di Enrico Grazzini da Micromega
Il sistema dell'euro si sta sgretolando e anche l'Italia è a un bivio.
E' possibile che in Francia Marine Le Pen, presidente del Front National
– il partito popolar-populista, xenofobo e post-fascista –, vinca le
elezioni per la presidenza. Se il Front National vincesse, l'euro si
sbriciolerebbe immediatamente. Che cosa accadrebbe allora all'Italia? Il
ritorno alla lira potrebbe produrre certamente una nuova crisi ma, se
ben gestita, la crisi non provocherebbe un disastro irreparabile. Anzi:
l'uscita dall'euro e la ritrovata sovranità monetaria potrebbero
finalmente consentire all'economia italiana di riprendere a correre.
Il break-up dell'euro provocherebbe il caos nel breve periodo. Tuttavia
– a meno che non si adotti la moneta fiscale, che ho più volte proposto
ma della quale in questo articolo accennerò solamente[1]
– uscire dall'euro potrebbe essere l'unica maniera di ridare ossigeno
all'economia italiana ed evitare il disastro di una depressione
prolungata all'infinito. Il vero e proprio terrorismo sull'Italexit e
sul break-up dell'euro da parte dei media e di una classe politica
nazionale che sembra in gran parte venduta agli interessi stranieri, non
ha alcuna valida motivazione.
Se l'euro cadesse, il quadro
sarebbe assai complesso sul piano valutario, finanziario e geopolitico.
Ma una recente ricerca su 12 Paesi europei – probabilmente la più
approfondita e analitica che sia stata compiuta finora - dell'autorevole
Observatoire français des conjonctures économiques (OFCE), affiliato a
Science Po, la prestigiosa Fondation nationale des sciences politiques,
sulle conseguenze del break up dell'euro afferma che, in caso di
Italexit, la crisi italiana potrebbe essere molto limitata e presto
recuperabile[2].
Secondo l'OFCE, in caso di rottura dell'euro, la nuova lira non
cadrebbe molto in basso ma potrebbe assestarsi a un livello di
svalutazione pari solo al 13% rispetto al marco tedesco. Il rischio
dell'Italexit sarebbe pari a zero – o comunque assai basso – nei tre
settori che lo studio OFCE analizza in dettaglio: governo e banca
centrale; banche e altre società finanziarie; società non finanziarie
(tra cui industrie e servizi) e famiglie.
La crisi potrebbe
toccare in maniera grave qualche grande banca costringendo lo stato a
intervenire. Ma lo stato italiano non fallirebbe. In pratica lo studio
suggerisce che per l'Italia potrebbe essere conveniente smarcarsi
dall'euro, considerando che, invece, con la moneta unica è praticamente
impossibile ridurre il rapporto debito pubblico/PIL e uscire dal tunnel
della depressione perpetua. Non dovremmo puntare a rimanere nell'euro a
tutti i costi temendo la catastrofe – come invece purtroppo ha fatto il
governo greco di Syriza -.
Facciamo alcune considerazioni di
base. In Italia c'è da molti anni un avanzo primario consolidato –
paghiamo più tasse di quanto lo stato spende per i servizi ai cittadini
-; abbiamo un consistente avanzo commerciale con l'estero (+ 50 mdi) e
una posizione finanziaria netta verso l'estero non eccessivamente
negativa (17% circa sul PIL). In questa situazione tutti gli economisti
seri possono facilmente comprendere che l'uscita dall'euro, se ben
gestita, non provocherebbe disastri irreparabili, e che – dopo la
turbolenza iniziale – la nuova lira non cadrebbe più di tanto.
Grazie all'avanzo primario di bilancio, siamo già in grado di pagare le
spese pubbliche correnti; inoltre, a differenza della Grecia, entra già
preziosa valuta estera grazie al fatto che esportiamo più di quanto
importiamo. La nostra situazione è totalmente differente da quella
greca: là mancavano i soldi per pagare le pensioni e gli stipendi
pubblici e la bilancia commerciale con l'estero era negativa. L'Italia è
in una posizione molto più forte. Noi non saremmo totalmente dipendenti
dalla moneta estera. L'Italia potrebbe uscire dall'euro senza fare
default: lo stato potrebbe pagare i suoi debiti e continuare ad avere
accesso ai mercati internazionali. Nonostante ciò che politici e media
ci propinano, la nostra situazione economica non sarebbe disastrosa,
almeno se non ci fossero l'euro e la UE a strangolare l'economia.
Bisogna prepararci. Le banche d'affari internazionali sono le prime a
prevedere – e anche a scommettere su – la rottura della moneta unica.
Non a caso lo spread (il differenziale) tra i titoli di stato italiani e
quelli tedeschi sta aumentando. I capitali stanno fuggendo in Germania,
porto sicuro, anche a costo di perdere momentaneamente dei soldi
(perché i tassi di interesse su molti titoli di stato tedeschi sono
sotto zero).
Partiamo da un assunto forte ma realistico. La
rottura della moneta unica prima o poi è praticamente certa – almeno per
chi scrive – perché l'euro è una moneta insostenibile, fragile e
strutturalmente deflazionistica e depressiva. L'euro toglie ossigeno
(liquidità) alle economie proprio quando avrebbero bisogno di respirare –
come spiego estesamente nella nota in calce [3]
-. Inoltre la Germania, la grande beneficiaria di questa moneta e la
potenza prevalente nella UE, non vuole assolutamente cambiare la
politica europea in senso espansivo. La Germania nazionalista intende
proteggere solo i suoi interessi finanziari e commerciali senza alcuna
lungimiranza.
Per conquistare l'egemonia sull'Europa
occidentale, gli USA con il Piano Marshall stamparono centinaia di
milioni di dollari a favore della ricostruzione europea. La Germania
invece non consentirà mai a una politica espansiva e keynesiana di
intervento pubblico che sviluppi l'economia europea, provochi inflazione
e rafforzi i suoi più diretti concorrenti, come l'Italia. Meno che mai
condividerà i debiti degli altri stati. Anche se alle elezioni tedesche
di settembre vincesse il socialista Martin Shulz, non è prevedibile
nessuna svolta a 180 gradi: (forse) la UE ci darebbe solamente più
flessibilità.
L'unica vera ed efficace politica di sostegno
all'euro è quella praticata dalla Banca Centrale Europea con il
Quantitative Easing (acquisto dei titoli di stato), che però prima o poi
terminerà (previsione fine 2017), anche perché ormai l'inflazione a
livello europeo sta raggiungendo il tetto fissato del 2%. E il QE era
giustificato solo dal fatto di avvicinarsi al 2% di inflazione.
Fine della moneta unica e Piano B sull'euro
La fine della moneta unica si avvicina. La crisi dell'euro – a parere
di chi scrive – potrebbe capitare non si sa precisamente quando, per una
ragione o per un'altra – per le elezioni in Francia o in Olanda, per la
fine del QE, a causa della crisi greca o di quella bancaria italiana,
perché Trump non vuole l'euro, per uno shock finanziario a livello
globale, ecc, ecc. - ma avverrà certamente. Forse proprio in occasione
delle elezioni francesi.
Un recente report di Mediobanca
Securities redatto da Antonio Guglielmi, responsabile della ricerche
della principale banca d'affari italiana, e dall'economista Marcello
Minenna, spiega che, considerando il prevedibile aumento dei tassi, la
fine del QE, e la scarsa crescita del PIL - pari nel migliore dei casi
all'1% - il debito pubblico italiano crescerà e diventerà insostenibile
già nel 2017-2018[4].
Si porrà molto presto il problema o di ridenominare il debito pubblico
in lire, o di ristrutturarlo, cioè di rivedere i termini di restituzione
del debito con i creditori. L'altra soluzione è quella di chiedere
“aiuto” alla Troika, cioè a UE, BCE e FMI, come è successo in Grecia. Ma
molti dubitano che questa soluzione sia valida: qualsiasi governo in
Italia molto difficilmente si farà commissariare.
Prima di
tutto c'è da chiedersi se il ministero del Tesoro guidato da Pier Carlo
Padoan – che ha assunto il ruolo di garante in Italia degli interessi
dei paesi dell'eurozona, Germania in primis – e la Banca d'Italia stiano
preparando dei contingency plan, un piano di emergenza nel
caso di rottura dell'euro. Sarebbe assolutamente necessario, ma
personalmente credo che l'attuale governo sia talmente supino e
colpevolmente subordinato verso la UE e la BCE, che questi piani non
vengano neppure segretamente preparati. Stiamo fermi a guardare la
valanga che precipita sopra di noi.
Proviamo allora a disegnare
lo scenario italiano della rottura dell'euro. Alcuni elementi sono
certi e condivisi tra gli economisti: con la rottura lo stato italiano
sarebbe costretto a emettere la nuova lira, e questa si svaluterebbe
immediatamente nei confronti del marco – chiamiamolo così, anche se è
invece possibile che l'euro rimanga nell'area forte dell'Europa
(Germania, Olanda, Austria, ecc), e che quindi diventi un “marco
allargato” –.
In Italia, con la svalutazione della lira
rispetto al marco-euro le merci importate costerebbero di più: tuttavia
la nuova lira si svaluterà meno rispetto al dollaro con cui compriamo
merci preziose come il petrolio. Questo è un bene perché gran parte
delle importazioni sono pagate in dollari, mentre le esportazioni sono
rivolte in buona parte verso l'area del marco.
Comunque con la
svalutazione della lira aumenterebbero certamente le esportazioni perché
le nostre merci costerebbero meno per gli acquirenti esteri.
Crescerebbe il saldo già positivo (+50 mdi circa) della nostra bilancia
commerciale con l'estero. Gli italiani, al posto di pagare in euro le
merci e i servizi, pagherebbero in lire: rimarrebbe tutto abbastanza
come prima per i residenti in Italia - a parte il fatto che pagherebbero
di più i beni importati dai Paesi con una moneta più forte della
nostra-. A causa dell'aumento di questi prezzi, aumenterà certamente
l'inflazione – e questo non dovrebbe spaventarci troppo, considerando
che oggi siamo in deflazione -.
L'inflazione colpirebbe
soprattutto i redditi fissi: ovvero gli stipendi, le pensioni e i
salari, che sono relativamente rigidi e che generalmente non seguono –
se non dopo un certo periodo di tempo - l'aumento dei prezzi (a meno che
non venga introdotta una nuova “scala mobile”). Quasi certamente
nell'immediato i redditi degli italiani diminuirebbero a causa dello
shock monetario. Poi, se finalmente il governo facesse una politica
espansiva, l'economia potrebbe riprendersi anche molto presto.
Grazie al fatto che recupereremmo potestà monetaria, l'emissione di
nuove lire potrebbe finalmente finanziare l'espansione della domanda e
dare ossigeno ai consumi e agli investimenti pubblici e privati. La
capacità produttiva – attualmente soffocata dalla politica
deflazionistica della UE a guida tedesca - riprenderebbe a girare a
regime sostenuto: aumenterebbe quindi l'occupazione e riprenderebbero a
crescere i salari. Dopo anni di recessione e depressione, aumenterebbero
l'occupazione e quindi anche i redditi. L'uscita dall'euro non sarebbe
così terribile e rovinosa come ci viene detto dai gufi (citazione
renziana) del potere.
Se ci sarà l'Italexit, il problema
maggiore sarà costituito dal debito estero delle banche. Al contrario la
soluzione dell'enorme debito pubblico sarebbe a portata di mano se il
debito di stato venisse ridenominato in lira nazionale, come è possibile
in base alle leggi vigenti (lex monetae, come vedremo meglio in
seguito). Sono quindi le banche italiane a temere veramente l'Italexit.
Il debito pubblico cresce perché non possiamo monetizzare il debito con moneta sovrana
Abbiamo, come noto, un altissimo debito pubblico – pari a circa 2300
mdi di euro, il 133% del PIL -; questo debito è provocato non dalla
pigrizia degli italiani ma solo dal fatto che dobbiamo pagare un tributo
enorme alla finanza nazionale ed estera senza potere “monetizzare” il
debito. Fin dal 1981 è stato impedito alla Banca d'Italia (anche in
vista dell'unificazione europea) di comprare i titoli di stato nazionali
emettendo moneta e calmierando così i prezzi dei titoli di stato. Poi,
con l'introduzione dell'euro, tutto è andato peggio: alla BCE è stato
fatto obbligo di non stampare nessun euro per “monetizzare” i debiti
pubblici dei paesi membri dell'eurozona. I debiti devono essere tutti
scontati come peccati mortali. La BCE deve solo perseguire la stabilità
monetaria perseguendo un livello di inflazione pari a poco meno del 2%.
Ma non può difendere gli stati da eventuali attacchi speculativi.
Così le banche d'affari internazionali hanno potuto dettare le loro
condizioni agli stati dell'euro, e allo stato italiano, applicando
interessi elevati ai paesi più deboli. Da molti anni in Italia i tassi
di interesse sul debito di stato crescono più del PIL, e questo è
insostenibile. Il fatto più preoccupante è che circa il 30% del debito
pubblico è verso investitori esteri, (banche d'affari, fondi pensioni,
fondi speculativi, ecc) molto più esigenti e aggressivi degli operatori
nazionali.
La crescita del debito pubblico italiano dipende
esclusivamente dal fatto che stiamo pagando interessi e principale (il
debito iniziale) alle istituzioni finanziarie senza potere emettere la
nostra moneta per saldare i debiti contratti. Noi paghiamo i debiti in
moneta straniera, in euro. Mario Draghi, presidente della BCE, ha però
recentemente ammesso per la prima volta che la moneta unica non è
irreversibile. “If a country were to leave the Eurosystem, its
national central bank’s claims on or liabilities to the ECB would need
to be settled in full”[5].
Draghi ci ricorda che il prezzo da pagare per un ritorno alla vecchia
moneta è il rimborso di tutti i debiti alla Bce. Il debito netto della
nostra banca centrale con l’eurosistema è pari a 312 miliardi. Si tratta
del 20% circa del nostro PIL. Apparentemente questo debito è
insostenibile. Ma anche questo non è vero.
Marco Cattaneo, in
un suo recente e approfondito intervento su questo sito, ha mostrato
efficacemente che la Banca d'Italia avrebbe i soldi necessari per
ripagare i debiti contratti dall'Italia presso la BCE, soprattutto se
questi potessero essere pagati gradualmente e nel tempo[6].
Cattaneo indica che Bankitalia è in grado di restituire oltre 300
miliardi alla BCE. Quindi, in linea di principio, i debiti verso la BCE
sono sostenibili.
Considerando che Bankitalia dovrebbe
affrontare anche la probabile svalutazione in dollari, le casse italiane
rimarrebbero però quasi vuote o vuote; comunque riusciremmo, almeno
sulla carta, a fronteggiare la situazione senza eccessivi squilibri. Lo
stato italiano, soprattutto se disponesse di crediti esteri – per
esempio americani – per fronteggiare eventuali crisi di liquidità,
potrebbe gradualmente ripagare i suoi debiti senza fare default, cioè
senza dichiarare fallimento.
Se ci fosse il break-up, il
governo e Bankitalia dovrebbero però arginare un altro pericolo
gravissimo: la fuga generalizzata di capitali. I capitali dei grandi
capitalisti sono già andati in buona parte all'estero, ma, se l'eurozona
si rompesse, la fuga verso i porti più sicuri – le obbligazioni
tedesche, il franco svizzero, il dollaro, forse l'oro e quant'altro –
sarebbe generalizzata: anche i risparmiatori comuni cercherebbero di
depositare i soldi fuori dai confini nazionali nel timore di vedere
svalutati i propri risparmi, o semplicemente per ottenere un guadagno
nel cambio.
Da qui almeno due conseguenze: il governo e
Bankitalia dovrebbero imporre (prima possibile) il controllo ferreo sui
movimenti di capitale – cosa relativamente facile da fare nei confronti
dei piccoli risparmiatori, ma più difficile nei confronti degli
operatori multinazionali e delle banche con sedi all'estero –; e
dovrebbero possibilmente accordarsi con le altre banche centrali per
disporre di valuta estera di emergenza e difendere così la lira
italiana.
Bankitalia potrebbe essere messa nella condizione di
indebitarsi, almeno temporaneamente, con il Tesoro e la Federal Reserve
(banca centrale) statunitense per avere a disposizione dollari in
quantità. Sarebbe infatti più difficile l'accordo con la Deutsche Bank
per disporre di marchi/euro! L'intesa con gli USA sarebbe facilitata dal
fatto che, con la presidenza di Donald Trump, l'amministrazione
americana sarebbe certamente felice di aiutarci a rompere l'euro. Ma il
debito verso gli USA andrebbe poi pagato, sia in termini economici che
politici.
Con la Lex Monetae il debito pubblico diventa sostenibile
Esaminiamo la questione dei debiti/crediti con l'estero da un'altra
angolazione. Se consideriamo la posizione finanziaria netta dell'Italia
verso l'estero, che registra le attività/passività del nostro Paese
rispetto al resto del mondo, il saldo netto è positivo per quanto
riguarda il settore privato, e al contrario negativo per quanto riguarda
il settore pubblico. Il deficit totale è pari al 17% circa del PIL,
ovvero a circa 290 miliardi di euro[7].
Il saldo negativo deriva da circa 870 miliardi di passività del settore
pubblico (compresa la banca centrale) e da un saldo attivo di circa 580
mdi del settore privato.
I risparmiatori italiani detengono
una ricchezza finanziaria, tra depositi e titoli, che non ha pari in
Europa (circa 4000 mdi, poco meno di due volte e mezzo il PIL). Gli
italiani mettono una buona parte dei loro risparmi in fondi e altre
società di gestione del risparmio che poi investono soprattutto
(purtroppo) all'estero, sul mercato mondiale[8].
Una parte del popolo italiano è costituito da rentier che vive dei
rendimenti sugli investimenti all'estero. Da qui l'attivo del settore
privato italiano verso l'estero, nonostante il cospicuo saldo passivo
settoriale delle banche (180 mdi).
Se il comparto privato è
complessivamente in attivo, il problema sembra essere il grande debito
pubblico verso l'estero. Ma è risolvibile. Se valesse la Lex Monetae –
se cioè si potesse legalmente ridenominare il debito e restituirlo in
lire svalutate invece che in euro –, allora anche questo problema
sarebbe assai meno grave di come appare. La Banca d'Italia potrebbe
“monetizzare il debito”, ovvero “stampare” lire, e poi gradualmente
ripagarlo senza eccessivi problemi (se non per i creditori ovviamente!).
La questione giuridica della Lex Monetae diventa quindi centrale per
risolvere il problema dell'enorme debito pubblico.
Secondo la lex monetae
lo stato sovrano ha il diritto di restituire il suo debito nella sua
moneta legale, se questo debito è stato emesso sotto la sua
legislazione. Se invece il debito è stato emesso sotto legislazione
estera, per esempio nei centri di Londra o New York, deve essere
ripagato nella valuta nella quale è stato contratto, cioè, per quanto
riguarda l'Italia, in euro.
Secondo il report di Mediobanca già
citato, solo una parte esigua, il 2,5% circa, cioè 48 mdi sul totale
del debito pubblico italiano, è stato emessa in base alle leggi estere e
andrebbe quindi restituita in euro. Il resto del debito pubblico (pari a
un totale di circa 750 mdi) è invece stato emesso sotto la legislazione
nazionale, e quindi sarebbe soggetto alla lex monetae - anche se
Mediobanca (a mio parere sbagliando) reputa che la Lex Monetae sia
difficilmente applicabile a causa delle Clausole di Azione Collettiva,
come illustrato estesamente in nota - [9].
Applicando la lex monetae, il risparmio sul costo del debito sarebbe
notevole. Se si ipotizza, come fa Mediobanca, che la nuova lira si
svaluterà di circa il 30% rispetto all'euro/marco – cioè di una
percentuale pari a due volte il differenziale di inflazione accumulato
negli anni dell'euro tra la Germania e l'Italia –, grazie alla
ridenominazione il debito pubblico risulterebbe sostenibile: infatti,
considerando i 750 mdi di debito estero, lo sconto del 30% varrebbe
indicativamente oltre 200 miliardi. In conclusione: se il debito venisse
pagato in lire, allora per lo stato sarebbe certamente opportuna
l'uscita dall'euro.
Lo studio dell'OCFE: l’Italexit sarebbe conveniente.
Anche una recente ricerca dell'Observatoire français des conjonctures
économiques (OFCE) su principali 12 Paesi dell'eurozona dimostra che
l'Italia avrebbe da guadagnare e non da perdere se uscisse dall'euro –
considerando ovviamente che la situazione è invece destinata a
peggiorare e a precipitare se restiamo -[10].
L'indagine analizza in dettaglio le passività e le attività, i debiti e
i crediti a breve, medio e lungo termine dei settori pubblici e privati
dei principali Paesi dell'eurozona – avvertendo però che il mercato dei
derivati è fuori dal perimetro della ricerca a causa della sua opacità
-. Lo studio giunge alla conclusione che l'Italia non conoscerebbe una
situazione particolarmente critica se uscisse dall'euro, o se l'euro si
spaccasse. Secondo l'OFCE, dal momento che la quasi totalità del debito
pubblico italiano è sotto legislazione domestica, la ridenominazione del
debito in lire porterebbe a un taglio del debito molto consistente.
Lo studio OFCE non si avventura però a stimare il tasso di svalutazione
delle monete dei 12 paesi in caso di break-up: questo tasso comunque,
pur essendo molto alto nel momento del brea-up, si assesterebbe poi su
valori minori. Però l'OFCE avanza una previsione: se con il break-up il
libero movimento dei capitali definisse dei nuovi tassi di cambio per i
12 Paesi in condizione di tendenziale equilibrio, il valore della nuova
lira sarebbe (sorprendentemente) pari – e non minore - alla media del
valore delle altre valute europee[11].
La svalutazione della lira sarebbe di solo il 13% rispetto al marco
tedesco – all'incirca pari al differenziale di inflazione cumulato con
la Germania - , mentre la lira si rivaluterebbe del 10% rispetto al
franco francese e del 9% rispetto alla peseta spagnola, del 40% circa
sulla dracma greca.
Secondo i calcoli dell'OFCE, non si
presenterebbero gravi situazioni di crisi neppure se la svalutazione
italiana nei confronti del marco raggiungesse il 30%. Potrebbero
soffrire alcune singole aziende (in particolare le banche) ma le
situazioni più acute potrebbero essere affrontate con politiche mirate.
In caso di break-up solo Grecia e Portogallo dovrebbero affrontare una
nuova ristrutturazione del debito o un vero e proprio default. L'Italia
invece non correrebbe alcun serio rischio di default nel caso di uscita
dall'euro. Continuerebbe a pagare i suoi debiti e potrebbe ripartire.
Gli autori dello studio sottolineano che, in caso di break-up, anche i
Paesi forti dell'Europa – come Germania, Olanda e Austria, che hanno
posizioni finanziarie nette positive verso gli altri Paesi dell'eurozona
- soffrirebbero molto dalla svalutazione delle loro posizioni attive
sull'estero. Quindi a questi Paesi il break-up dell'euro non converrebbe
per nulla: né sul piano finanziario, né sul piano commerciale, perché
la loro moneta avrebbe un valore superiore a quello attuale dell'euro, e
quindi il loro settore export soffrirebbe assai della rivalutazione.
Questo, suggerisce lo studio, in caso di crisi dovrebbe porre in forte
posizione negoziale i paesi della periferia.
In conclusione: la
rottura dell'euro provocherebbe certamente crisi nel breve periodo, ma
se ci fosse un governo competente e capace, la crisi non si
trasformerebbe in catastrofe. Anzi, una volta normalizzata la
situazione, l'economia italiana potrebbe finalmente uscire dal tunnel
grazie alla ritrovata potestà monetaria.
Il debito delle banche è il vero problema
Con la lex monetae lo stato è in grado di pagare i suoi debiti.
Tuttavia, in base alle stime Mediobanca, il debito delle banche sotto
legge estera – quindi da ripagare in euro – è pari a circa 550 mdi. Una
cifra enorme che farebbe crollare l'intero sistema finanziario italiano,
e che però è in parte compensata dai crediti e dagli attivi in valuta
estera (che si rivaluterebbero se tornassimo alla lira). I dati
Bankitalia indicano che la posizione finanziaria netta delle banche
risulta essere deficitaria per 180 mdi. Ovviamente gran parte di questo
deficit non potrebbe essere ridenominato se, come è probabile, derivasse
da passività sotto legge estera. E' possibile perciò ipotizzare che la
crisi dell'euro potrebbe provocare il fallimento di qualche grande
istituto bancario italiano.
Se una o più delle principali
banche italiane – le quali sono già in crisi a causa di circa 340 mdi di
crediti lordi deteriorati – dovessero fallire, si potrebbe scatenare
una crisi deflagrante. Solo lo stato italiano potrebbe intervenire
facendo stampare alla Banca d'Italia le lire necessarie per mantenerle
in vita. Ovviamente Bankitalia perderebbe la sua (peraltro abbastanza
falsa) indipendenza dal potere politico e diventerebbe praticamente un
organo esecutivo del governo e del ministero del Tesoro.
Più in
generale, la Banca d'Italia dovrebbe “monetizzare il debito”; ovvero
stamperebbe moneta per acquistare i titoli – i BTP e i BOT - che lo
stato italiano emetterebbe per reperire le risorse necessarie a fare
ripartire l'economia. Monetizzare il debito significa aumentare
l'inflazione: l'inflazione tra l'altro provocherebbe una diminuzione del
valore dei titoli di stato (circa 400 miliardi) acquistati in
precedenza dalle banche italiane, e costituirebbe un altro fattore
critico.
Occorre un governo coraggioso e competente per gestire il possibile break-up dell'euro
In conclusione: il vero problema dell'Italexit riguarda le banche
private e non lo stato italiano. Ma è chiaro che anche le valutazioni
rassicuranti dell'OFCE sono da prendere con cautela perché sono
statiche: assai più incerte e certamente assai più drammatiche sarebbero
le prospettive se si considerasse la dinamica, peraltro del tutto
imprevedibile, della crisi europea nel suo movimento complessivo.
Nessuno può anticipare che cosa succederebbe se tutti i Paesi
dell'eurozona uscissero contemporaneamente dall'euro: e che cosa
farebbero gli operatori anglosassoni, cinesi e russi in caso di rottura
dell'eurozona. E che cosa succederebbe sul mercato importantissimo dei
derivati.
Che cosa succederebbe in caso di guerra commerciale o
valutaria? E che cosa accadrebbe se, per esempio, fallissero o
rischiassero di fallire (magari contemporaneamente) a causa della crisi
banche “too big to fail”, come la Deutsche Bank, Societé Generale,
Unicredit? Probabilmente nella crisi e dopo la crisi saremmo più
dipendenti dagli Stati Uniti e forse più deboli verso la Russia di
Putin: ma saremmo anche finalmente sganciati dalle politiche
deflazionistiche dettate dal governo tedesco.
L'uscita dalla
gabbia dell'euro potrebbe finalmente fare riprendere tono all'economia
italiana e, dopo un periodo di assestamento, riportare lo sviluppo a
regime. Finalmente potremmo decidere democraticamente e autonomamente le
nostre politiche monetarie e fiscali in modo da fare crescere il paese
senza essere sottoposti al vaglio di istituzioni europee dominate da
potenze concorrenti, come quella tedesca e francese.
Resta il
fatto che la Moneta Fiscale proposta da una serie di studiosi, tra i
quali il compianto Luciano Gallino, costituisce comunque la soluzione di
gran lunga migliore – ovvero la più concreta, efficace, la meno
rischiosa e traumatica - per rilanciare l'economia senza aumentare il
debito, anzi diminuendo il rapporto debito/PIL[12].
La moneta fiscale sarebbe ottimale sia nel caso che l'euro venisse
mantenuto (ma fino a quando?) sia nel caso che il sistema monetario
europeo fosse destinato presto a crollare. Ma di questo ci occuperemo la
prossima volta.
NOTE
[1] Vedi eBook edito da MicroMega: “Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall'austerità senza spaccare l'euro” a cura di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Enrico Grazzini e Stefano Sylos Labini, con la prefazione di Luciano Gallino.
[2]
Cédric Durand, Sébastien Villemot “Balance Sheets after the EMU: an
Assessment of the Redenomination Risk” OFCE, 10 October 2016.
[3] Questi sono i difetti strutturali dell'euro:
a) impone restrizioni suicide e draconiane sui deficit pubblic, e
queste limitazioni impediscono di attuare politiche fiscali
anticicliche. In tempo di crisi i governi non possono fare gli
investimenti pubblici indispensabili per rilanciare l'economia, e anzi
devono tagliare la spesa pubblica. In tal modo la politica dell'eurozona
distrugge attivamente il modello sociale europeo che nei decenni
passati ha caratterizzato l'Europa;
b) I debiti pubblici di
ciascun paese membro sono denominati in una moneta straniera, ovvero in
una moneta (l'euro) che gli stati non controllano. Gli stati non possono
più finanziare il bilancio pubblico con la loro moneta. Inoltre la
Banca Centrale Europea, che ha il monopolio sull'emissione della moneta
unica europea, per statuto non può coprire i deficit pubblici dei
singoli Paesi. Così, caso unico per i paesi sviluppati, i Paesi e i
popoli europei sono lasciati completamente indifesi e alla mercé della
speculazione finanziaria internazionale.
c) I Paesi più deboli
non possono svalutare. La moneta unica ha infatti eliminato l’uso del
tasso di cambio per il riallineamento della competitività dei paesi
membri dell'eurozona. In questo modo si approfondiscono costantemente i
divari competitivi tra i Paesi dell'eurozona;
d) La politica
monetaria (tassi di interesse e offerta di moneta) e il tasso di cambio
sono identici per 19 economie fra loro molto diverse per livelli di
competitività, inflazione, intensità tecnologica, ecc. La moneta unica è
quindi strutturalmente rigida e impone politiche intrinsecamente non
adatte alle necessità specifiche di ogni paese dell'eurozona.
[4] Mediobanca, Country Update, “Re-denomination risk down as time goes by” 19 January 2017.
[5] Reuters, 20-1-2017 “Any country leaving euro zone must settle bill first: ECB's Draghi”.
[6] Micromega.net Marco Cattaneo “Target2, l'occasione giusta: pagare il riscatto per uscire dall’euro”.
[7]
Supplementi al Bollettino Statistico,- Indicatori monetari e finanziari
- /VNFSP - Bilancia dei pagamenti e posizione patrimoniale sull’estero,
Nuova serie, Anno XXVI - 20 Dicembre 2016 n. 68
[8]
Guido Salerno Aletta, Formiche.net “Assicurazioni Generali, Intesa
Sanpaolo e la difesa dell’italianità del risparmio”, 29/1/2017
[9]
Secondo gli autori del report Mediobanca il trattato sulle Class Action
Clauses, Clausole di Azione Collettiva, impedirebbe l'applicazione
della lex monetae. Che cosa dice il trattato CAC? Il CAC consente a uno
stato di ristrutturare il debito - per esempio: con l'allungamento della
scadenza, riduzione delle cedole o del principale – senza possibilità
di contestazioni giudiziali da parte delle minoranze se la maggioranza
qualificata dei creditori (i due terzi o il 75 per cento a seconda dei
casi) dà il consenso alla ristrutturazione chiesta dal debitore.
Il trattato internazionale firmato dall'Italia nel 2010 prevedeva di
inserire obbligatoriamente le norme CAC a partire dal 2013 nelle nuove
emissioni di debito pubblico. Se queste norme valessero oltre che per i
casi su menzionati di ristrutturazione del debito anche nei casi di
ridenominazione della valuta, allora lo stato italiano dovrebbe
restituire una parte sempre crescente del suo debito in euro. Infatti,
per quanto riguarda i titoli di stato emessi dal 2013 in poi, è
altamente improbabile che la maggioranza qualificata dei creditori
accetti la ridenominazione dall'euro nelle lire svalutate.
Gli
autori del report Mediobanca stimano che la quota di debito emessa con
clausole CAC sia già pari a quella precedente al 2013 (e quindi a quella
senza CAC) e giungono alla conclusione che già oggi la ridenominazione
del debito in lire non porterebbe alcun vantaggio allo stato. Dal
momento che negli anni la quota di debito CAC crescerà fino a
raggiungere il 100% nel 2022, ridenominare diventerà sempre meno
vantaggioso. Quindi gli autori suggeriscono che il governo italiano sarà
costretto a chiedere la ristrutturazione del debito per non fallire. La
Troika è vicina!
Tuttavia non è detto che Mediobanca abbia
ragione. L'interpretazione del CAC potrebbe (e dovrebbe, a parere di chi
scrive) essere molta diversa. Come abbiamo scritto, secondo Mediobanca,
il CAC si applicherebbe non solo nel caso di ristrutturazione del
debito ma anche se il debito pubblico venisse ridenominato in lire.
Tuttavia questa opinione è molto discutibile, se non fuorviante. Il CAC
infatti è stato introdotto nei trattati europei per favorire gli stati
debitori in caso di default, e non i creditori. In particolare le
clausole di azione collettiva intendono evitare che creditori minoritari
- come i vulture fund, i fondi avvoltoio che hanno preteso il totale
rimborso al 100% dei titoli di debito argentini che avevano comprato a
prezzi stracciati quando l'Argentina era già fallita - possano fare
crollare le finanze di un Paese in crisi non accettando le condizioni
approvate dalla maggior parte dei creditori, e quindi pretendendo in
giudizio di non essere vincolati dalle decisioni di compromesso pattuite
dallo stato con la maggioranza dei creditori.
Quindi il CAC
deve in linea di principio proteggere lo stato italiano, in quanto
debitore, e non il contrario. Inoltre, e soprattutto, il trattato non
cita esplicitamente la ridenominazione tra i casi per cui è prevista
l'adozione delle regole CAC. Assai difficilmente esse si applicherebbero
nel caso di ridenominazione del debito in base ai normali principi
giuridici in vigore. Pure nel dibattito internazionale si afferma che il
CAC difficilmente è applicabile in caso di ridenominazione, per la
quale varrebbe invece la lex monetae. E' quindi abbastanza certo che il
CAC non si applichi alla ridenominazione. Del resto anche nel report
Mediobanca si dice che il riferimento del CAC ai casi di ridenominazione
è solo implicito. Soprattutto è molto difficile immaginare che in caso
di uscita di un Paese dall'euro i suoi tribunali applicherebbero le
regole CAC, e non la Lex Monetae, penalizzando il proprio Paese.
[10]
Cédric Durand, Sébastien Villemot “Balance Sheets after the EMU: an
Assessment of the Redenomination Risk” OFCE, 10 October 2016
[11]
L'OFCE calcola il FEER – Fundamental Equilibrium Exchange Rate –
ovvero, in sintesi, il tasso di cambio compatibile con un'economia di
piena occupazione e con l'equilibrio della bilancia dei pagamenti.
[12] Vedi eBook edito da MicroMega: “Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall'austerità senza spaccare l'euro” già citato.
domenica 5 marzo 2017
Tutti i conti dell'Italexit: nessuna catastrofe se l'Italia esce dall'euro
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