La crisi economica ha riaperto la questione del rapporto tra
matematica ed economia. La teoria mainstream ha fondato l’“equilibrio
del sistema” su complesse costruzioni matematiche. Ma è incappata in
clamorosi scivoloni: l’economia, infatti, non è una scienza esatta, ma
una scienza storico-sociale.
di Roberto Petrini da keynesblog
Nel giugno del 2000 un gruppo di studenti di economia pubblicò sul
web una petizione. I capi d’accusa che il documento formulava contro il
modello di insegnamento dell’economia erano due: a) l’assenza di
realismo; b) l’uso incontrollato e fine a se stesso della matematica. Il
risultato – scrivevano gli studenti – era che l’economia stava correndo
il rischio di diventare una scienza «autistica»: di qui l’esigenza
impellente di bloccare questa nefasta tendenza. Da quell’appello nacque
un vero e proprio movimento dal nome suggestivo ed evocativo:
«Autisme-Economie».
Ma non sono solo gli studenti a denunciare il disagio dell’eccesso di
matematizzazione dell’economia: già nel settembre del 1988, in una
lettera a “Repubblica”, i maggiori economisti italiani lanciarono un
severo ammonimento: “Economisti di varia tendenza e provenienza”,
scrissero Paolo Sylos Labini, Giorgio Fuà, Giacomo Becattini, Onorato
Castellino, Sergio Ricossa, Siro Lombardini e Orlando D’Alauro, “sentono
il dovere di prendere pubblicamente posizione contro un pericolo che
insidia gli studi di economia politica” ossia “che l’uso di strumenti
raffinati di analisi venga scambiato, a prescindere dai contenuti, per
una prova di maturità e competenza professionale o, peggio ancora, per
il segno di riconoscimento del moderno studioso di economia
politica”.[1]
Anni fa Paolo Sylos Labini puntò l’indice contro le «formalizzazioni
astratte, eleganti ma inadatte ad interpretare la realtà».[2] Giorgio
Fuà non si stancava mai di parlare delle «insidie dei numeri». «Grandi
maestri del gioco del bridge, grandi maestri del gioco degli scacchi,
hanno dimostrato capacità e destrezze straordinarie», diceva Fuà,
riecheggiando più o meno le stesse opinioni di Sylos. «Ma un grande
scacchista, mi chiedo, migliora il mondo? No, fa semplicemente vedere
quanto è intelligente. La maggior parte degli economisti non si occupa
di problemi gravi per l’umanità e per la società, ma di cose che danno
loro il modo di dimostrare la propria destrezza».[3]
Nonostante questi moniti, gli economisti hanno continuato ad usare
dosi massicce di matematica. Secondo un calcolo svolto qualche tempo fa,
l’incidenza dell’algebra negli articoli delle principali riviste, che
negli Anni Trenta era del 10 per cento, nel 1980 era salita all’80 per
cento. Oggi siamo senz’altro a livelli superiori.[4]
Perché una minoranza assai qualificata di economisti non si stanca di
mettere in guardia la disciplina da un uso eccessivo della matematica?
In realtà è evidente come lo scetticismo di molti economisti nei
confronti della “overdose dei numeri” non si basi su una scarsa
considerazione della matematica in quanto scienza, dei suoi risultati, o
addirittura su una antipatia nei confronti dei matematici. Il problema
fondamentale è un altro e sta nell’uso che la scienza economica, a
partire dalla fine dell’Ottocento, ha fatto della matematica. Nello
specifico – e non a torto – nel mirino c’è il pensiero economico
mainstream fautore del libero mercato e particolarmente sedotto dalla
matematica.
Come riscostruiscono assai bene ne “La mano invisibile”, Bruna Ingrao
e Giorgio Israel[5], la matematica – non la semplice algebra ma quella
un po’ più complessa del calcolo infinitesimale, cioè degli assi
cartesiani e delle derivate – entra alla grande nell’economia verso la
metà dell’Ottocento. Sono i marginalisti – a partire da Léon Walras
(1834-1910) – che di fronte ai tumulti sociali e alle teorie dei Marx e
dei Proudhon, cercano di offrire una alternativa “scientificamente”
fondata dell’economia.
Quale strumento appare più “scientifico” della matematica? L’idea di
base dei marginalisti è che il mondo economico sia regolato dalle leggi
di natura e che allo “scienziato”, cioè all’economista, spetti il
compito di scoprirle. Al centro del sistema c’è il consumatore, le sue
preferenze e il mercato come meccanismo equilibratore tra domanda e
offerta. Secondo i marginalisti il prezzo e il valore di un bene non
scaturiscono da elementi «oggettivi» come la quantità di lavoro o i
costi (come avveniva nell’economia classica), ma si fondano sull’aspetto
«soggettivo» del valore d’uso. Il criterio che consente di misurare la
«temperatura» delle preferenze del consumatore e del valore d’uso che
egli attribuisce ad un bene, è l’utilità marginale che si calcola
attraverso una funzione matematica. [6]
Del resto vale la pena notare che il concetto stesso di utilità
marginale è stato tenuto a battesimo da un autorevole matematico, Daniel
Bernoulli (1700-1782)[7]. Egli assume che la crescita della ricchezza
individuale sia accompagnata da una crescita dell’utilità inversamente
proporzionale alla ricchezza già posseduta, cioè fa ricorso ad un caso
specifico dell’utilità marginale decrescente.[8]
Così descrive il metodo della scuola marginalista Federico Caffè:
secondo l’indirizzo dell’equilibrio economico generale «date certe
quantità iniziali di risorse produttive, data una certa tecnica di
produzione, dato il sistema di preferenze dei soggetti economici, si
mira a determinare la quantità di beni prodotti e scambiati, nonché i
prezzi ai quali avvengono gli scambi, in una configurazione di
equilibrio generale, nella quale sono realizzate simultaneamente le
posizioni di equilibrio verso le quali tendono i vari soggetti
economici». Caffè continua spiegando che i seguaci di questo indirizzo
«nell’intento di rappresentare in modo simultaneo tutte le
interdipendenze tra i fenomeni economici studiati, debbono
necessariamente avvalersi del simbolismo matematico, che
contraddistingue in modo specifico l’indirizzo stesso».[9]
Naturalmente l’impostazione marginalista-neoclassica, come è stato
più volte osservato e sottolineato, ritiene che i lavoratori siano
disposti ad accettare qualsiasi salario pur di ottenere un impiego e
nega il conflitto distributivo – grande intuizione dell’economia
classica – data l’esistenza di equilibri ottimali verso i quali il
mercato indirizza automaticamente l’economia.
Tuttavia se si cerca di andare più a fondo nell’analisi del rapporto
dell’economia con la matematica si scopre che il tema cruciale è di
carattere epistemologico o, se vogliamo, di filosofia della scienza.
L’economia, diversamente da altre scienze esatte, deve inevitabilmente
interrogarsi sul tipo di razionalità che muove il consumatore,
l’imprenditore o il risparmiatore (mentre, ad esempio, la fisica può
ignorare la “psicologia” di un elettrone). Il processo dell’economia è
una macchina in perenne movimento e gli operatori economici fanno scelte
in continuazione: di conseguenza è fondamentale conoscere che
percezione abbiano del futuro e come la elaborano. Sapere a quali
dinamiche rispondano condizioni come quella della completa ignoranza,
dell’incertezza o del semplice rischio.
L’incrocio più profondo dell’economia con la matematica, che con il
calcolo delle probabilità ha tentato di dare indicazioni sugli eventi
futuri, avviene proprio su questo terreno.
Vale la pena ricordare che per le teorie settecentesche della
probabilità, quella classica di Jacques Bernoulli e quella frequentista
di Gauss, quanto è accaduto nel passato può ripetersi e la “frequenza”
di un avvenimento può darci indicazioni su quanto accadrà nel futuro. In
questa cornice il “rischio”, inteso come qualcosa di oggettivo e
misurabile, può essere calcolato in termini di probabilità (dadi,
estrazioni del lotto, roulette, ecc.).
Negli Anni Trenta del Novecento – con Ramsey e De Finetti – si fa un
passo in avanti: non solo il rischio oggettivo diventa calcolabile, ma
anche l’incertezza. Quest’ultima viene assimilata al rischio, rendendola
trattabile matematicamente attribuendo valutazioni di probabilità a
ciascun evento possibile. L’estensione alla teoria economica di questa
concezione è stata compiuta da von Neumann e Morgenstern: per costoro
ciascun individuo, oltre ad un suo schema di preferenze, ha anche
specifiche aspettative sul futuro organizzate in uno schema
coerente[10].
Come si possono dare indicazioni sul futuro partendo da valutazioni
soggettive e non più meramente oggettive? Per riuscire a valutare, oltre
al più semplice rischio, anche l’incertezza bisogna prendere in
considerazione le previsioni che i soggetti o gli operatori possono fare
autonomamente su eventi o prezzi, marcandole sul mercato delle
scommesse o, per esempio, sui mercati finanziari. Il “mercato” delle
previsioni dei vari soggetti consente di attribuire a ciascun evento un
coefficiente di probabilità e rende possibili previsioni su eventi
incerti[11].
E’ evidente come l’approccio che conduce ad una certa prevedibilità
degli eventi coincida con l’idea di una forte razionalità degli
operatori economici. Perfetta razionalità e perfetta concorrenza
presiedono ad un mondo di equilibrio statico dove il bene comune
verrebbe assicurato da un regime di liberi mercati concorrenziali grazie
all’intervento di una mano invisibile.[12] Le variazioni intorno alla
situazione “normale” non sono altro – per il mainstream - che
variazioni cicliche intorno ad una condizione “naturale”.
Eppure le ripetute crisi che hanno sconvolto il sistema capitalistico
nei due secoli che abbiamo alle spalle dimostrano che l’economia è
tutt’altro che stabile e tutt’altro che prevedibile perché gli operatori
economici, lungi dal vivere in un mondo di rischio probabilistico
calcolabile, vivono in un mondo di disarmante incertezza.
E’ sostanzialmente la tesi di John Maynard Keynes che scrisse un
«Trattato sulla probabilità» nel 1931 e che vi iniziò a lavorare fin
dalla sua dissertazione per ottenere una fellowship al King’s College di
Cambridge nel 1908. Per Keynes – come argomenta Alessandro
Roncaglia[13] -sostanzialmente ci si trova tra uno stato di assoluta
ignoranza e la completa certezza (che include anche il rischio
probabilistico), ma l’incertezza parziale costituisce la stragrande
maggioranza delle situazioni concrete. Il futuro è dunque sempre pieno
di sorprese, i periodi di tranquillità non durano in eterno. Nella
impostazione di Keynes contano valutazioni soggettive fondate
sull’esperienza e intuizioni personali che sono segnate anche dalla
fiducia che chi fa una previsione ha nel proprio intuito.
La razionalità degli attori economici e finanziari sembra assai
limitata e condizionata anche dall’effetto-gregge ben evidente quando si
tenta di intuire la psicologia del mercato. “L’investimento
professionale – scrive Keynes – può essere paragonato a quei concorsi
dei giornali, nei quali i concorrenti devono scegliere i sei volti più
graziosi fra un centinaio di fotografie, e nei quali vince il premio il
concorrente che si è più avvicinato, con la sua scelta, alla media fra
tutte le risposte; cosicché ciascun concorrente deve scegliere, non quei
volti che egli ritenga più graziosi, ma quelli che ritiene più
probabile attirino i gusti degli altri concorrenti, i quali a loro volta
affrontano tutti quanti il problema dallo stesso punto di vista”.[14]
La recente crisi economica, scoppiata nell’estate del 2007 negli
Stati Uniti e rimbalzata nel 2009-2012 in Europa, ha riaperto la
questione del rapporto tra matematica ed economia. Sostanzialmente sui
due fronti ai quali abbiamo accennato: l’equilibrio del sistema e la
previsione del futuro. Su entrambi i fronti il pensiero mainstream, che
poggia fortemente su assunzioni di carattere matematico, è incappato in
clamorosi scivoloni. Secondo Robert Lucas e la scuola di Chicago – che
si espresse nella metà del decennio scorso – il sistema doveva andare
incontro ad una Grande Moderazione ma così non è stato. I modelli
econometrici Dsge, dynamic stochastic general equilibrium models,
che incorporano molto dell’economia mainstream e non considerano il
debito, hanno mancato clamorosamente le previsioni. Le equazioni di
Merton e Scholes per prevedere l’andamento dei mercati finanziari,
basate sostanzialmente sulla regolarità di quanto avvenuto nel passato,
non sono servite ad evitare le clamorose perdite dei grandi gestori di
capitali.
La cifra del capitalismo sembra sempre di più quella della
instabilità: più che compiacersi di una “formula magica” in grado di
spiegare definitivamente l’economia bisognerà essere pronti a
rimboccarsi le maniche tenendo in debito conto che l’economia non è una
scienza esatta ma bensì una scienza storico-sociale.
Intervento tenuto al convegno “Matematica e economia: presente e
futuro” (Luspio, Laboratorio di scienze matematiche, Roma 14-15
settembre 2012)
NOTE
[1] G.Becattini, O.Castellino, O. D’Alauro, G.Fuà, S.Lombardini, S. Ricossa, P. Sylos Labini, Lettera al Direttore, “La Repubblica”, 30 settembre 1988.
[2] P.Sylos Labini, Un paese a civiltà limitata (intervista a cura di Roberto Petrini), Laterza, Roma-Bari 2001, p.72
[3] Cfr. G.Fuà, Uomini e leader, Centro studi Piero Calamandrei, Jesi 2000 (intervista a cura di Roberto Petrini). Fuà riecheggiava una frase di Richard Kahn.
[4] S.C.Dow, The use of mathematics in economics, Esrc – Public understanding of mathematics seminar, Birmingham, maggio 1999
[5] Cfr. B.Ingrao, G.Israel, La mano invisibile, Laterza, Roma-Bari, 1987
[6] Cfr. R.Petrini, Processo agli economisti, Chiarelettere, Milano 2009
[7] Membro della famiglia svizzera di matematici Bernoulli e nipote di Jacob o Jacques Bernoulli (1654-1705) autore di Ars conjectandi
[8] Crf. A.Roncaglia, La ricchezza delle idee, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 303
[9] F.Caffè, Lezioni di politica economica, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, p.21
[10] Sul tema cfr. A.Roncaglia, Economisti che sbagliano, Laterza, Roma-Bari 2010 e A.Roncaglia, Le origini culturali della crisi, Moneta e credito, vol. 63 n.250 (2010), 107-118
[11] Ibidem
[12] H.Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p.28
[13] A.Roncaglia, Economisti che sbagliano, op. cit.,p.65
[14] J.M.Keynes, Teoria generale, Utet, Torino, 1978, p. 316
da Micromega online
lunedì 5 novembre 2012
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