da senso-comune
La crisi finanziaria del 2007-9 può essere considerata una conseguenza di quel trentennale processo di finanziarizzazione – termine di cui esistono diverse definizioni ma che per semplicità possiamo identificare con il peso e il potere crescenti assunti dalla finanza e dal capitale finanziario nell’economia – che fu la risposta (indubbiamente geniale) del capitalismo alla stagnazione dei salari provocata dalla guerra vittoriosa ingaggiata dal capitale nei confronti del lavoro nel corso e per mezzo di quella che è stata definita la “controrivoluzione neoliberista”. In sostanza, la crescente erosione dei salari e del potere d’acquisto dei lavoratori in diversi paesi occidentali fu “compensata” dall’aumento esponenziale dell’indebitamente privato, ossia da quello che alcuni hanno definito una paradossale forma di “keynesismo privatizzato”. Sarebbe a dire che le banche hanno permesso ai lavoratori, tramite il credito/debito, di mantenere inalterati i loro livelli di consumo, nonostante la stagnazione salariale verificatasi dagli anni ’70 in poi.
Questo processo di finanziarizzazione si è espletato sostanzialmente in due modi: (i) a livello internazionale,
attraverso la liberalizzazione dei flussi di capitale, che – è il caso
di sottolineare – fu una scelta squisitamente politica e non una
conseguenza inevitabile della modernità e del progresso, come spesso
viene detto, anche a sinistra; (ii) a livello nazionale,
attraverso la liberalizzazione dei sistemi bancari e creditizi
nazionali, per mezzo dello smantellamento di tutta quell’architettura
regolatoria messa in piedi in alcuni paesi in seguito alla grande
depressione e poi in maniera più diffusa in seguito alla seconda guerra
mondiale, e che fu una delle architravi del cosiddetto “trentennio
glorioso” (che poi tanto glorioso non fu ma quello è un altro discorso).
Su entrambi questi fronti l’Europa – e, ahimè, la sinistra europea – ha fatto da apripista. Sul fronte della liberalizzazione dei capitali l’Europa ha praticamente anticipato tutti.
Basti pensare che già nell’Atto unico dell’86 – quindi parliamo di un
momento in cui praticamente tutti i paesi europei impiegavano controlli
di capitale di qualche tipo ed anzi questi erano considerati
fondamentali per il corretto funzionamento del mercato unico – Jacques
Delors, l’allora presidente della Commissione, riuscì a inserire la
libera circolazione dei capitali (non solo tra paesi membri ma anche tra
paesi della CEE e paesi terzi) tra le architravi della nascente
costituzione economica europea. Questo diede uno spinta decisiva alla liberalizzazione dei flussi di capitale a livello globale.
Come scrive Rawi Abdelal, professore di management internazionale ad
Harvard: «Questa nuova definizione del carattere economico europeo
rappresentò il motore principale della diffusione della libera
circolazione dei capitali a livello mondiale… I mercati finanziari
globali sono globali in primo luogo grazie al processo di integrazione
finanziaria europea». Tale processo ha inoltro giocato un ruolo cruciale
nel determinare la crisi dell’eurozona, come vedremo.
Questo per quanto riguarda la
liberalizzazione dei flussi di capitale. L’Europa però ha fatto da
apripista anche sull’altro fronte di tale processo, la liberalizzazione e la deregolamentazione dei sistemi bancari nazionali.
Si è parlato tanto in questi anni del ruolo giocato nella crisi
finanziaria dall’abrogazione da parte di Clinton, nel 1999, della famosa
legge Glass-Steagall, introdotta da Roosevelt negli anni ’30 per
separare le banche commerciali dalle banche d’investimento e impedire la
formazione di quelle banche “too big to fail” che hanno giocato un
ruolo determinate nella crisi. Ora, quello fu sicuramente un passaggio
importante per quanto riguarda il contesto statunitense. Quello che però
spesso ci si dimentica di dire è che l’Europa anticipò
praticamente di un decennio gli Stati Uniti nell’abrogare le varie leggi
“Glass-Steagall” che esistevano nei diversi ordinamenti nazionali
europei. Già nel 1989 la Seconda direttiva bancaria della CEE,
finalizzata alla creazione di un mercato unico dei servizi finanziari,
gettò di fatto le basi legali per l’estensione del cosiddetto “modello
tedesco” della banca universale – sarebbe a dire un sistema in cui alle
banche è permesso di partecipare ad attività diverse e di agire sia da
banca commerciale che da banca d’investimento – al resto della Comunità
europea.
La Seconda direttiva rappresentò una
sorta di legge bancaria sovranazionale che funse da quadro di
riferimento per le riforme dei vari sistemi bancari nazionali negli anni
a venire. In Italia la direttiva fu recepita nella Legge Amato del 1990,
che permise alle banche di superare il divieto, introdotto nel 1936, di
operare contemporaneamente come imprese commerciali e di investimento.
Rappresentò in un certo senso l’equivalente italiano dell’abolizione
della Glass-Steagall fatta da Clinton, con dieci anni di anticipo
rispetto agli Stati Uniti però. Come per la liberalizzazione dei flussi
di capitale, anche questo ebbe inevitabilmente un impatto a livello
internazionale, fornendo l’impulso alla liberalizzazione dei sistemi
bancari anche all’infuori dell’Europa e in particolare negli USA. Uno
dei risultati della Seconda direttiva bancaria, infatti, fu il progressivo
consolidamento delle banche europee, che in pochi anni divennero
significativamente più grandi e concentrate delle loro corrispettive
statunitensi, tanto che cominciarono ad acquisire diverse
banche statunitense. Fu proprio la minaccia (reale) rappresentata dalle
banche europee a cui si appellarono le banche statunitensi per ottenere
dai legislatori l’abolizione della Glass-Steagall.
Arriviamo così alla crisi finanziaria
del 2007-9. Va notato che persistono ancora delle letture molto
discutibili di cosa fu realmente quella crisi. È ancora diffusa, per
esempio, l’opinione secondo cui le banche e le istituzioni europee
furono semplici “vittime collaterali” di una crisi generatasi
oltreoceano. Non è così. Come scrisse Luciano Gallino: «Non si è affatto
trattato di una crisi americana seguita da una crisi europea; in realtà
la prima e la seconda sono due volti, o due fasi, di una medesima crisi
del capitale finanziario». Come è noto, negli Stati Uniti la crisi fu il risultato dello scoppio della bolla dei cosiddetti subprime:
mutui facili concessi dalle banche americane a soggetti a basso reddito
che non erano in grado di ripagare tali debiti, cosa che però importava
poco alla banche giacché questi debiti venivano impacchettati
(“cartolarizzati”) e poi rivenduti a terzi.
Le stesse dinamiche ebbero luogo in Europa, solo su scala molto più grande.
Prima di entrare nel merito della faccenda, è opportuno notare che –
proprio in virtù del ruolo di avanguardia giocato dall’Europa nei
processi di finanziarizzazione – alla vigilia della crisi (ma lo stesso è
vero anche oggi) il sistema bancario europeo si presentava molto più
grande di quello americano. Tanto per farsi un’idea: a fine
2007, tra i primi venti gruppi bancari del mondo per volume degli
attivi, ben quattordici erano europei e solo tre erano americani.
In totale, alla vigilia della crisi finanziaria, gli istituti
finanziari europei (esclusi quelli svizzeri) – settemila in tutto –
detenevano attivi per 37,7 trilioni di euro, pari quasi al 300 per cento
del PIL dell’Unione. Di questi, 20 trilioni – pari al 150 per cento del
PIL dell’UE – erano in mano a dieci mega-banche (con attivi equivalenti
a una grossa fetta del PIL dei rispettivi paesi). Per contro, gli
attivi totali del sistema bancario americano ammontavano “solo” al 78
per cento del PIL.
Se prendiamo la cosiddetta “leva
finanziaria” – cioè il rapporto tra capitali propri e capitali presi a
prestito – come misura della propensione al rischio e alla speculazione
finanziaria di una certa banca, risulta evidente che le banche
europee, lungi dall’essere delle vittime collaterali dei malaffari delle
banche americane, erano dedite esattamente alle stesse pratiche ad
altissimo rischio sistemico (e al limite della legalità) delle
loro controparti d’oltreoceano. E spesso su scala ancora maggiore. Se
Lehman Brothers e Bank of America – due delle banche al centro della
crisi dei subprime – registravano alla vigilia della crisi
rispettivamente una leva di 31:1 e 11:1, in Europea ING registrava una
leva di 49:1, Deutsche Bank di 53:1 e Barclays – che risultava essere la
banca più indebitata al mondo – addirittura di 61:1. Questo giusto per
farsi un’idea di quanto sia fallace l’idea che esista una “cattiva” finanza americana e una “buona” finanza europea.
Dicevamo che in Europa abbiamo visto delle dinamiche simili alla crisi dei subprime USA. Ecco, sostanzialmente potremmo dire che se negli USA le banche si concentrarono su cittadini subprime, in Europa le banche si concentrarono su paesi subprime.
Con l’introduzione dell’euro abbiamo assistito ad un’esplosione dei
flussi finanziari transfrontalieri. In pratica, enormi flussi di
capitale si sono riversati dai paesi del centro (come Francia e
Germania) verso quelli della periferia, alla ricerca di margini di
profitto più alti di quelli che potevano ottenere in patria. Nella
maggior parte dei casi, questi flussi si sono riversati verso altre
banche – contribuendo all’aumento dell’indebitamento privato dei paesi
della periferia – ma in alcuni casi si sono riversati anche in
titoli di Stato, come in Grecia, favorendo invece l’aumento
dell’indebitamento pubblico. Questo ha contribuito ad
alimentare enormi bolle speculative in paesi come Irlanda, Spagna e
Grecia, che a loro volta sono all’origine degli altrettanto enormi
squilibri di partite correnti generatisi in seguito all’introduzione
dell’euro. In tutti i casi, comunque, l’aumento dei livelli di
indebitamento – sia privato che pubblico – nel periodo antecedente alla
crisi può essere ricondotto alla creazione e all’architettura
ultra-finanziarizzata dell’unione monetaria, come ha riconosciuto lo
stesso vicepresidente della BCE Vítor Constâncio.
Uno potrebbe dire: ma le banche non si
rendevano conto di correre dei rischi a prestare grandi quantità di
denaro alle banche e ai governi di paesi politicamente poco affidabili e
strutturalmente piuttosto deboli? La risposta, di cui troviamo conferma
nelle dichiarazioni di diversi banchieri europei, è che no, non
pensavano di correre dei rischi perché erano sicuri che in caso di
crisi le istituzioni pubbliche sarebbero intervenute per salvarle. E così è stato:
secondo un rapporto della Commissione Europea, tra ottobre 2008 e
ottobre 2010 la Commissione stessa ha approvato 4.600 miliardi di euro
di aiuti di Stato in favore delle istituzioni finanziarie da parte di
paesi UE, equivalenti al 37 per cento del PIL dell’Unione. Quattro paesi
hanno presentato programmi di aiuti alle banche che vanno dai 600
miliardi della Germania agli 850 del Regno Unito (che nel 2008 ha anche
parzialmente nazionalizzato due banche, la Royal Bank of Scotland e la
Lloyd Banking Group). I programmi di altri quattro paesi variavano tra i
320 miliardi dell’Olanda e i 350 della Francia. L’ammontare del
sostegno pubblico effettivamente utilizzato dalle istituzioni
finanziarie è stato di 960 miliardi di euro nel 2008 e 1100 miliardi nel
2009: oltre 2000 miliardi di euro in soli due anni.
Ovviamente questi salvataggi non hanno solo riguardato le banche dei paesi coinvolti:
indirettamente hanno riguardato anche le banche creditrici, ossia le
banche dei paesi del centro – Germania e Francia – che si erano
indebitate nei confronti delle banche (e nel caso della Grecia del
governo) della periferia. Salvando le banche della periferia i governi di quei paesi hanno indirettamente salvato le banche dei paesi del centro.
Questi salvataggi sono ovviamente all’origine dell’esplosione dei
livelli di deficit e di debito pubblico a cui abbiamo assistito dal 2009
in poi, che è stato poi utilizzato – in un’operazione di propaganda
francamente vergognosa – per trasformare una crisi finanziaria e
del debito privato in una crisi del debito pubblico e delle finanze
pubbliche, giustificando così l’imposizione di quelle violentissime
misure di austerità che sono all’origine della profondissima
crisi sociale ed economica in cui versa l’Europa (e in particolare i
paesi della periferia).
Ma non è finita qui. Come è noto,
l’effetto dei salvataggi bancari – e più in generale della crisi
economica – sulle finanze pubbliche di questi paesi è stato così
devastante che di lì a poco, dopo la Grecia, anche Irlanda, Portogallo e
Spagna si sono visti costretti a chiedere “aiuto” alla troika. Anche in questo caso, però, emerge che il
grosso dei soldi è stato utilizzato per permettere alle banche della
periferia (e nel caso della Grecia, allo Stato) di onorare gli impegni
con le banche creditrici, in gran parte banche tedesche e
francesi, non per risanare i buchi di bilancio. Di fatto, si è trattato
di un doppio salvataggio a favore delle banche creditrici (triplo se
includiamo anche il modo in cui il sistema TARGET2 della BCE ha permesso
alle banche del centro di rientrare di una parte dei loro debiti nei
confronti delle banche della periferia). Agli interventi statali a
sostegno delle banche bisogna poi aggiungere il sostegno della BCE, che
di fatto si è attivata per offrire una fonte illimitata di liquidità
alle banche della zona euro.
Per concludere, potremmo dire che, di
fronte di una crisi dettata da un’eccessiva finanziarizzazione
dell’economia, le autorità pubbliche hanno sostanzialmente scelto di
accelerare ancora di più nel siffatto processo di finanziarizzazione.
L’Europa è un esempio lampante: da un lato abbiamo avuto misure di
austerità feroce per i governi e per “l’economia reale” – che hanno
accelerato processi di deindustrializzazione già in corso – mentre
dall’altro abbiamo visto le autorità nazionali e sovranazionali fare di
tutto di tutti per rilanciare i processi di accumulazione finanziaria,
senza perseguire praticamente alcuna riforma fondamentale del sistema
bancario. Non è dunque esagerato affermare che la crisi in
Europa è stata utilizzata soprattutto per approfondire e “portare a
termine”, per così dire, il processo di neoliberalizzazione e di
finanziarizzazione dell’economia, di cui oggi paghiamo le conseguenze in termini economici e politici.
Rielaborazione di una relazione
tenuta in occasione dell’incontro su “Il sistema bancario europeo e la
crisi” organizzato da Rethinking Economics Bologna all’Università di
Bologna il 9 marzo 2017.
Pubblicato da Eunews il 13/3/2017
Nessun commento:
Posta un commento