di Mimmo Porcaro da sinistrainrete
Schivare il concreto
E’ da quando ho compreso il nesso
tra Unione europea, dominio di classe e crisi irredimibile della
sinistra, è da quel difficile passaggio (dovuto alla dura esperienza del
secondo governo Prodi, da me vissuta direttamente anche a livello
comunitario, ad una rilettura dei classici e poi ai testi di Bagnai,
Cesaratto, Barra Caracciolo, Giacché ed altri) che mi torna spesso in
mente una frase di Elias Canetti: “Schivare il concreto è uno dei
fenomeni più inquietanti dello spirito umano”. Schivare il concreto, per
la sinistra, significa per esempio schivare il problema del potere, e
quindi il problema dello stato. Da convinto marxista so bene che è
caratteristica specifica del capitalismo quella di esercitare il dominio
di classe attraverso i meccanismi apparentemente impersonali e neutri
dell’economia (non altrettanto bene lo sanno coloro che continuano a
dire che l’euro è “solo una moneta”…). Ma so anche che, perché questi
meccanismi apparentemente solo economici funzionino è necessario, Marx dixit,
l’intervento disciplinante dello stato. E so (da Giovanni Arrighi) che
alle fasi di crescita in cui il dominio si esercita in forma
prevalentemente economica (finanziarizzazione e globalizzazione)
succedono le fasi di crisi in cui lo stato ritorna prepotentemente sulla
scena, e diviene evidente che chi lo controlla decide se si esce dalla
crisi in direzione progressiva, ossia col socialismo, oppure con la
guerra e con una nuova forma di capitalismo.
Eludere lo stato
Eppure
dello stato la sinistra (soprattutto quella sedicente antagonista,
critica ed alternativa) non parla quasi mai. Parla invece molto del
non-stato: autorganizzazione, autogestione, produzione diretta di
socialità, sperimentazione di forme extrastatuali di politica e di forme
extramercantili di economia. Che bei concetti, che finezza di analisi,
che assoluta, totale, irresponsabile mancanza di concretezza! Poi dice
che il “popolo” si butta a destra! Prendiamo il sistema sanitario
nazionale: disegnatene, se siete capaci, un modello fondato su
autogestione e produzione diretta di socialità (con l’inevitabile
corredo del decentramento…), dimostratemi che funziona e, se funzione,
dimostratemi che non aggrava le differenze tra classi e territori. Come
dite? Dite che è difficile? Che questo è un esempio estremo? Ma quale
esempio estremo! Si tratta dell’essenziale, dell’eguaglianza di
tutti di fronte alla malattia ed al dolore: e per ottenere questa
eguaglianza è necessaria l’esistenza di strutture burocratiche,
centralizzate e dotate della capacità di finanziarsi, ovvero di imporre
anche ai riottosi la solidarietà fiscale. Dunque serve, ahinoi, un
apparato coercitivo. Che orrore, vero? Si dirà che apparati del genere
tendono inevitabilmente a sclerotizzarsi, a divenire autoreferenziali,
autoritari ecc. . Verissimo! Affianchiamoli allora con agili ed efficaci
associazioni autonome di cittadini e lavoratori che sappiano
controllarli, contrastarli, proporre modelli alternativi, preparare
gruppi dirigenti di ricambio. Ma non pensiamo di sostituirli con queste associazioni. Elaboriamo una nuova teoria dello stato ed una teoria della dialettica permanente
tra stato e organismi di classe e cittadinanza. Non limitiamoci a
pensare soltanto a ciò che sta fuori dallo stato, perché così lasciamo
la gestione dello stato stesso ad altri (ben contenti del nostro
antistatalismo…) e partecipiamo alla privatizzazione delle funzioni
pubbliche sotto il manto della loro socializzazione.
Come superare il lavoro salariato
Un
discorso analogo vale per la questione del lavoro. Vogliamo superare la
forma-salario? Bene: cominciamo a garantire la piena occupazione (cosa
che oggi, e soprattutto in Italia, si può ottenere solo con l’intervento
pubblico e con la proprietà pubblica nei settori strategici) e così
riduciamo al minimo l’esercito industriale di riserva e con esso il
ricatto costante del licenziamento, che è la forma più brutale della
schiavitù salariale. Poi riportiamo ad un livello decente le prestazioni
del welfare, e così aumentiamo la quota del reddito percepito
indipendentemente dalla prestazione lavorativa. Poi, sulla base della
piena occupazione, iniziamo a ridurre l’orario di lavoro a parità di
reddito (anche utilizzando, a questo punto, forme di reddito
integrativo), e sviluppiamo libere – ma socialmente verificabili –
attività di cura dell’ambiente sociale e naturale che costituiscano non
già il titolo individuale per la fruizione dei servizi del welfare, ma
la condizione sociale perché detti servizi siano sempre più estesi e
gratuiti. Non basta? Fate un po’ voi. Vi sembra una proposta reazionaria
(come dicono Grillo ed i postoperaisti) perché prevede il lavoro per
tutti quando oggi non ci sarebbe più bisogno di lavorare, o quasi, e
quindi sarebbe giunta l’ora del reddito incondizionato svincolato dal
lavoro? Un tempo vi avrei detto: liberi di pensare e dire quel che
volete. Oggi vi dico che ogni parola spesa in questo senso alimenta la crescita della destra dura. Perché?
Come non superare il lavoro salariato
Perché,
vedete, potrei farvi tanti bei discorsi in cui spiegarvi l’ovvio. E
cioè che si deve preferire il lavoro garantito al reddito garantito
perché ci sarà pure l’espansione del lavoro intellettuale (che comunque è
anch’esso lavoro, e assai più duro e “materiale” di quanto molti non
dicano), ma qualcuno deve pur lavorare per costruire le sedie dove il
“cognitariato” posa il suo pensoso posteriore, qualcuno deve pur
scaricarsi i bancali carichi delle merci ecologicamente irreprensibili
che consumate tra un clik e l’altro. E poi che non si può dire che si
partecipa alla cooperazione sociale (e quindi si ha diritto per questo
solo motivo a un reddito) anche solo facendo zapping davanti alla TV,
perché così, secondo la vostra ipotesi, si forniscono informazioni che
poi il capitale usa per valorizzarsi. In quel momento infatti non si è
lavoratori (ossia membri di un processo collettivo consapevolmente
orientato) ma prodotti, merci (ossia individui trasformati in spettatori dalla macchina mediatica), attori passivi della circolazione del
capitale: altro che espressione della libera cooperazione produttiva,
base del comunismo. Potrei dirvi questo ed altro, ma preferisco per una
volta avere un approccio diverso, e mettermi nei panni di un lavoratore
che, sia privato o pubblico, schiacciato dal superlavoro, non vede l’ora
che una bella leva di giovani venga a dargli man forte. Provate a
dirgli che tutti quei giovani disoccupati, in realtà disoccupati non
sono perché producono socialità, e “quindi” valore, anche quando sparano
cazzate al bar (attività peraltro nobilissima), e che perciò devono
percepire un bastevole reddito a prescindere. E che poco importa
se per fornirglielo si dovrà attingere dalla sanità o dal sistema
pensionistico o magari ridurre un tantinello il reddito di chi si ostina
a fare il lavoratore tradizionale. Provate a dirgli che invece di avere
al suo fianco un paio di nuovi colleghi che alleggeriscono il suo
lavoro, verranno piuttosto alleggerite le sue tasche per finanziare una
indennità di disoccupazione mascherata. Provate a dirglielo: non voterà
per Salvini, ma direttamente per Hitler. Insomma: non abbiamo diritto al
reddito perché siamo “sempre” lavoratori. Abbiamo diritto al lavoro e al reddito, diretto o indiretto che sia, perché siamo cittadini.
E dobbiamo lavorare, ossia svolgere una funzione socialmente
essenziale, perché tutto ciò che giustamente percepiremo a prescindere
dal lavoro non sia una mancia revocabile a piacimento, non sia una
diminuzione della nostra dignità, ma un frutto di essa.
Giochi di sovranità
L’odio
per lo stato si accompagna benissimo all’amore sconsiderato per
l’Europa. Perché l’Unione europea si presenta come un non-stato: e poco
importa se in essa il (presunto) declino dello stato si accompagna al
dominio del mercato: secondo la nostra sinistra basta sostituire le
relazioni mercantili con quelle sociali e il gioco è fatto. E che ci
vorrà mai? Gli è, però, che l’Unione non è la tomba della sovranità in
generale: è la tomba della sovranità democratica e popolare, di quella
sovranità che è essenziale al funzionamento di ogni costituzione. Anche
la forma in apparenza meramente economica assunta dell’Unione è in
realtà frutto della sovranità, o meglio, dell’incrocio di tre distinte
sovranità statali: quella degli Stati uniti (che non hanno mai voluto
un’Europa apertamente politica), quella della Germania (che sapeva di
non poter egemonizzare l’Europa, almeno all’inizio, in forma
direttamente politica) e quella degli altri stati europei, che
regolavano così i conti con le proprie classi subalterne fingendo che le
decisioni dipendessero da altri. L’emergere della crisi ha fatto
riemergere il carattere totalmente intergovernativo delle
decisioni, e se un qualche superamento della frammentazione premierà gli
sforzi dei fanatici del “più Europa” (tra i quali, of course, la sinistra) sarà, non tanto paradossalmente, un rafforzamento della forma peggiore di sovranità: una kernEuropa unita da vincoli economici ancor più classisti e soprattutto da un comune potere militare.
Bella fine, per gli antisovranisti, partecipare alla costruzione di un
maxi-sovrano che premierà la Germania conferendole l’arma nucleare!
La riforma impossibile
Eppure, perseverare diabolicum,
si continua ad illudersi sulla riformabilità dell’Unione, a predicare
piani B, ad esigere riforme dei trattati, a volere l’Europa “sociale”, a
chiedere cioè cose che, se mai si realizzassero, provocherebbero l’exit
della Germania e la fine dell’Unione, e a chiederle
avventuristicamente, ossia senza minimamente prepararsi a quel ritorno
alla nazione che sarà la forma inevitabile (almeno all’inizio) della
rottura dell’Ue. Ma in realtà si chiedono queste cose perché si sa
benissimo che non si realizzeranno mai. E’ infatti impossibile che non
si capisca che non esistono le condizioni politiche né per la formazione
di un’efficace movimento di classe o di cittadinanza europeo, né per
utilizzare una qualche positiva divisione delle classi dominanti
europee. Negli ultimi dieci anni e più abbiamo visto crisi,
disoccupazione, guerre, miseria crescente, muri contro i migranti, ma
non abbiamo visto mai nessun movimento sindacale o civile a livello europeo capace anche solo di iniziare
una vera controffensiva. Abbiamo avuto l’evidente sofferenza dei paesi
dell’Europa meridionale e la risposta dei dominanti europei è stata la
punizione della Grecia: e se qualche divisione si vede in Europa non è
tra la Merkel e qualcosa di meglio, ma tra la Merkel e la destra
peggiore. Tutto ciò non avviene a caso. La “cecità” dell’Europa
centro-settentrionale è in realtà il lucido perseguimento dell’obiettivo
della centralizzazione dei capitali e dello sfruttamento del lavoro e
del risparmio del sud a profitto del nord. E l’inesistenza di movimenti
antiliberisti efficaci deriva dal fatto che l’Unione non è semplicemente
uno spazio, che qualcuno può ritenere “migliore” di quello nazionale per il semplice fatto che è più “grande, ma è piuttosto una macchina che avanza distruggendo le forze che dovrebbero – in ipotesi – democratizzarla.
Trappole europee
Sono
tre le micidiali trappole che impediscono sul nascere la formazione di
una opposizione sociale unitaria a livello europeo. La prima è la
“trappola di Von Hayek”, il quale fin dagli anni trenta aveva capito che
per rendere strutturalmente impossibile il socialismo sarebbe
stato opportuno costruire una bella federazione con una bella moneta
comune, perché in tal modo ogni singolo stato, vincolato da una
disciplina monetaria decisa altrove, avrebbe dovuto rinunciare a
politiche di redistribuzione del reddito, delegandole al livello
sovranazionale: ma al livello sovranazionale le storiche divisioni fra
stati avrebbero avuto il sopravvento rendendo così impossibile qualunque
tipo di redistribuzione. Ben pensato e ben fatto, direi! La seconda è
la “trappola della sovranità”: protestate a Roma e vi dicono di andare
Bruxelles, andate a Bruxelles e vi dicono di rivolgervi a Francoforte, e
qui il banchiere centrale vi dice che si limita ad applicare norme
tecniche coerenti con le dinamiche del mercato mondiale: e vorrete mica
mettervi contro il mercato mondiale, voi poveri untorelli? E poi, alla
fin fine, sono gli stati nazionali a nominare di fatto il banchiere:
rivolgetevi a loro! La terza è la trappola della governance: chi
comanda davvero, in questi decenni, ha centralizzato e reso impermeabili
le decisioni strategiche ma ha delegato alla negoziazione sociale
quelle secondarie: una vera bazza per tutte quelle ong, quei sindacati e
simili che così possono illudersi di contare qualcosa, e soprattutto
possono contare i denari che vengono dalla partecipazione a questo o
quel progetto europeo. Credete che da questo mondo associativo, che
costituisce una delle più strutturate basi della sinistra, possa venir
fuori qualcosa di serio contro la logica dell’Unione?
Piccole monete per piccole patrie
E
infatti ne vengono fuori solo palliativi, pannicelli caldi, o vere e
proprie “furbate” dagli esiti paradossali. Prendete questa cosa delle
monete “sociali” o della “moneta fiscale”. Intendiamoci, nulla in
contrario, in linea di principio, in determinati momenti e per
determinate questioni. Ma questi espedienti, pensati per non porre il problema dell’exit,
avrebbero bisogno, per funzionare davvero, proprio di quella rigida
chiusura nazionalistica, quando non localistica, che si rimprovera a chi
dall’euro vuole uscire. Infatti la moneta fiscale e quella locale
funzionano (come soluzione principale) solo per una nazione o una
regione completamente chiuse agli scambi con l’estero. Se invece a
questi scambi ti devi aprire ti accorgi che è impossibile usare queste monete per regolare i conti con l’estero,
ossia per affrontare quello che è il problema principale di un’economia
ormai dipendente come la nostra. Proprio per questo l’eventuale
momentaneo beneficio di una moneta sociale e fiscale (i soldi comunque
girano, le attività economiche riprendono e così la domanda ecc. ecc.)
si convertirebbe da subito in un aumento del deficit con l’estero che,
non potendo mai risolversi (per quanto riguarda i rapporti con i paesi
europei) con la flessibilità monetaria, dovrebbe essere risolto con la
flessibilità salariale. Al ribasso, ovviamente. Ecco che cosa succede a
schivare il concreto, concretissimo problema dell’euro
Poesia e prosa
Ma
che ce lo diciamo a fare? Qui non è questione di opinioni, di “franca e
fraterna discussione”, di lotta ideologica. Certo, c’è una parte non
piccola di militanti di sinistra che rimane europeista per dubbi sul
prima e sul dopo (sulla genesi dell’Ue e sui modi dell’exit), per
abitudine intellettuale, per diffidenza verso certe forme di sovranismo.
Con costoro bisogna essere pazienti e non spocchiosi. Bisogna
ricordarsi che non è stato facile neanche per noi uscire
dall’europeismo: e l’abbiamo fatto di fronte alla palese evidenza del coup d’état
di Napolitano-Monti: la droga soporifera successivamente spacciata da
Mario Draghi ha annebbiato la vista a molti. Ma per la gran parte della
sinistra, ed in particolare per i gruppi dirigenti ed i quadri
intermedi, non è questione di poesia europeista ma di prosa. In
Italia chi guadagna più di 1.500 euro al mese è europeista. Chi ne
guadagna dai 1.000 ai 1.500 è indeciso. Chi sta sotto i 1.000, o chi è
disoccupato, è antieuropeista: e se invece per ora si tiene in disparte,
domani sarà decisamente anti-euro. Questo per dirvi come va il mondo.
La nostra tragedia sta nel fatto che la base sociale della sinistra
(quella da cui provengono i quadri) e la sua base di massa (quella da
cui provengono gli elettori) appartengono generalmente al primo e al
secondo scaglione: e i dirigenti soprattutto al primo. Chi glielo fa
fare di rompere gli equilibri e di correre i rischi politici dell’exit? E
chi glielo fa fare di porsi il problema dello stato, visto che sulle
questioni essenziali (ossia sull’indiscutibilità dell’europeismo) lo
stato italiano si muove secondo i desiderata della sinistra e per
il resto con 1.500 e più euro al mese, welfare e pensione da lavoratore
di lungo corso si vivacchia mica male?
Ancora una divisione tra i lavoratori
La
nostra vera tragedia, la tragedia di quel che resta del movimento dei
lavoratori e del movimento socialista e comunista, e quella di tutti i
cittadini che ancora credono alla Carta fondamentale non è lo strapotere
del capitale ma la divisione interna al mondo del lavoro.
L’esperienza della lotta di classe post ’45 è certamente ambigua e
contraddittoria, ma è difficile negare che nello stato sociale e nel
partito di massa, il lavoro qualificato (fosse esso di origine “colta” o
meno) aveva la funzione di mediare tra lo stato e la parte meno
qualificata del lavoro stesso. Stato e partito erano il luogo di
un’alleanza. Progressivamente, il ritrarsi dello stato e la forma
privata assunta da molte attività intellettuali hanno creato una
frattura che al momento non si vede come risanare, se non con una grande
esperienza collettiva di emancipazione, dettata da una qualche
necessità storica. Insomma: in Italia esiste un blocco deflazionista,
composto non solo dai possessori di grandi e medi capitali, ma anche
dai medi risparmiatori e da grandissima parte dei lavoratori garantiti,
un blocco che teme l’instabilità e l’inflazione più di ogni altra cosa,
che egemonizza il movimento dei lavoratori facendo dimenticare a tutti
che l’inflazione è inseparabile da una politica di piena occupazione, e
viceversa. Finché questo blocco non si estinguerà (per la progressiva
scomparsa del lavoro garantito) o non si spaccherà, non risolveremo
nulla. Per adesso questo blocco si candida, qualora ce ne fosse bisogno,
a salvare l’appartenenza dell’Italia all’Unione promuovendo una sacra
alleanza contro il populismo sovranista. Ad amministrare la miseria
italiana per conto della Germania. Nuovi Tsipras crescono.
Sovranità e classe
Qualche
evoluzione a sinistra, e nelle vicinanze, si inizia per fortuna a
vedere. C’è però troppa timidezza nell’accettare in pieno il terreno
della sovranità nazionale. Si ha forse paura di tornare a un tempo in
cui l’aggettivo “nazionale” (interesse nazionale, solidarietà nazionale)
copriva pratiche di compromesso di classe a perdere. E lo posso capire.
Ma oggi le cose stanno all’opposto: oggi la sovranità nazionale viene
distrutta proprio per rendere impossibili politiche pro labour.
Ed oggi la rinazionalizzazione della politica (un dato di fatto, non una
scelta degli ottusi sovranisti) non è un incidente di percorso che
interrompe la pacifica marcia della globalizzazione: è piuttosto l’inevitabile risultato dialettico della globalizzazione stessa,
che è stata ed è un processo di gerarchizzazione a cui si risponde,
inevitabilmente, situandosi in quegli spazi che storicamente hanno (o
possono tornare ad avere) quel quantum di forza finanziaria e
politica che serve ad ostacolare il libero movimento del capitale. Ossia
le nazioni. Dice: ma la sovranità rimanda ad un potere assoluto,
trascendente, nemico della società e quindi dei lavoratori… . Ma quando
mai? Nella logica del pensiero costituzionale italiano (Mortati in primis)
la sovranità è la possibilità di porre in essere comandi politici che
non siano condizionati da potentati, interni o esterni allo stato, che
possano ostacolare la funzione redistributiva dello stato stesso. La
sovranità è la base di una costituzione lavorista, e dalla costituzione
stessa è limitata(giustamente: perché il sovrano, quand’anche sia il
popolo, può sempre sbagliare). La lotta per l’autonomia di classe ha
bisogno di strumenti di politica economica che solo la sovranità
nazionale può fornire, ed è per questo che autonomia di classe e
sovranità nazionale si intrecciano. Una sovranità nazionale che è primo
passo per la creazione di nuove relazioni internazionali che
costituiscano lo spazio necessario a condurre in porto efficaci
esperienze socialiste. Siamo socialisti ed internazionalisti: quindi
vogliamo ricostruire uno stato capace di redistribuire (e per questo ci
serve la condizione formale della sovranità nazionale), e quindi dobbiamo
anche poter far muro contro la piena libertà di movimento dei capitali
(e per questo ci serve uno spazio internazionale cooperativo – e non
gerarchico come è quello dell’Unione).
Sovranità e democrazia di base
Dice:
ma come, proprio tu che per anni hai teorizzato la necessità di una
politica che non si fissi sullo stato, che sia in grado di intaccare i
poteri sociali più diffusi, che consenta una attivazione diretta dei
lavoratori e della cittadinanza, proprio tu mi vai a riscoprire lo
stato, la sovranità e addirittura la nazione? Si, e non sento nemmeno il
bisogno di fare troppa autocritica (se non per aver dato troppo credito
al “movimento dei movimenti”, non cogliendo fino in fondo la natura
relativamente aristocratica di certe forme di mobilitazione). Non ho mai
assunto una posizione anarchica (anzi, ho polemizzato espressamente con
Negri ed Hardt). Non ho mai detto che si cambia il mondo senza prendere
il potere (anzi, ho polemizzato espressamente con Holloway, pur
riconoscendone i meriti). Ho semplicemente detto: a) che la funzione di
un’entità “terza” che dirima grazie all’autorità politica i conflitti
sociali (inevitabili anche nel migliore dei mondi) è ineludibile, e che
quindi è ineludibile una qualche forma di stato, altrimenti il soviet
più forte mangerà sempre il soviet più debole; b) che ogni stato, anche e
soprattutto lo stato che si pretende espressione diretta del popolo,
della classe o della famosa moltitudine, tende inevitabilmente
alla degenerazione gerarchica; c) che quindi è necessario affiancare
allo stato una rete di associazioni autonome dei lavoratori e dei
cittadini, capace di interloquire e confliggere con lo stato stesso e,
se necessario, di produrre nuovi gruppi dirigenti in sostituzione di
quelli eventualmente degenerati. Aggiungo che tali associazioni, se sono
veramente mosse dall’esigenza di organizzare la lotta dei ceti popolari
per più decenti condizioni di vita e di costruire forme efficaci di
democrazia di base, troverebbero oggi grande giovamento proprio da una ricostruzione della sovranità nazionale,
perché così avrebbero di fronte ad un interlocutore preciso,
identificabile e certamente assai più permeabile della Commissione
europea e di consimili mostri. Per capirci: le “città ribelli”, se si
organizzano contro un governo nazionale per esigerne politiche
coerentemente redistributive, sono un grande momento di presa di parola
delle classi popolari e di costruzione delle condizioni
dell’eguaglianza. Se invece si presentano come snodi di una governance
europea, si perdono nell’indefinito dei progetti macro-clientelari e
divengono vettore di diseguaglianza, creando un solco trai luoghi che
hanno le possibilità ed il coraggio di ribellarsi e quelli che non sanno
o non possono farlo. C’è qualcuno, trai movimenti, le associazioni ecc.
ecc. che abbia voglia di affrontare questo “piccolo” problema? Vogliamo
proprio far sì che l’anarchismo perda tutta la sua possibile funzione
critica e si riduca ad essere anarcocapitalismo d’accatto, ideologia del
dominio dei penultimi sugli ultimi?
Non “tornare” ma “inventare”
Non
vedo solo una timidezza nell’accettare il terreno della sovranità. Vedo
anche una certa leggerezza nell’accettarlo. Intendiamoci: rivendicare
la sovranità è condicio sine qua non di qualunque politica degna di questo nome. Ma non si può semplicemente dire “torniamo alla sovranità nazionale”. Se è vero che oggi la sovranità è limitata anche formalmente (e questa è una grave regressione) non si può dimenticare che negli anni successivi al ’45 essa era comunque sostanzialmente
limitata. Una funzione fondamentale della sovranità, quella militare,
era concentrata nello stato egemone. Ed anche la sovranità economica era
sottoposta a vincoli, per quanto, almeno all’inizio, molto elastici.
Queste limitazioni, poi erano strettamente funzionali al mantenimento
delle gerarchie di classe interne ad ogni paese. Insomma, se si vuole
usare la sovranità nazionale come momento di controffensiva dei
lavoratori bisogna reinventarne le condizioni, lavorare per la
formazione di un mondo multipolare e per il suo equilibrio pacifico,
scegliere le relazioni internazionali che meglio consentano lo sviluppo
della lotta di classe. Un terreno tutto da dissodare. E così non si può
dire semplicemente “torniamo alla politica mediterranea
cooperativa” tipica dell’Italia. Tale politica infatti non fu solo
cooperativa, ma anche a suo modo imperialistica, fu in fondo solo una
variante tattica dell’atlantismo – e difatti perse ogni autonomia quando
il sovrano atlantico lo impose, e si mosse in un ambiente di
interlocutori stabili che oggi non esistono più. Qui, per noi, abituati a
pensare alla politica estera più che altro in termini di slogan e tifo,
c’è davvero un lavoro enorme da fare. Né si può dire semplicemente ”torniamo
alle imprese pubbliche”, perché queste veramente pubbliche non furono, a
causa di una forma giuridica e di un regime di controlli che le resero
man mano oggetto di uso privatistico da parte di manager e partiti.
Soprattutto, dato il monopolio manageriale del know how, la
redazione delle norme che avrebbero dovuto regolare il comportamento
delle grandi imprese era di fatto affidata alle imprese stesse (e lo
stesso discorso vale per la Banca d’Italia). Si deve quindi inaugurare
la stagione dell’impresa pubblica nel nostro paese. E le competenze
della società civile potrebbero avere oggi molto da dire nell’ambito di
una ripresa ragionata dell’economia mista.
Ecco, vogliamo parlare
di queste cose o ci basta cianciare su Minzolini e sulle
pseudo-scissioni del PD? E’ possibile che non si riescano a studiare in
maniera organizzata tutte queste questioni? E’ possibile. E così, reso
impaziente dall’età avanzata e dall’avanzare dei tempi, mi toccherà di
stizzirmi ancora, e di sfogarmi ancora con v
lunedì 27 marzo 2017
Dal diario di un impaziente Note sparse su sinistra, Europa, sovranità
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Non è vero che chi guadagna 1500 o più euro al mese è necessariamente europeista
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