venerdì 30 novembre 2012

Rodotà: “Libertà e diritti non sono negoziabili”

I casi Ilva e Fiat, i partiti e la politica, Berlinguer e Croce, libertà e democrazia. Di tutto questo e altro ancora parla Stefano Rodotà, di cui è appena uscito il nuovo saggio “Il diritto di avere diritti” (Laterza). Richiamandosi alla "straordinaria forza e attualità della Costituzione italiana", il giurista rifiuta l’emergenza permanente, perché i diritti – ci ricorda – a partire da quello alla salute, non possono essere sacrificati impunemente alla logica di mercato.

colloquio con Stefano Rodotà di Rossella Guadagnini da Micromega

In un Paese in cui “le disuguaglianze sono divenute ormai insopportabili” e dunque vige la legge del più forte o, a seconda, del più preminente, del più affluente, del più ammanicato, che significa garantire a tutti gli stessi diritti? Lo abbiamo chiesto a Stefano Rodotà, costituzionalista, professore emerito di Diritto civile all’università La Sapienza di Roma, tra gli autori della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali e del Gruppo europeo per la tutela della privacy, deputato indipendente nelle liste del Pci e Pds, vicepresidente della Camera, oggi autore di un saggio per Laterza, da poco in libreria, significativamente intitolato con un’espressione di Piero Calamandrei “Il diritto di avere diritti” (pagg. 433, euro 20). Richiamandosi alla Costituzione italiana, Rodotà ci risponde che “la libertà non è negoziabile, così come avviene per i diritti”. Sono, i nostri, anni di “grande riduzionismo” in cui si sente il bisogno diffuso di avere dei “grandi principi di riferimento”.

Professor Rodotà ritiene che oggi, passato il ventennio berlusconiano, ci sia un’opportunità in più per aprire una nuova stagione all’insegna dei diritti e dei beni comuni?
Dovrebbe esserci, ma non ne sono particolarmente sicuro. In questi anni in materia di diritti abbiamo vissuto una regressione politica e culturale molto forte, una distanza grandissima tra ceto politico e società. Se paragono gli Anni Settanta a oggi, il bilancio è magro. Allora ci fu una grande affermazione dei diritti civili: del 1970 e degli anni seguenti sono lo statuto dei lavoratori, la legge sul referendum, l’istituzione delle regioni, le nuove norme sulla tutela della libertà personale. Poi c’è stata la riforma del diritto di famiglia, la parità uomo-donna, l’interruzione di gravidanza, la legge Basaglia sui manicomi, la legge Gozzini sulle carceri.

E oggi?
Oggi siamo veramente in un altro clima, in un’altra dimensione. Allora la legislazione italiana su alcuni punti era la più avanzata d’Europa. Ora siamo non solo fanalino di coda, ma lontani culturalmente. La fine delle ideologie ha portato solo alla prevalenza assoluta del mercato. Di fronte a questo mondo ‘a una sola dimensione’ il contrappeso, il contropotere, è unicamente quello che viene dalla forza dei diritti. La più grande fabbrica del mondo si trova in questo momento in Cina, la Foxconn, che produce componenti della Apple: lì hanno scioperato per avere un miglioramento delle condizioni di lavoro, cosa impensabile fino a poco tempo fa in quel Paese. Segni di questo genere ce ne sono ovunque nel mondo: quindi abbiamo, da una parte, la prevalenza della logica di mercato, dall’altra parte, quella dei diritti. I diritti tuttavia non possono essere sacrificati senza avere ricadute sul terreno economico.

Ad esempio?Il caso dell’Ilva di Taranto è la dimostrazione, in casa nostra, di quanto dico: per anni sono stati trascurati i diritti di lavoratori e cittadini, come il diritto alla salute. Adesso tutto ciò sta portando a una crisi economica drammatica dell’azienda. Non si possono scindere diritti e governo dell’economia. Spero in una ripresa della politica dei diritti, ma non sono così ottimista. Anche perché la politica, per guadagnarsi un sostegno, si è fatta fortemente condizionare da un’idea di diritti e non diritti che proveniva dalla pressione delle gerarchie ecclesiastiche. Un’influenza esercitata non da tutto il mondo cattolico, beninteso, di cui una parte cospicua si è invece resa conto dell’importanza dei diritti, ma direi soprattutto dalle gerarchie vaticane, specie in materia di fine vita, procreazione assistita e rispetto dei diritti degli omosessuali. Mi auguro che questa fase sia ormai superata.

Lei parla, nel suo libro, di un possibile avvento di una democrazia su base “censitaria” in termini di rischio: che significa? Vuol dire che alcuni diritti non ci sono riconosciuti nella loro pienezza perché appartenenti a ognuno, ma sono accessibili soltanto a chi ha le risorse per poterli far diventare effettivi. Se, come ha lasciato intendere il premier Mario Monti pur correggendo in seguito l’affermazione, si dovesse andare in futuro verso forme di privatizzazione del servizio sanitario nazionale, è chiaro che il costo dei servizi crescerebbe per i cittadini, con la conseguenza che io avrò tanta salute quanto potrò comprarmene sul mercato. Questa direzione sarebbe all’opposto di quanto afferma l’articolo 32 della Costituzione, laddove si dice che la salute è un diritto fondamentale del cittadino. Si romperebbe lo schema indicato dal principio di uguaglianza. I miei diritti saranno misurati non dal riconoscimento della mia dignità, del mio essere persona uguale a tutte le altre, ma in base alle mie risorse. Cittadinanza censitaria è un’espressione che si usava nell’Ottocento, quando votavano solo gli uomini e, tra loro, soltanto quelli che avevano un reddito superiore a una certa cifra.

Come si stabiliscono i diritti?Se torniamo a misurare i diritti non sulla libertà e sull’uguaglianza, ma col censo e in base al denaro, noi torniamo alla democrazia censitaria appunto. E, così facendo, andremmo anche contro una tendenza globale. La campagna elettorale americana è stata fortemente giocata proprio intorno al tema della riforma sanitaria di Obama, che ha cercato di dare una tutela al diritto alla salute per milioni di persone, che ne erano rimaste – fino a quel momento – escluse. Il tema dei diritti è capitale ovunque esiste la necessità di far uscire le persone da una condizione di minorità.

Tempo di crisi. L’agenda Monti per affrontare l’emergenza è – a detta di molti – un’agenda di cose da fare, da affidare così com’è al prossimo governo. Se la cosiddetta ‘agenda Monti’ è null’altro che prosecuzione di quello che è stato fatto per superare l’emergenza, allora non credo che ci avviamo verso una stagione politica particolarmente promettente. Non possiamo vivere all’insegna dell’emergenza continua e dell’esistenza dei soli problemi economici. I diritti, come nel caso menzionato dell’Ilva, non possono essere sacrificati impunemente senza creare tensioni sociali molto pericolose. In questa situazione si dice continuamente che una delle vie d’uscita è “avere più Europa”, e sono assolutamente d’accordo. Tuttavia l’Europa non è soltanto l’economia. Dal 2009, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’Europa non è più fatta soltanto di norme che riguardano il mercato, ma ha – allo stesso titolo e col medesimo rango – una Carta dei diritti fondamentali.

Perché questa Carta è importante?
Nell’ultimo periodo, c’è stato un distacco e in alcuni casi un vero e proprio rifiuto dell’Europa. Per molti Paesi, infatti – l’Italia è tra questi – Bruxelles è diventata la ‘fonte dei sacrifici’. Ciò che arriva dall’Europa è percepito come obbedienza a una logica economica che restringe opportunità e diritti dei cittadini. In tal modo, il popolo europeo si allontana sempre più dalle sue istituzioni e si rischia non solo una crisi dal punto di vista economico, ma anche da quello della legittimità democratica. Un’Unione Europea può avere il consenso dei cittadini se i cittadini vedono che in essa c’è un valore aggiunto proveniente dai diritti. Lo testimoniano molte sentenze di corti europee e di corti costituzionali nazionali che hanno preso sul serio la Carta. Se i cittadini cominciassero a vedere che l’Europa porta loro nuove opportunità di tutela dei diritti, la spirale negativa cominciata in questi ultimi anni forse potrebbe essere interrotta.

Come mai si sente oggi la necessità di rimettere la Costituzione al centro dell’attenzione? La Costituzione ha, specie nella sua prima parte, una straordinaria forza, eloquenza e attualità, tanto più oggi di fronte al fatto che le nostre società sono diventate sempre più disuguali. Ai tempi di Vittorio Valletta, amministratore delegato della Fiat, la differenza tra il suo stipendio e quello di un operaio era di uno a quindici. Oggi il rapporto tra lo stipendio dell’operaio Fiat e quello di Sergio Marchionne è di uno a quattrocentotrentacinque. Quindi le disuguaglianze sono diventate enormi e insopportabili economicamente e socialmente. Ed ecco che ritorna il principio di dignità e uguaglianza. Il problema di sicurezza e dignità della persona sul lavoro dimostra che la Costituzione – come diceva Calamandrei – è ‘presbite’, ossia capace di guardare lontano. Si dice, ad esempio, che i partiti dovrebbero tornare a essere uno strumento nelle mani dei cittadini e non delle oligarchie: allora leggiamo l’articolo 49 dove si sostiene che tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente per partecipare con metodo democratico alla definizione della vita politica nazionale. Lì era scritta un’idea di partito che, in questi anni, è stata completamente stravolta.

Allora occorre tornare a leggere la Costituzione?Sì. Vi troveremo tutta una serie di indicazioni che ci aiutano ad affrontare con principi forti le difficoltà odierne. Parlando di lavoro, forse l’articolo più bello, che non dovremmo mai perdere di vista, è proprio l’articolo 36, laddove si dice che la retribuzione deve assicurare al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa”: sono parole bellissime. L’esistenza deve essere libera e dignitosa, non può essere sempre e soltanto subordinata alla logica economica, come quando si afferma “io ti do soltanto il minimo che ti fa sopravvivere biologicamente”: questo umilia le persone. Per tale ragione oggi il tema del lavoro è diventato capitale.

Però il dettato costituzionale, anche in tema di lavoro, viene spesso disatteso. Una diagnosi di perché questo accada non è facile. Certo è che organizzare l’economia intorno al riconoscimento dei diritti del lavoro, della considerazione che il lavoro non è una merce che debbo poter comprare sul mercato al prezzo più basso possibile, implica scelte di carattere generale molto impegnative. Nei momenti in cui c’è una reale difficoltà economica, come ora, si è sempre pensato che occorresse ridurre il costo del lavoro. Poi ci siamo accorti che c’era scarsa capacità imprenditoriale, che c’erano diseconomie molto forti, una corruzione che significava costi più elevati in quanto costituiva un aggravio per il sistema delle imprese. Allora abbiamo visto il lavoro come l’unica variabile che poteva essere ‘colpita’… Non l’evasione fiscale, non la corruzione. L’elevato costo del lavoro è anche il risultato di reperire risorse attraverso la tassazione di ciò che è più facile colpire, ossia il lavoro dipendente, invece di fare un’azione adeguata contro l’evasione fiscale e il lavoro nero. Entrambi i fenomeni sono stati – ormai lo sappiamo e ce lo ricordano di continuo le cifre della Corte dei Conti – una riserva oscura non per il benessere del Paese, ma per il profitto di pochi. Il lavoro ha finito per venire sacrificato in un quadro nel quale sono stati ritenuti prevalenti altri tipi di interesse.

Quanto conta oggi la società civile, che ascolto ha? Difficile dirlo. In alcuni momenti abbiamo l’impressione che conti molto. Adesso si dice “c’è un risveglio”, 3 milioni e mezzo di persone sono andate a votare per le primarie del centrosinistra, ci sono manifestazioni – che personalmente non mi piacciono affatto – e che hanno fatto capo a Beppe Grillo, c’è gente che si mobilita fuori dai canali tradizionali. C’è, insomma, una società capace di esprimersi. Questo in parte è vero. Ma prima non è che ci fosse una società civile opaca… Abbiamo vissuto una lunga fase in cui la società civile riusciva a esprimersi attraverso la mediazione non al ribasso fatta dai partiti. Non a caso si parlava di ‘partiti di massa’. Mentre oggi noi parliamo di ‘partiti oligarchici, di plastica, partiti-azienda e partiti leggeri’. Il che vuol dire che questi partiti sono più oligarchia, più organizzazione su modello manageriale (ricordo il caso del ‘marketing politico’). Tutto questo ha determinato l’esclusione dei cittadini, che poi magari imboccano strade non tra le più felici. Questo crea, da un lato, una distorsione e, dall’altro, reazioni della società civile che possono avere ‘effetti distorsivi’.

Che rapporto c’è tra società civile e politica? Un rapporto basato su un equivoco di fondo, secondo cui tutto quello che c’è nella società civile è bello e buono, e tutto quello che c’è nella società chiamiamola ‘politica’ è male. Questo ha determinato effetti negativi, perché in questi anni abbiamo avuto una caduta della cultura politica in senso proprio, cioè della capacità di fare politica al più alto livello. Sono arrivate in Parlamento troppe persone che non erano in grado di fare questo mestiere, un mestiere difficile che si deve imparare in maniera adeguata. Di fronte a questa incapacità sono venuti fuori i tecnici. Allora la società civile, che è stata esaltata – giustamente – come soggetto che deve avere voce in capitolo, ha finito per essere santificata anche nelle sue manifestazioni meno positive. Ogni cosa che proveniva dalla società civile era buona, salvo accorgersi poi che non era così, con i risultati che abbiamo sotto gli occhi.

A sinistra del Pd c’è spazio, a suo avviso, per una nuova formazione politica? In proposito ho un’opinione molto netta. Quando è stato avviato il movimento di Alba (acronimo per Alleanza per il Lavoro Beni comuni e Ambiente, ndr.), ho detto che c’era molto spazio per l’azione politica e molti rischi legati alla fretta di far diventare l’associazione una lista elettorale. Ritengo che ci sia stata, e spero che non sia del tutto perduta, una spinta – soprattutto dalla seconda metà 2010 alla prima metà del 2011– che ha portato a risultati importanti nella primavera 2011, con tutta una nuova generazione di sindaci, non espressione unica e diretta dei partiti, ma del grande dibattito della società civile. Stessa valutazione riguardo ai referendum del giugno del 2011, in particolare quello sull’acqua originato da un grande movimento sviluppatosi negli anni precedenti. Credo che esista, indipendente da dove la collochiamo rispetto al Pd, a sinistra a destra in alto o in basso, una grande capacità di elaborazione politica e culturale nella società italiana, perché quei movimenti sono riusciti a cambiare l’agenda politica. Se poi questo possa tradursi in un successo elettorale nelle elezioni del 2013 ho i miei dubbi.

E quindi? In questo momento penso che noi dovremmo – e mi rivolgo soprattutto a chi stimo e alle persone di Alba con cui continuo ad avere rapporti – piuttosto proseguire in quella direzione e insistere in quella linea di elaborazione di idee e cambiamento anche dei referenti, senza generiche contrapposizioni. Perché poi, per riprendere l’esempio dei nuovi sindaci, alcuni di loro sono venuti fuori dall’esperienza dei movimenti, altri invece dalle organizzazioni dei partiti. Quindi la contrapposizione frontale non è detto che dia sempre risultati positivi, dipende da cosa c’è dietro, dalla capacità di elaborazione e anche di trovare collegamenti. Questa non è una critica che rivolgo soltanto ai movimenti. Il Pd, ad esempio, non si è reso conto dell’importanza che i movimenti avevano avuto in quella stagione e non li ha presi sul serio. Mi pare sia stato un errore politico. Oggi vedo una situazione in movimento, una difficoltà a tradurre tutto questo in nuove forme organizzative che possano avere successo elettorale e vedo, nello stesso tempo, le difficoltà della sinistra tradizionale.

Si parla molto della costituzione di un quarto polo: sogno o realtà? Io non riesco a usare né l’uno, né l’altro termine. C’è un dato di realtà indubbio: tutto questo mondo ha avuto risultati politici che non si possono negare. Quei sindaci non sarebbero stati eletti senza quel tipo di movimento alle spalle. I referendum hanno mobilitato 27 milioni di persone, ma è un po’ un’illusione ritenere che quei 27 milioni di persone sposterebbero il loro consenso su formazioni minoritarie, a sinistra della sinistra, come quelle di cui stiamo parlando. Uno sbaglio commesso in passato dai Radicali, che hanno pensato che il consenso ottenuto nei referendum e nella raccolta delle firme si traducesse in consenso elettorale. E’ assai complicato riuscire a convertire l’azione di movimenti che hanno un obiettivo specifico, ben percepibile e ben al di là dei confini dei partiti, assegnare loro un obiettivo, raggiungerlo, e poi pensare che ciò si traduca in una lista elettorale sostenuta dalla medesime persone.

Quali sono, dunque, i suoi auspici?Mi augurerei che quanto c’è nella sinistra tradizionale, per così dire, venisse recepito con più attenzione e diventasse seriamente parte dell’agenda politica. Se si arrivasse ad avere alcune liste a sinistra della coalizione imperniata sul Pd e poi queste dovessero subire uno scacco, com’è avvenuto nelle ultime elezioni per le liste arcobaleno e verdi, quale sarebbe l’effetto? Di nuovo si direbbe: “voi politicamente non contate nulla”, un risultato che va evitato. Invece, sono convinto che proprio il cambiamento avvenuto in questi anni debba molto a un mondo che non è anchilosato come nella politica tradizionale. Un elemento emblematico è che il Pd ha come suo slogan “Italia. Bene Comune”; è successo in seguito al referendum sull’acqua, bene comune, e il Pd è stato l’unico partito a farne un programma. Se questo slogan viene usato strumentalmente non va bene, ma se dietro continua a esserci un lavoro costante, allora si possono cambiare molte cose.

Lei teme la mancanza di coesione? E’ un rischio effettivo, una questione che dovrebbe interessare chi è già soggetto politico strutturato, quindi il Pd. Finora quest’attenzione ai movimenti non c’è stata o non c’è stata in maniera adeguata. Secondo me, la società civile non è un indistinto generalizzato e dovrebbe costruirsi non per opposizione e invettiva (sul genere di “il Pd succube dell’agenda Monti”, “Vendola traditore”), ma dovrebbe lavorare molto sui temi che debbono riuscire a comporre una nuova agenda politica. Così questo mondo della sinistra potrebbe ritrovare, pur in una diversità difficile da cancellare, delle modalità di organizzazione e di presenza sociale e politica più forti delle odierne. In troppi casi, purtroppo, queste modalità riflettono la storia meno apprezzabile della sinistra, il litigio continuo. Un tempo, nelle vecchie logiche dei partiti comunisti, questo veniva chiamato ‘frazionismo’, ossia un’esasperata ricerca del dato differenziale. Anche se non bisogna andare a cercare spasmodicamente l’unità a qualsiasi prezzo, però che almeno non ci sia una sorta di disconoscimento preventivo dell’interlocutore, sul genere di “con quello io non parlo”, semplicemente perché è sbagliato.

Giovani/vecchi: una contrapposizione che oggi ha un senso? Dal momento che si era costituito un sistema di oligarchie, questa formula ha finito per giocare un ruolo e lo vediamo. Ma, nello stesso tempo, in astratto questa è una contrapposizione insensata, specie a generalizzarla. Personalmente ho fatto due esperienze dirette nel pubblico: come parlamentare e come presidente di un’autorità indipendente. In quest’ultimo caso, fissare un tetto di otto anni all’authority è un bene: serve un ricambio, scandito da regole precise, anche per evitare intrecci di interessi e il pericolo di burocratizzazione. Riguardo al Parlamento, invece, la cosa è diversa, dal momento che il lavoro parlamentare è anche un accumulo di esperienza. Ci sono stato immerso per 15 anni e poi me ne sono andato di mia spontanea volontà. Inoltre, il Parlamento è un luogo rappresentativo: se i cittadini vogliono affidarsi a persona che ha esperienza, perché impedirlo? Nella questione giovani/vecchi un ulteriore problema è rappresentato dal fatto che si vogliono trascinare le carriere al di là dei giusti limiti.

Di cosa è fatta la politica? Di simboli e visioni, come diceva Berlinguer, o di risposte concrete? Di tutte e due. Le risposte concrete che non sono capaci di guardare il contesto rischiano di essere drammaticamente inadeguate. Quanto sento Monti che a una domanda sui malati di Sla, costretti a manifestare esibendo la loro terribile condizione umana, risponde semplicemente che c’è stata una politica economica sbagliata e che pertanto le risorse sono ridotte, non va bene. Non si possono ignorare questi dati concreti. Se governo un Paese e voglio rispettare le persone non posso non distribuire le risorse ignorando simili situazioni. E’ sintomatico di una diversa visione della società: il governo come puro calcolo economico. Le due cose, visioni e azioni politiche devono essere tenute insieme: le grandi visioni politiche si sono poi tradotte in grandi programmi, realizzati almeno in parte.

Dunque che fare?Non mettere visioni e azioni politiche le une contro le altre, in quanto questo autorizza molte cose. Ad esempio dire “Ma quel signore le cose le fa, quindi apprezziamolo indipendentemente da…”: è la logica del “rubo ma faccio”, slogan di un noto senatore brasiliano. Zero visione e tutto fatti. Ridurre la politica a questo significa mortificare la democrazia. Io vorrei che la politica fosse sempre accompagnata da una visione. E’ la ragione per cui ritorna l’attenzione alla Costituzione. I nostri sono anni di grande riduzionismo. Tutto viene ridotto, nella peggiore delle ipotesi a interesse personale, nella migliore a calcolo economico. Mentre si sente il bisogno di avere dei grandi principii di riferimento. La nostra Carta costituzionale è molto eloquente in questa direzione: su alcuni punti come quelli dell’uguaglianza e della salute ha formulazioni ricche e precise. E’ un documento che guarda alla persona e alla sua dignità. Credo che questo bisogno di idealità e principii sia sentito molto fortemente.

Lei parla di una ‘religione della libertà’: di che si tratta? E’ una citazione che ho tratto da Benedetto Croce. Croce vedeva la storia come il risultato di un atteggiamento spirituale, che deve nutrire la politica e portare alla libertà. La libertà è quella che deve essere messa sugli altari da qualsiasi cittadino. Ecco perché mi sono sentito, da laico, di usare quest’espressione che oggi ci può aiutare. La libertà non è negoziabile da nessuno e per essa dobbiamo impegnarci. C’è una canzone partigiana francese che dice “viviamo nella notte ma la libertà ci ascolta”, un’affermazione molto fideistica, che si sposa bene con l’idea di religione della libertà. Ma anche un antidoto al pessimismo che si traduce in passività. E le democrazie muoiono di passività, non solo di aggressioni esterne.

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