha recentemente[6]
sottolineato, in maniera piuttosto convincente, il successo dei
neoliberisti nel convincere vasti strati di persone che il mercato non
sia solamente un mezzo utile, ma anche un inalienabile fine in sé. Che
mentre l’azione collettiva e le istituzioni pubbliche non sono mai
capaci di fare la cosa giusta, le operazioni senza restrizioni
dell’interesse privato decentralizzato generano una sorta di laica
provvidenza divina che garantisce la produzione non solo dei risultati
voluti, ma anche dei desideri, dell’indole, dell’etica voluta perfino.
Il miglior esempio della grossolanità neoliberista è ovviamente, il
dibattito sul cambiamento climatico e su cosa fare per fermarlo. I
neoliberisti si sono affrettati ad argomentare che, se proprio si deve
fare qualcosa, è necessario che questo qualcosa prenda la forma di una
sorta di mercato degli “scarti” (come, ad esempio, un mercato di scambio
delle emissioni) poiché solamente i mercati sanno come valutare
appropriatamente i beni e gli scarti. Per capire sia perché una tale
soluzione sia destinata a fallire sia, cosa più importante, da dove
giunge la motivazione di certe soluzioni, è sufficiente acquisire un
minimo di familiarità con la logica di accumulazione del capitale
sottolineata da Marx e che Michal Kalecki ha adattato ad un mondo
governato da oligopoli connessi tra loro.
Nel XX
secolo i due movimenti politici che affondavano le loro radici nel
pensiero di Marx erano i partiti comunisti e quelli socialdemocratici.
Entrambi, in aggiunta ai loro altri errori (e persino crimini)
fallirono, a loro danno, nel seguire la guida di Marx su una questione
cruciale: invece di imbracciare libertà e razionalità come loro parole
d’ordine e concetti organizzativi, optarono per uguaglianza e giustizia,
lasciando la libertà al campo dei neoliberisti. Marx era irremovibile:
il problema del capitalismo non è la sua ingiustizia, ma la sua
irrazionalità, perché condanna intere generazioni alla miseria e alla
disoccupazione e trasforma persino i capitalisti stessi in automi
oppressi dall’angoscia, resi schiavi dalle macchine che nominalmente
possiedono, costretti a vivere nella perenne paura di cessare di essere
capitalisti, a meno di non riuscire a mercificare completamente gli
altri umani in modo da sottoporli più efficientemente al servizio
dell’accumulazione di capitale.
Così, se il capitalismo appare ingiusto è solo perché schiavizza tutti alla maniera di Matrix, siano
essi lavoratori o capitalisti; sperpera risorse naturali ed umane;
produce in seria infelicità, schiavitù e crisi dalla stessa catena
produttiva che genera notevoli innovazioni e benessere mai visto prima.
Avendo fallito nell’accennare ad una critica del capitalismo in termini
di libertà e razionalità, cosa che Marx riteneva fondamentale, la
socialdemocrazia e la sinistra in generale ha permesso ai neoliberisti
di usurpare il testimone della libertà e di ottenere un trionfo decisivo
sul campo culturale e ideologico[7].
Rimanendo
sulla questione del trionfo neoliberista, forse la sua dimensione più
significativa è quella del cosiddetto “deficit democratico”. Fiumi di
lacrime di coccodrillo sono stati versati sul declino delle nostre
grandi democrazia negli scorsi tre decenni di finanziarizzazione e
globalizzazione. Marx avrebbe deriso fragorosamente e a lungo coloro che
sembrano sorpresi, o turbati, dal “deficit democratico”. Quale era il
grande obiettivo del liberalismo del XIX secolo? Era, così come Marx non
si stancò mai di far notare, la separazione della sfera economica da
quella politica e il confino della politica nella seconda, lasciando la
sfera economica al capitale. Ciò che stiamo osservando oggi non è altro
che lo splendido successo del liberalismo nell’ottenere quest’obiettivo a
lungo perseguito. Date un’occhiata al Sudafrica odierno, più di
vent’anni dopo che Mandela è stato liberato e che la sfera politica ha
abbracciato, finalmente, l’intera popolazione. La difficile situazione
dell’ANC è stata quella per cui per poter dominare la sfera politica
doveva accettare l’impotenza su quella economica. E se la pensate in
un’altra maniera, vi suggerisco di parlare con le decine di minatori
uccisi a colpi di fucile dalle guardie armate pagate dai loro padroni
dopo che avevano osato chiedere un aumento di paga.
- 5. Perché eretico? I due errori imperdonabili di Marx
Avendo
spiegato perché devo ogni comprensione del nostro mondo sociale che io
possa avere principalmente a Karl Marx, voglio ora spiegare perché sono
terribilmente arrabbiato con lui. In altre parole, vorrei sottolineare
come mai sono per scelta un marxista eretico, dissenziente. Questi
errori sono importanti in questo contesto perché ostacolano l’efficacia
della sinistra nell’organizzarsi contro la misantropia, in particolar
modo in Europa.
Il primo
errore di Marx, che suggerisco sia dovuto a un’omissione, è il fatto
che egli sia stato insufficientemente dialettico, insufficientemente
riflessivo. Ha fallito nel dedicare una riflessione sufficiente, e nel
mantenere un silenzio giudizioso, sull’impatto delle sue stesse teorie
sul mondo riguardo al quale stava teorizzando. La sua teoria è
narrativamente eccezionalmente potente, e Marx era consapevole di questo
potere. Come mai non si preoccupò del fatto che i suoi discepoli,
persone con una capacità di comprensione di queste potenti idee migliori
di quella del lavoratore medio, potessero utilizzare il potere dato
loro per abusare dei propri compagni, per costruire la loro personale
base di potere, per guadagnare posizioni di influenza, per approfittare
di studenti impressionabili eccetera?
Per
fornire un secondo esempio, sappiamo che il successo della Rivoluzione
Russa costrinse il capitalismo, a tempo debito, a compiere una ritirata
strategica e a concedere piani previdenziali, servizi sanitari
nazionali, e persino l’idea di costringere i ricchi a pagare affinché
masse di poveri studenti potessero studiare in scuole e università
costruite per gli scopi dei liberali. Allo stesso tempo, abbiamo anche
visto come la rabbiosa ostilità nei confronti dell’Unione Sovietica,
rivelatasi in un primo tempo con una serie di invasioni, diffuse la
paranoia tra i socialisti e creò un clima di paura che si rivelò
particolarmente fertile per figure come Joseph Stalin e Pol Pot. Marx
non vide mai il realizzarsi di questo processo dialettico. Semplicemente
non considerò la possibilità che la creazione di uno stato dei
lavoratori avrebbe indotto il capitalismo a divenire più civilizzato
mentre lo stato dei lavoratori sarebbe stato infetto dal virus del
totalitarismo e l’ostilità del resto del mondo (capitalista) verso di
esso sarebbe cresciuta sempre più.
Il
secondo errore di Marx, quello che considero di commissione, è peggiore.
È stata la sua supposizione che la verità sul capitalismo avrebbe
potuto essere scoperta nella matematica dei suoi modelli (i cosiddetti
‘schemi di riproduzione’). Questo è stato il peggior servizio che Marx
avrebbe mai potuto fornire al suo stesso sistema teoretico. L’uomo che
ci ha insegnato a considerare la libertà umana un concetto economico
fondamentale, lo studioso che ha elevato l’indeterminazione radicale al
posto che le spettava all’interno dell’economia politica, è stato lo
stessa persona che ha finito con il dilettarsi con semplicistici modelli
algebrici, nei quali le unità del lavoro erano, ovviamente, interamente
quantificate, sperando contro ogni previsione di evincere da queste
equazioni altre intuizioni sul capitalismo. Dopo la sua morte, gli
economisti marxisti hanno sprecato intere carriere indulgendo in simili
tipi di meccanismi scolastici, facendo la fine di quello che Nietzsche
una volta descrisse come “pezzi di meccanismo mal funzionanti”. Immersi
completamente in dibattiti irrilevanti sul problema della trasformazione
e sul cosa fare in proposito, sono diventati alla fine una specie
pressoché estinta, mentre la devastante furia neoliberista distruggeva
ogni dissenso sul suo sentiero.
Come ha
potuto Marx illudersi così? Perché non ha capito che nessuna verità sul
capitalismo può venir fuori da qualsivoglia modello matematico per
quanto brillante possa essere il modellista? Non aveva forse gli
strumenti intellettuali necessari a comprendere che la dinamica
capitalista viene fuori da quella parte non quantificabile del lavoro
umano, ovvero da una variabile che non può mai venire definita
matematicamente? Ovviamente li aveva, poiché li aveva forgiati lui
stesso! No, la ragione del suo errore è un po’ più sinistra: proprio
come gli economisti volgari che aveva così brillantemente ammonito (e
che continuano a dominare i dipartimenti di Economia oggigiorno), egli
bramava il potere che la prova matematica poteva dargli.
Se ho
ragione, Marx sapeva quel che stava facendo. Capiva, o aveva la capacità
di capire, che una teoria comprensiva del valore non poteva essere
contenuta in un modello matematico della crescita, di un’economia
capitalista dinamica. Era, non ho dubbi in proposito, consapevole del
fatto che una corretta teoria economica doveva rispettare il detto di
Hegel per cui “le regole su ciò che è indeterminato sono esse stesse
indeterminate”. In termini economici questo significa riconoscere che il
potere del mercato, e quindi la capacità di ottenere profitto, dei
capitalisti non è necessariamente riducibile alla loro capacità di
estrarre lavoro dai loro salariati; che alcuni capitalisti possono
estrarre di più da un bacino dato di manodopera o da una data comunità
di consumatori per ragioni che sono esterne alla teoria economica.
Ma,
ahimè, questo riconoscimento sarebbe equivalso all’ammettere che le sue
‘leggi’ non erano immutabili. Avrebbe dovuto riconoscere nei confronti
delle voci a lui avverse nel movimento sindacale che la sua teoria era
indeterminata e, quindi, che le sue affermazioni non potevano essere in
maniera ultimativa e non ambigua corrette, ma piuttosto perennemente
provvisorie. Ma Marx provava un irrefrenabile impulso a domare persone
come Citizen Weston[8]
che osava preoccuparsi del fatto che un innalzamento dei salari
(acquisito attraverso azioni di sciopero) avrebbe potuto rivelarsi una
vittoria di Pirro se i capitalisti avessero di conseguenza alzato i
prezzi. Invece di limitarsi a argomentare contro persone come Weston,
Marx era determinato a provare con precisione matematica che esse
avessero torto e che fossero non scientifiche, volgari, non degne di una
serie attenzione.
Questi
erano i tempi in cui Marx aveva capito, e confessato, di aver sbagliato
sul versante del determinismo. Una volta passato alla stesura del terzo
volume del Capitale aveva capito che, persino una minima
variazione (ad esempio l’ammettere differenti gradi di intensità del
capitale in differenti settori) avrebbe confutato la sua argomentazione
contro Weston. Ma egli era così dedito al proprio monopolio sulla verità
che passò sopra la questione, in maniera stupefacente ma troppo brusca,
imponendo per legge l’assioma che avrebbe, alla fine, difeso la sua
dimostrazione originale; quello che avrebbe inferto il colpo fatale a
Citizen Weston. Strani sono i rituali della fatuità e tristi sono quando
portati avanti da menti eccezionali, quali Karl Marx e un numero
considerevole di suoi discepoli del XX secolo.
Quest’ossessione
nell’ottenere un modello “completo”, “concluso”, la “parola finale”, è
una cosa che non posso perdonare a Marx. Si rivelò, alla fine,
responsabile di una gran quantità di errori e, ancora di più, di
autoritarismo. Errori e autoritarismo che sono largamente responsabili
dell’odierna impotenza della sinistra intesa come forza del bene e di
controllo sugli abusi dei concetti di ragione e libertà perpetrati oggi
dalla ciurmaglia neoliberista.
- 6. L’idea radicale del signor Keynes
Keynes
era un nemico della sinistra. Amava il sistema di classe che l’aveva
generato, non voleva avere nulla a che fare (personalmente) con la
marmaglia delle classi inferiori, e lavorava duramente e diligentemente
allo scopo di produrre idee che avrebbero permesso al capitalismo di
sopravvivere contro la sua stessa propensione verso potenziali pulsioni
di morte. Spirito libero, aperto di mente, pensatore liberale e
borghese, Keynes aveva il raro dono di non tirarsi indietro da sfide ai
suoi stessi presupposti. Nel bel mezzo della Grande Depressione, fu
abbastanza felice di liberarsi dalla tradizione di Marshall che
costituiva la sua eredità. Notando che più la disoccupazione cresceva
più bassi divenivano i salari, e che gli investimenti rifiutavano di
aumentare persino dopo un lungo periodo di tassi zero di interesse, fu
pronto a strappare il “libro di testo” e a riconsiderare i destini del
capitalismo.
La sua
revisione radicale doveva iniziare da qualche parte. Iniziò quando
Keynes ruppe i ranghi dei suoi colleghi facendo l’impensabile:
riprendendo il dibattito tra David Ricardo e Thomas Malthus e prendendo
le parti dell’ecclesiastico. In maniera tutt’altro che ambigua, durante
la Grande Depressione, scrisse: “Se solo Malthus, piuttosto che
Ricardo, fosse stato il capostipite di tutti gli economisti del XIX
secolo, che posto più saggio e più ricco sarebbe il mondo oggi!”[9]
Con quest’affermazione provocatoria, Keynes non stava adottando né la
posizione di Malthus a favore dei redditieri aristocratici né le sue
visioni teologiche sul potere redentore della sofferenza[10]. Piuttosto, Keynes abbracciava lo scetticismo di Malthus per quanto riguardava a) l’opportunità di ricercare una teoria del valore che fosse compatibile con la complessità e la dinamicità
del capitalismo e b) la convinzione di Ricardo, che più tardi condivise
anche Marx, che una persistente depressione sia incompatibile con il
capitalismo.
Perché
Keynes non converse in direzione della posizione di Marx, che dopotutto
era stato il primo economista politico a spiegare le crisi come
costitutive del processo capitalistico? Perché la Grande Depressione non
era come le altre crisi del tipo che Marx aveva descritto così bene.
Nel primo volume del Capitale Marx racconta la storia di
cicliche recessioni redentrici dovute alla doppia natura del lavoro e
che generano periodi di crescita che contengono in sé l’ennesimo crollo
che, a sua volta, causa la successiva ripresa, e così via. Ma non c’era
nulla di redentore nella Grande Depressione. La crisi degli anni Trenta
era semplicemente questo: una crisi che si comportava come un equilibrio
statico – uno stato economico che sembrava perfettamente capace di
perpetuarsi, con la ripresa anticipata che rifiutava testardamente di
apparire all’orizzonte persino dopo che i tassi di profitto risalirono
in risposta al collasso dei salari e dei tassi d’interesse.
Il cuore
della scoperta di Keynes sul capitalismo era duplice: A) era un sistema
intrinsecamente indeterminato, che presentava quella che gli economisti
di oggi chiamerebbero un’infinità di equilibri multipli, alcuni dei
quali erano coerenti con la disoccupazione endemica di massa, e B)
sarebbe potuto precipitare in uno di questi terribili equilibri in un
batter d’occhio, in maniera imprevedibile senza ragione alcuna,
solamente a causa del timore di una porzione significativa di
capitalisti per un tale evento.
Per
dirla semplicemente, ciò significa che, riguardo alla predizione delle
depressioni e del loro superamento da parte delle forze del mercato,
“che ci venga un colpo se ne possiamo sapere qualcosa!”. Significa che
non abbiamo nessun modo per sapere ciò che il capitalismo farà
l’indomani persino quando, nel presente, sembra rinforzarsi sempre più.
Che potrebbe benissimo precipitare all’improvviso e rifiutarsi di
alzarsi nuovamente. La nozione degli “spiriti animali” di Keynes
rappresentò un’idea estremamente radicale, in grado di catturare la
radicale indeterminazione del cuore del meccanismo capitalista. Un’idea
introdotta per la prima volta da Marx, con le sue analisi sulla natura
dialettica del lavoro, ma che, nel processo di scrittura del Capitale, abbandonò in modo da stabilire i suoi teoremi come prove matematiche e indiscutibili. Di tutti i passaggi della Teoria Generale di
Keynes questa idea, quella della capricciosità autodistruttiva del
capitalismo, è quella che dobbiamo recuperare e utilizzare per
radicalizzare nuovamente il marxismo.
- 7. La lezione della signora Thatcher per i radicali europei di oggi
Mi
trasferii in Inghilterra per frequentare l’università nel settembre
1978, più o meno sei mesi prima della vittoria della signora Thatcher
che cambiò per sempre il Regno Unito. La visione della disintegrazione
del governo laburista, sepolto sotto il peso del suo programma
socialdemocratico degenerato, mi condusse a un errore fatale: il pensare
che forse la vittoria della signora Thatcher sarebbe stata una buona
cosa, perché avrebbe apportato alla classe media e alla classe operaia
britannica il breve e violento shock necessario a rinvigorire le
politiche progressiste, dando alla sinistra una chance di ripensare le
proprie posizioni e di creare un’agenda nuova, radicale, per un nuovo
genere di efficaci politiche progressiste.
Persino
quando la disoccupazione raddoppiò e quindi triplicò, sotto l’effetto
dei radicali interventi neoliberisti della signora Thatcher, continuai a
nutrire la speranza che Lenin avesse ragione: “le cose devono
peggiorare perché possano migliorare”. Mentre l’esistenza si faceva più
dura, e, per molti, più breve, realizzai di essere tragicamente in
errore: le cose potevano peggiorare in perpetuo, senza migliorare mai.
La speranza che il deterioramento dei beni pubblici, la diminuzione
degli standard di vita della maggioranza, la diffusione della povertà in
ogni angolo del paese potessero condurre, automaticamente, ad una
rinascita della sinistra era appunto solo questo: speranza!
La
realtà si stava rivelando, invece, tragicamente differente. A ogni giro
di vite della recessione, la sinistra si ripiegava sempre più su se
stessa, meno capace di produrre una convincente agenda progressista e,
nel frattempo, la classe operaia si divideva fra coloro che venivano
emarginati dalla società e coloro che venivano cooptati del nuovo
assetto neoliberista. Il concetto per cui un peggioramento delle
condizioni oggettive avrebbe in qualche modo dato vita a condizioni
soggettive tali per cui da esse sarebbe sorta una nuova rivoluzione
politica era assolutamente fasullo. Tutto ciò che venne fuori dal
thatcherismo furono trafficoni, finanziarizzazione estrema, il trionfo
dei supermercati sui negozi di quartiere, la feticizzazione della casa
e… Tony Blair.
Invece
di radicalizzare la società britannica, la recessione così attentamente
pianificata dal governo della signora Thatcher, come parte della sua
guerra di classe contro il lavoro organizzato e contro le pubbliche
istituzioni di sicurezza sociale e redistribuzione che erano state
fondate subito dopo la guerra, distrusse permanentemente la possibilità
stessa di politiche radicali e progressiste nel Regno Unito. Infatti,
rese inconcepibile la stessa nozione di valori che trascendessero ciò
che il mercato determinava come “giusto” prezzo.
L’amara
lezione che mi impartì la signora Thatcher sulla capacità di una
recessione di lungo termine di minare le politiche progressiste e di
instillare la misantropia nelle fibre della società, è una lezione che
porto con me nel mezzo dell’odierna crisi europea. È, infatti, ciò che
determina più di ogni altra cosa la mia posizione in relazione alla
crisi dell’Euro che ha occupato il mio tempo e il mio pensiero in
maniera quasi esclusiva in questi ultimi anni. Ed è la ragione per cui
sono felice di confessare il peccato che mi viene attribuito dai critici
radicali della mia posizione “menscevica” sull’Eurozona: il peccato di
scegliere di non proporre programmi politici radicali al fine di
sfruttare la crisi dell’Euro come un’opportunità per rovesciare il
capitalismo europeo, di smantellare l’odiosa Eurozona e di colpire al
cuore l’Unione Europea dei cartelli economici e dei banchieri corrotti.
Si, mi
farebbe piacere porre una tale agenda radicale come prioritaria. Ma, no,
non sono pronto a commettere lo stesso errore due volte. Che vantaggi
abbiamo ottenuto nel Regno Unito nei primi anni Ottanta nel promuovere
un programma di cambiamento socialista che la società britannica
disprezzava mentre cadeva a capofitto nella trappola neoliberista della
signora Thatcher? Nessuno. Che bene ne deriverebbe oggi dal predicare lo
smantellamento dell’Eurozona, dell’Unione Europea stessa, quando il
capitalismo europeo sta facendo tutto il possibile per smantellare
l’Eurozona, l’Unione Europea, se stesso persino?
Un’uscita
greca, portoghese o italiana dall’Eurozona si trasformerebbe ben presto
in una frammentazione del capitalismo europeo, producendo una regione
in forte recessione a est del Reno e a nord delle Alpi, mentre il resto
dell’Europa giacerebbe in una palude senza scampo di stagnazione
economica e inflazione. Chi pensate trarrebbe profitto da questa
situazione? Una sinistra progressista, risorgente dalle ceneri delle
pubbliche istituzioni europee come una fenice? O i nazisti di Alba
Dorata, i neofascisti vari, gli xenofobi e i maneggioni? Non ho
assolutamente dubbi in proposito. Non sono pronto a spingere per la
realizzazione di questa versione postmoderna degli anni Trenta. Se
questo significa che è compito nostro, dei marxisti eretici, salvare il
capitalismo europeo da se stesso, così sia. Non per amore o
apprezzamento del capitalismo europeo, dell’Eurozona, di Bruxelles o
della Banca Centrale Europea, ma solo perché vogliamo minimizzare i
superflui tributi umani a questa crisi; le innumerevoli vite le cui
prospettive sarebbero ulteriormente distrutte senza un qualsiasi
beneficio per le future generazioni in Europa.
- 8. Conclusione: quale è il compito dei marxisti?
Le élite
europee si stanno comportando oggi come una sventurata compagnia di
leader incompetenti che non capisce nulla né della natura della crisi
cui sta presiedendo né delle sue implicazioni per il loro stesso destino
– per non parlare di quello del futuro della civiltà europea. Spinti
dai loro istinti atavici, i leader europei stanno scegliendo di
saccheggiare le ricchezze in diminuzione dei poveri e degli sfruttati
allo scopo di turare le voragini provocate dai loro banchieri falliti,
rifiutando di accettare l’impossibilità del tentativo. Dopo aver creato
un’unione monetaria che A) ha rimosso dalla macroeconomia europea tutti i
possibili strumenti in grado di attutire gli shock e B) ha assicurato
che, all’arrivo dello shock, questo sarebbe diventato di enormi
proporzioni, si stanno prodigando nel negare la realtà, sperando,
irrazionalmente, in qualche miracolo provocato dagli dei dopo il
sacrificio di un numero sufficiente di vite umane sull’altare
dell’austerità e della competizione.
Ogni
volta che gli ufficiali giudiziari della troika visitano Atene, Dublino,
Lisbona, Madrid; a ogni pronunciamento della Banca Centrale Europea o
della Commissione Europea sulla prossima fase dell’austerity che
dovrà essere messa in pratica da Parigi o da Roma, tornano in mente le
parole di Bertolt Brecht: “la forza bruta è passata di moda. Perché
mandare sicari prezzolati quando gli ufficiali giudiziari possono fare
lo stesso lavoro?”. Il punto è: come resistergli?
Sempre
consapevole della colpa collettiva della sinistra per il feudalesimo
industriale cui abbiamo condannato per decenni milioni di persone in
nome di…politiche progressiste, vorrei nonostante questo formulare un
parallelo tra l’Unione Sovietica e l’Unione Europea. Nonostante le loro
grandi differenze, esse hanno una cosa in comune: l’uniforme linea di
partito che scorre senza soluzione di continuità dal vertice (il
Politburo o la Commissione) alla base (ogni giovane ministro di ogni
Stato membro, o ogni commissario di infima importanza, che ripete a
pappagallo le stesse futilità). Sia l’apparato dell’Unione Sovietica che
quello dell’Unione Europea condividono una determinazione da setta
religiosa ad accettare i fatti solamente se concordi con le profezie e i
loro testi sacri. Il signor Olli Rehn, ad esempio, che è il membro
della Commissione Europea responsabile delle questioni economiche e
finanziarie, recentemente ha avuto l’audacia di accusare il Fondo
Monetario Internazionale per aver rivelato alcuni errori nel calcolo dei
moltiplicatori fiscali dell’Eurozona perché una tale rivelazione “minava la fiducia dei cittadini europei nelle loro istituzioni”. Neppure Leonid Breznev avrebbe osato fare pubblicamente una tale dichiarazione!
Con le
élite europee allo sbando, volte a negare la realtà con le teste sotto
la sabbia come gli struzzi, la sinistra deve ammettere che,
semplicemente, non siamo pronti a colmare il baratro che un capitalismo
europeo al collasso aprirà con un sistema socialista funzionante, capace
di creare benessere condiviso per le masse. Il nostro obiettivo deve
quindi essere duplice: portare avanti un’analisi del corrente stato
delle cose che i non-marxisti, ossia gli europei sedotti in buona fede
dalle sirene del neoliberismo, possano trovare condivisibile. E dar
seguito a questa solida analisi con proposte per stabilizzare l’Europa –
per porre fine alla spirale recessiva che, alla fine, rinforzerà
solamente gli intolleranti e incuberà le uova dei serpenti.
Ironicamente, noi che aborriamo l’Eurozona abbiamo l’obbligo morale di
salvarla!
Questo è quello che abbiamo cercato di fare con la nostra Modesta proposta[11]. Indirizzandoci
a platee eterogenee che vanno dagli attivisti radicali ai gestori dei
fondi speculativi, l’idea è quella di creare alleanze strategiche
persino con persone di destra con le quali condividiamo un semplice
interesse: un interesse nel porre fine al circolo vizioso tra austerità e
crisi, tra stati in bancarotta e banche in bancarotta; un circolo
vizioso che danneggia tanto il capitalismo quanto ogni programma
progressista in grado di rimpiazzarlo. Questa è la ragione per cui
difendo i miei tentativi per arruolare alla causa della Modesta proposta gente come i giornalisti di Bloomberg e del New York Times, membri conservatori del Parlamento inglese, finanzieri che sono preoccupati dalla tragica situazione dell’Europa.
Il
lettore mi concederà di concludere con due confessioni finali. Mentre
sono felice di difendere come sinceramente radicale lo scopo del
programma per stabilizzare il sistema che propongo, non pretendo
comunque di esserne entusiasta. Questo è quel che dobbiamo fare, spinti
dalle circostanze odierne, ma mi dispiace dover dire che probabilmente
non farò in tempo a vedere adottato un programma più radicale. Infine,
una confessione di natura più strettamente personale: io so di
correre il rischio di alleviare, surrettiziamente, la tristezza
dell’abbandonare ogni speranza di sostituire il capitalismo nel corso
della mia esistenza indulgendo nel sentimento di essere diventato
“gradevole” agli occhi degli appartenenti ai circoli della “buona
società”. Il senso di soddisfazione personale nell’essere onorato dai
ricchi e dai potenti ha iniziato, di tanto in tanto, a farsi strada in
me. Ed è una sensazione assolutamente brutta, non radicale, che sa quasi
di corruzione.
Il mio
nadir personale è arrivato in un aeroporto. Un gruppo danaroso mi aveva
invitato a tenere un discorso di apertura sulla crisi europea e aveva
sborsato la considerevole somma necessaria a comprarmi un biglietto
aereo in prima classe. Sulla strada del ritorno verso casa, stanco e
reduce già da diversi voli, mi stavo facendo strada attraverso la lunga
fila di passeggeri della classe economica per raggiungere il mio gate d’imbarco.
Improvvisamente realizzai, con notevole orrore, quanto facile fosse per
la mia mente venire infettata da questa sensazione di essere
“autorizzato” a sorpassare la massa. Capii quanto facile fosse per me
dimenticare quel che il mio pensiero di sinistra aveva sempre saputo:
che nulla riesce a riprodursi meglio di un falso senso di potere.
Costruendo alleanze con forze reazionarie, così come penso dovremmo fare
per stabilizzare l’Europa odierna, si corre il rischio di venire
cooptati, di gettare alle ortiche il nostro radicalismo in cambio della
piacevole sensazione di essere “arrivati” nei corridoi del potere.
Confessioni
radicali, come quella che ho appena tentato di fare, sono forse l’unico
antidoto programmatico agli scivoloni ideologici che minacciano di
trasformarci in ingranaggi del sistema. Se dobbiamo stringere patti col
diavolo (col Fondo Monetario Internazionale, con i neoliberisti che,
nonostante questo, sono contrari a quella che chiamano la dittatura
delle banche fallite, eccetera), dobbiamo evitare di diventare come i
socialisti che non riuscirono a cambiare il mondo ma riuscirono a
migliorare la loro situazione personale. Il trucco è evitare il
massimalismo rivoluzionario che, alla fine, aiuta i neoliberisti a
aggirare qualsiasi opposizione alla loro cattiveria autodistruttiva ma
allo stesso tempo mantenere la nostra visione del capitalismo come
intrinsecamente malvagio mentre cerchiamo di salvarlo, per motivi
strategici, da se stesso. Confessioni radicali possono essere utili nel
mantenere questo difficile equilibrio. Dopotutto, il marxismo umanista è
una lotta costante contro ciò che stiamo diventando.
[1] Come esempio delle ricerche che sono venute fuori, vedere Varoufakis (2013) e Varoufakis, Halevi e Theocarakis (2001).
[2] Vedere Karl Marx (1844, 1969), Manoscritti economico-filosofici.
[3] Marx in “Lavoro salariato e capitale”, originariamente pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung, 5-8 e 11 aprile 1849 [diffuso
come conferenza nel 1847]. Rivisto con un’introduzione di Friedrich
Engels nel 1891. Tradotto da Harriet E. Lothrop, New York, Labor New Company, 1902.
[4] Vedere Karl Marx (1844, 1969), Manoscritti economico-filosofici.
[5] Verso l’inizio di Matrix, un
guerrigliero urbano che aveva appena aiutato Thomas Anderson, detto
Neo, a fuggire da alcuni agenti in borghese, gli offre una scelta
cruciale fra due pillole. Se prenderà la pillola blu, tornerà a letto e
si sveglierà al mattino pensando che l’intera vicenda sia stata un
incubo prima di tornare alla sua vita “normale”. Se invece opterà per la
pillola rossa, apprenderà la verità sulla sua vita e sulla società. In
un trionfo dell’incauta curiosità sulla tentazione del semplice piacere,
Neo rigetta la prospettiva di beata ignoranza offerta dalla pillola
blu, optando invece per la crudele realtà promessa dalla rossa.
[6] Vedere Mirowski (2013).
[7] Per approfondire quest’argomento vedere Varoufakis (1991) e Varoufakis (1998).
[8] Vedere Karl Marx, Salario, prezzo e profitto, in cui Marx stesso racconta il suo dibattito con Citizen Weston.
[9] Vedere il suo saggio su Malthus, “Robert Malthus: il primo degli economisti di Cambridge”, scritto nel 1933, in John Maynard Keynes (1972). The Collected Works of John Maynard Keynes, Vol. X: Essays in Biography, London, Macmillan. La citazione appare alle pagine 100-101. Pubblicato originariamente in Essays in Biography, 1933.
[10]
Malthus deve la sua fama alla previsione per la quale la crescita della
popolazione sarebbe avvenuta più velocemente di quella delle risorse
del pianeta, nonostante I nostri migliori sforzi, e che quindi la fame
costituisce un indispensabile meccanismo di equilibrio. In quanto uomo
di Chiesa, spiegò ciò come parte del disegno divino: la sofferenza delle
masse, le pance turgide dei bambini ridotti allo stremo dalla fame, e i
volti esausti delle madri piangenti erano un’opportunità data da Dio
agli umani per abbracciare il bene e combattere il male.
[11] Vedere Y. Varoufakis, S. Holland e J.K. Galbraith, A Modest Proposal for Resolving the Euro Crisis, Version 4.0
BIBLIOGRAFIA
Keynes, J.M. (1933,1972). “Robert Malthus: The First of the Cambridge Economists,” penned in 1933, in The Collected Works of John Maynard Keynes, Vol. X: Essays in Biography, London: Macmillan.
Marx, K, (1865,1969). “Wages, Prices and Profit’ in Value, Price and Profit, New York: International Co. (edizione itliana Salario, prezzo e profitto disponibile on line)
Marx, K. (1844,1969). Economic and Philosophical Manuscripts, in Marx/Engels Selected Works, Moscow, USSR: Progress Publishers (edizione italiana disponibile on line)
Marx, K. (1849,1902). “Wage-Labour and Capital”, first published in the Neue Rheinische Zeitung,
April 5-8 and 11, 1849. [Delivered as lectures in 1847] Edited with an
introduction by Friedrich Engels in 1891. Translated by Harriet E.
Lothrop, New York: Labor News Company (edizione italiana di Lavoro salariato e capitale disponibile on line)
Marx, K. (1972). Capital: Vol. I-III. London: Lawrence and Wishart
Mirowski, P. (2013). Never Let a Good Crisis Go To Waste: How Neoliberalism survived the financial meltdown, London and New York: Verso
Varoufakis Y. (2013). Economics Indeterminacy: A personal encounter with the economists’ peculiar nemesis, London and New York: Routledge
Varoufakis, Y. (1991). Rational Conflict, Oxford: Blackwell
Varoufakis, Y. (1998). Foundations of Economics: A beginner’s companion, London and New York: Routledge
Varoufakis, Y., J. Halevi and N. Theocarakis (2011). Modern Political Economics: Making sense of the post-2008 world, London and New York: Routledge (scaricabile on line)
Varoufakis, S. Holland and J.K. Galbraith (2013). A Modest Proposal for Resolving the Euro Crisis, Version 4.0
... un ministro così a Roma.. a Berlino...
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