I casi Ilva e Fiat, i partiti e la politica, Berlinguer e Croce, libertà
e democrazia. Di tutto questo e altro ancora parla Stefano Rodotà, di
cui è appena uscito il nuovo saggio “Il diritto di avere diritti”
(Laterza). Richiamandosi alla "straordinaria forza e attualità della
Costituzione italiana", il giurista rifiuta l’emergenza permanente,
perché i diritti – ci ricorda – a partire da quello alla salute, non
possono essere sacrificati impunemente alla logica di mercato.
colloquio con Stefano Rodotà di Rossella Guadagnini da Micromega
In
un Paese in cui “le disuguaglianze sono divenute ormai insopportabili” e
dunque vige la legge del più forte o, a seconda, del più preminente,
del più affluente, del più ammanicato, che significa garantire a tutti
gli stessi diritti? Lo abbiamo chiesto a Stefano Rodotà,
costituzionalista, professore emerito di Diritto civile all’università
La Sapienza di Roma, tra gli autori della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, presidente dell’Autorità garante per la protezione
dei dati personali e del Gruppo europeo per la tutela della privacy,
deputato indipendente nelle liste del Pci e Pds, vicepresidente della
Camera, oggi autore di un saggio per Laterza, da poco in libreria,
significativamente intitolato con un’espressione di Piero Calamandrei
“Il diritto di avere diritti” (pagg. 433, euro 20). Richiamandosi alla
Costituzione italiana, Rodotà ci risponde che “la libertà non è
negoziabile, così come avviene per i diritti”. Sono, i nostri, anni di
“grande riduzionismo” in cui si sente il bisogno diffuso di avere dei
“grandi principi di riferimento”.
Professor Rodotà
ritiene che oggi, passato il ventennio berlusconiano, ci sia
un’opportunità in più per aprire una nuova stagione all’insegna dei
diritti e dei beni comuni?
Dovrebbe esserci, ma non ne sono
particolarmente sicuro. In questi anni in materia di diritti abbiamo
vissuto una regressione politica e culturale molto forte, una distanza
grandissima tra ceto politico e società. Se paragono gli Anni Settanta a
oggi, il bilancio è magro. Allora ci fu una grande affermazione dei
diritti civili: del 1970 e degli anni seguenti sono lo statuto dei
lavoratori, la legge sul referendum, l’istituzione delle regioni, le
nuove norme sulla tutela della libertà personale. Poi c’è stata la
riforma del diritto di famiglia, la parità uomo-donna, l’interruzione di
gravidanza, la legge Basaglia sui manicomi, la legge Gozzini sulle
carceri.
E oggi?
Oggi siamo veramente in un
altro clima, in un’altra dimensione. Allora la legislazione italiana su
alcuni punti era la più avanzata d’Europa. Ora siamo non solo fanalino
di coda, ma lontani culturalmente. La fine delle ideologie ha portato
solo alla prevalenza assoluta del mercato. Di fronte a questo mondo ‘a
una sola dimensione’ il contrappeso, il contropotere, è unicamente
quello che viene dalla forza dei diritti. La più grande fabbrica del
mondo si trova in questo momento in Cina, la Foxconn, che produce
componenti della Apple: lì hanno scioperato per avere un miglioramento
delle condizioni di lavoro, cosa impensabile fino a poco tempo fa in
quel Paese. Segni di questo genere ce ne sono ovunque nel mondo: quindi
abbiamo, da una parte, la prevalenza della logica di mercato, dall’altra
parte, quella dei diritti. I diritti tuttavia non possono essere
sacrificati senza avere ricadute sul terreno economico.
Ad esempio?Il
caso dell’Ilva di Taranto è la dimostrazione, in casa nostra, di quanto
dico: per anni sono stati trascurati i diritti di lavoratori e
cittadini, come il diritto alla salute. Adesso tutto ciò sta portando a
una crisi economica drammatica dell’azienda. Non si possono scindere
diritti e governo dell’economia. Spero in una ripresa della politica dei
diritti, ma non sono così ottimista. Anche perché la politica, per
guadagnarsi un sostegno, si è fatta fortemente condizionare da un’idea
di diritti e non diritti che proveniva dalla pressione delle gerarchie
ecclesiastiche. Un’influenza esercitata non da tutto il mondo cattolico,
beninteso, di cui una parte cospicua si è invece resa conto
dell’importanza dei diritti, ma direi soprattutto dalle gerarchie
vaticane, specie in materia di fine vita, procreazione assistita e
rispetto dei diritti degli omosessuali. Mi auguro che questa fase sia
ormai superata.
Lei parla, nel suo libro, di un possibile avvento di una democrazia su base “censitaria” in termini di rischio: che significa? Vuol
dire che alcuni diritti non ci sono riconosciuti nella loro pienezza
perché appartenenti a ognuno, ma sono accessibili soltanto a chi ha le
risorse per poterli far diventare effettivi. Se, come ha lasciato
intendere il premier Mario Monti pur correggendo in seguito
l’affermazione, si dovesse andare in futuro verso forme di
privatizzazione del servizio sanitario nazionale, è chiaro che il costo
dei servizi crescerebbe per i cittadini, con la conseguenza che io avrò
tanta salute quanto potrò comprarmene sul mercato. Questa direzione
sarebbe all’opposto di quanto afferma l’articolo 32 della Costituzione,
laddove si dice che la salute è un diritto fondamentale del cittadino.
Si romperebbe lo schema indicato dal principio di uguaglianza. I miei
diritti saranno misurati non dal riconoscimento della mia dignità, del
mio essere persona uguale a tutte le altre, ma in base alle mie risorse.
Cittadinanza censitaria è un’espressione che si usava nell’Ottocento,
quando votavano solo gli uomini e, tra loro, soltanto quelli che avevano
un reddito superiore a una certa cifra.
Come si stabiliscono i diritti?Se
torniamo a misurare i diritti non sulla libertà e sull’uguaglianza, ma
col censo e in base al denaro, noi torniamo alla democrazia censitaria
appunto. E, così facendo, andremmo anche contro una tendenza globale. La
campagna elettorale americana è stata fortemente giocata proprio
intorno al tema della riforma sanitaria di Obama, che ha cercato di dare
una tutela al diritto alla salute per milioni di persone, che ne erano
rimaste – fino a quel momento – escluse. Il tema dei diritti è capitale
ovunque esiste la necessità di far uscire le persone da una condizione
di minorità.
Tempo di crisi. L’agenda Monti per affrontare l’emergenza è – a detta di molti – un’agenda di cose da fare, da affidare così com’è al prossimo governo. Se
la cosiddetta ‘agenda Monti’ è null’altro che prosecuzione di quello
che è stato fatto per superare l’emergenza, allora non credo che ci
avviamo verso una stagione politica particolarmente promettente. Non
possiamo vivere all’insegna dell’emergenza continua e dell’esistenza dei
soli problemi economici. I diritti, come nel caso menzionato dell’Ilva,
non possono essere sacrificati impunemente senza creare tensioni
sociali molto pericolose. In questa situazione si dice continuamente che
una delle vie d’uscita è “avere più Europa”, e sono assolutamente
d’accordo. Tuttavia l’Europa non è soltanto l’economia. Dal 2009, con
l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’Europa non è più fatta
soltanto di norme che riguardano il mercato, ma ha – allo stesso titolo e
col medesimo rango – una Carta dei diritti fondamentali.
Perché questa Carta è importante?
Nell’ultimo
periodo, c’è stato un distacco e in alcuni casi un vero e proprio
rifiuto dell’Europa. Per molti Paesi, infatti – l’Italia è tra questi –
Bruxelles è diventata la ‘fonte dei sacrifici’. Ciò che arriva
dall’Europa è percepito come obbedienza a una logica economica che
restringe opportunità e diritti dei cittadini. In tal modo, il popolo
europeo si allontana sempre più dalle sue istituzioni e si rischia non
solo una crisi dal punto di vista economico, ma anche da quello della
legittimità democratica. Un’Unione Europea può avere il consenso dei
cittadini se i cittadini vedono che in essa c’è un valore aggiunto
proveniente dai diritti. Lo testimoniano molte sentenze di corti europee
e di corti costituzionali nazionali che hanno preso sul serio la Carta.
Se i cittadini cominciassero a vedere che l’Europa porta loro nuove
opportunità di tutela dei diritti, la spirale negativa cominciata in
questi ultimi anni forse potrebbe essere interrotta.
Come mai si sente oggi la necessità di rimettere la Costituzione al centro dell’attenzione? La
Costituzione ha, specie nella sua prima parte, una straordinaria forza,
eloquenza e attualità, tanto più oggi di fronte al fatto che le nostre
società sono diventate sempre più disuguali. Ai tempi di Vittorio
Valletta, amministratore delegato della Fiat, la differenza tra il suo
stipendio e quello di un operaio era di uno a quindici. Oggi il rapporto
tra lo stipendio dell’operaio Fiat e quello di Sergio Marchionne è di
uno a quattrocentotrentacinque. Quindi le disuguaglianze sono diventate
enormi e insopportabili economicamente e socialmente. Ed ecco che
ritorna il principio di dignità e uguaglianza. Il problema di sicurezza e
dignità della persona sul lavoro dimostra che la Costituzione – come
diceva Calamandrei – è ‘presbite’, ossia capace di guardare lontano. Si
dice, ad esempio, che i partiti dovrebbero tornare a essere uno
strumento nelle mani dei cittadini e non delle oligarchie: allora
leggiamo l’articolo 49 dove si sostiene che tutti i cittadini hanno
diritto di associarsi liberamente per partecipare con metodo democratico
alla definizione della vita politica nazionale. Lì era scritta un’idea
di partito che, in questi anni, è stata completamente stravolta.
Allora occorre tornare a leggere la Costituzione?Sì.
Vi troveremo tutta una serie di indicazioni che ci aiutano ad
affrontare con principi forti le difficoltà odierne. Parlando di lavoro,
forse l’articolo più bello, che non dovremmo mai perdere di vista, è
proprio l’articolo 36, laddove si dice che la retribuzione deve
assicurare al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa”: sono parole
bellissime. L’esistenza deve essere libera e dignitosa, non può essere
sempre e soltanto subordinata alla logica economica, come quando si
afferma “io ti do soltanto il minimo che ti fa sopravvivere
biologicamente”: questo umilia le persone. Per tale ragione oggi il tema
del lavoro è diventato capitale.
Però il dettato costituzionale, anche in tema di lavoro, viene spesso disatteso. Una
diagnosi di perché questo accada non è facile. Certo è che organizzare
l’economia intorno al riconoscimento dei diritti del lavoro, della
considerazione che il lavoro non è una merce che debbo poter comprare
sul mercato al prezzo più basso possibile, implica scelte di carattere
generale molto impegnative. Nei momenti in cui c’è una reale difficoltà
economica, come ora, si è sempre pensato che occorresse ridurre il costo
del lavoro. Poi ci siamo accorti che c’era scarsa capacità
imprenditoriale, che c’erano diseconomie molto forti, una corruzione che
significava costi più elevati in quanto costituiva un aggravio per il
sistema delle imprese. Allora abbiamo visto il lavoro come l’unica
variabile che poteva essere ‘colpita’… Non l’evasione fiscale, non la
corruzione. L’elevato costo del lavoro è anche il risultato di reperire
risorse attraverso la tassazione di ciò che è più facile colpire, ossia
il lavoro dipendente, invece di fare un’azione adeguata contro
l’evasione fiscale e il lavoro nero. Entrambi i fenomeni sono stati –
ormai lo sappiamo e ce lo ricordano di continuo le cifre della Corte dei
Conti – una riserva oscura non per il benessere del Paese, ma per il
profitto di pochi. Il lavoro ha finito per venire sacrificato in un
quadro nel quale sono stati ritenuti prevalenti altri tipi di interesse.
Quanto conta oggi la società civile, che ascolto ha? Difficile
dirlo. In alcuni momenti abbiamo l’impressione che conti molto. Adesso
si dice “c’è un risveglio”, 3 milioni e mezzo di persone sono andate a
votare per le primarie del centrosinistra, ci sono manifestazioni – che
personalmente non mi piacciono affatto – e che hanno fatto capo a Beppe
Grillo, c’è gente che si mobilita fuori dai canali tradizionali. C’è,
insomma, una società capace di esprimersi. Questo in parte è vero. Ma
prima non è che ci fosse una società civile opaca… Abbiamo vissuto una
lunga fase in cui la società civile riusciva a esprimersi attraverso la
mediazione non al ribasso fatta dai partiti. Non a caso si parlava di
‘partiti di massa’. Mentre oggi noi parliamo di ‘partiti oligarchici, di
plastica, partiti-azienda e partiti leggeri’. Il che vuol dire che
questi partiti sono più oligarchia, più organizzazione su modello
manageriale (ricordo il caso del ‘marketing politico’). Tutto questo ha
determinato l’esclusione dei cittadini, che poi magari imboccano strade
non tra le più felici. Questo crea, da un lato, una distorsione e,
dall’altro, reazioni della società civile che possono avere ‘effetti
distorsivi’.
Che rapporto c’è tra società civile e politica? Un
rapporto basato su un equivoco di fondo, secondo cui tutto quello che
c’è nella società civile è bello e buono, e tutto quello che c’è nella
società chiamiamola ‘politica’ è male. Questo ha determinato effetti
negativi, perché in questi anni abbiamo avuto una caduta della cultura
politica in senso proprio, cioè della capacità di fare politica al più
alto livello. Sono arrivate in Parlamento troppe persone che non erano
in grado di fare questo mestiere, un mestiere difficile che si deve
imparare in maniera adeguata. Di fronte a questa incapacità sono venuti
fuori i tecnici. Allora la società civile, che è stata esaltata –
giustamente – come soggetto che deve avere voce in capitolo, ha finito
per essere santificata anche nelle sue manifestazioni meno positive.
Ogni cosa che proveniva dalla società civile era buona, salvo accorgersi
poi che non era così, con i risultati che abbiamo sotto gli occhi.
A sinistra del Pd c’è spazio, a suo avviso, per una nuova formazione politica? In
proposito ho un’opinione molto netta. Quando è stato avviato il
movimento di Alba (acronimo per Alleanza per il Lavoro Beni comuni e
Ambiente, ndr.), ho detto che c’era molto spazio per l’azione politica e
molti rischi legati alla fretta di far diventare l’associazione una
lista elettorale. Ritengo che ci sia stata, e spero che non sia del
tutto perduta, una spinta – soprattutto dalla seconda metà 2010 alla
prima metà del 2011– che ha portato a risultati importanti nella
primavera 2011, con tutta una nuova generazione di sindaci, non
espressione unica e diretta dei partiti, ma del grande dibattito della
società civile. Stessa valutazione riguardo ai referendum del giugno del
2011, in particolare quello sull’acqua originato da un grande movimento
sviluppatosi negli anni precedenti. Credo che esista, indipendente da
dove la collochiamo rispetto al Pd, a sinistra a destra in alto o in
basso, una grande capacità di elaborazione politica e culturale nella
società italiana, perché quei movimenti sono riusciti a cambiare
l’agenda politica. Se poi questo possa tradursi in un successo
elettorale nelle elezioni del 2013 ho i miei dubbi.
E quindi? In
questo momento penso che noi dovremmo – e mi rivolgo soprattutto a chi
stimo e alle persone di Alba con cui continuo ad avere rapporti –
piuttosto proseguire in quella direzione e insistere in quella linea di
elaborazione di idee e cambiamento anche dei referenti, senza generiche
contrapposizioni. Perché poi, per riprendere l’esempio dei nuovi
sindaci, alcuni di loro sono venuti fuori dall’esperienza dei movimenti,
altri invece dalle organizzazioni dei partiti. Quindi la
contrapposizione frontale non è detto che dia sempre risultati positivi,
dipende da cosa c’è dietro, dalla capacità di elaborazione e anche di
trovare collegamenti. Questa non è una critica che rivolgo soltanto ai
movimenti. Il Pd, ad esempio, non si è reso conto dell’importanza che i
movimenti avevano avuto in quella stagione e non li ha presi sul serio.
Mi pare sia stato un errore politico. Oggi vedo una situazione in
movimento, una difficoltà a tradurre tutto questo in nuove forme
organizzative che possano avere successo elettorale e vedo, nello stesso
tempo, le difficoltà della sinistra tradizionale.
Si parla molto della costituzione di un quarto polo: sogno o realtà? Io
non riesco a usare né l’uno, né l’altro termine. C’è un dato di realtà
indubbio: tutto questo mondo ha avuto risultati politici che non si
possono negare. Quei sindaci non sarebbero stati eletti senza quel tipo
di movimento alle spalle. I referendum hanno mobilitato 27 milioni di
persone, ma è un po’ un’illusione ritenere che quei 27 milioni di
persone sposterebbero il loro consenso su formazioni minoritarie, a
sinistra della sinistra, come quelle di cui stiamo parlando. Uno sbaglio
commesso in passato dai Radicali, che hanno pensato che il consenso
ottenuto nei referendum e nella raccolta delle firme si traducesse in
consenso elettorale. E’ assai complicato riuscire a convertire l’azione
di movimenti che hanno un obiettivo specifico, ben percepibile e ben al
di là dei confini dei partiti, assegnare loro un obiettivo,
raggiungerlo, e poi pensare che ciò si traduca in una lista elettorale
sostenuta dalla medesime persone.
Quali sono, dunque, i suoi auspici?Mi
augurerei che quanto c’è nella sinistra tradizionale, per così dire,
venisse recepito con più attenzione e diventasse seriamente parte
dell’agenda politica. Se si arrivasse ad avere alcune liste a sinistra
della coalizione imperniata sul Pd e poi queste dovessero subire uno
scacco, com’è avvenuto nelle ultime elezioni per le liste arcobaleno e
verdi, quale sarebbe l’effetto? Di nuovo si direbbe: “voi politicamente
non contate nulla”, un risultato che va evitato. Invece, sono convinto
che proprio il cambiamento avvenuto in questi anni debba molto a un
mondo che non è anchilosato come nella politica tradizionale. Un
elemento emblematico è che il Pd ha come suo slogan “Italia. Bene
Comune”; è successo in seguito al referendum sull’acqua, bene comune, e
il Pd è stato l’unico partito a farne un programma. Se questo slogan
viene usato strumentalmente non va bene, ma se dietro continua a esserci
un lavoro costante, allora si possono cambiare molte cose.
Lei teme la mancanza di coesione? E’
un rischio effettivo, una questione che dovrebbe interessare chi è già
soggetto politico strutturato, quindi il Pd. Finora quest’attenzione ai
movimenti non c’è stata o non c’è stata in maniera adeguata. Secondo me,
la società civile non è un indistinto generalizzato e dovrebbe
costruirsi non per opposizione e invettiva (sul genere di “il Pd succube
dell’agenda Monti”, “Vendola traditore”), ma dovrebbe lavorare molto
sui temi che debbono riuscire a comporre una nuova agenda politica. Così
questo mondo della sinistra potrebbe ritrovare, pur in una diversità
difficile da cancellare, delle modalità di organizzazione e di presenza
sociale e politica più forti delle odierne. In troppi casi, purtroppo,
queste modalità riflettono la storia meno apprezzabile della sinistra,
il litigio continuo. Un tempo, nelle vecchie logiche dei partiti
comunisti, questo veniva chiamato ‘frazionismo’, ossia un’esasperata
ricerca del dato differenziale. Anche se non bisogna andare a cercare
spasmodicamente l’unità a qualsiasi prezzo, però che almeno non ci sia
una sorta di disconoscimento preventivo dell’interlocutore, sul genere
di “con quello io non parlo”, semplicemente perché è sbagliato.
Giovani/vecchi: una contrapposizione che oggi ha un senso? Dal
momento che si era costituito un sistema di oligarchie, questa formula
ha finito per giocare un ruolo e lo vediamo. Ma, nello stesso tempo, in
astratto questa è una contrapposizione insensata, specie a
generalizzarla. Personalmente ho fatto due esperienze dirette nel
pubblico: come parlamentare e come presidente di un’autorità
indipendente. In quest’ultimo caso, fissare un tetto di otto anni
all’authority è un bene: serve un ricambio, scandito da regole precise,
anche per evitare intrecci di interessi e il pericolo di
burocratizzazione. Riguardo al Parlamento, invece, la cosa è diversa,
dal momento che il lavoro parlamentare è anche un accumulo di
esperienza. Ci sono stato immerso per 15 anni e poi me ne sono andato di
mia spontanea volontà. Inoltre, il Parlamento è un luogo
rappresentativo: se i cittadini vogliono affidarsi a persona che ha
esperienza, perché impedirlo? Nella questione giovani/vecchi un
ulteriore problema è rappresentato dal fatto che si vogliono trascinare
le carriere al di là dei giusti limiti.
Di cosa è fatta la politica? Di simboli e visioni, come diceva Berlinguer, o di risposte concrete? Di
tutte e due. Le risposte concrete che non sono capaci di guardare il
contesto rischiano di essere drammaticamente inadeguate. Quanto sento
Monti che a una domanda sui malati di Sla, costretti a manifestare
esibendo la loro terribile condizione umana, risponde semplicemente che
c’è stata una politica economica sbagliata e che pertanto le risorse
sono ridotte, non va bene. Non si possono ignorare questi dati concreti.
Se governo un Paese e voglio rispettare le persone non posso non
distribuire le risorse ignorando simili situazioni. E’ sintomatico di
una diversa visione della società: il governo come puro calcolo
economico. Le due cose, visioni e azioni politiche devono essere tenute
insieme: le grandi visioni politiche si sono poi tradotte in grandi
programmi, realizzati almeno in parte.
Dunque che fare?Non
mettere visioni e azioni politiche le une contro le altre, in quanto
questo autorizza molte cose. Ad esempio dire “Ma quel signore le cose le
fa, quindi apprezziamolo indipendentemente da…”: è la logica del “rubo
ma faccio”, slogan di un noto senatore brasiliano. Zero visione e tutto
fatti. Ridurre la politica a questo significa mortificare la democrazia.
Io vorrei che la politica fosse sempre accompagnata da una visione. E’
la ragione per cui ritorna l’attenzione alla Costituzione. I nostri sono
anni di grande riduzionismo. Tutto viene ridotto, nella peggiore delle
ipotesi a interesse personale, nella migliore a calcolo economico.
Mentre si sente il bisogno di avere dei grandi principii di riferimento.
La nostra Carta costituzionale è molto eloquente in questa direzione:
su alcuni punti come quelli dell’uguaglianza e della salute ha
formulazioni ricche e precise. E’ un documento che guarda alla persona e
alla sua dignità. Credo che questo bisogno di idealità e principii sia
sentito molto fortemente.
Lei parla di una ‘religione della libertà’: di che si tratta? E’
una citazione che ho tratto da Benedetto Croce. Croce vedeva la storia
come il risultato di un atteggiamento spirituale, che deve nutrire la
politica e portare alla libertà. La libertà è quella che deve essere
messa sugli altari da qualsiasi cittadino. Ecco perché mi sono sentito,
da laico, di usare quest’espressione che oggi ci può aiutare. La libertà
non è negoziabile da nessuno e per essa dobbiamo impegnarci. C’è una
canzone partigiana francese che dice “viviamo nella notte ma la libertà
ci ascolta”, un’affermazione molto fideistica, che si sposa bene con
l’idea di religione della libertà. Ma anche un antidoto al pessimismo
che si traduce in passività. E le democrazie muoiono di passività, non
solo di aggressioni esterne.
venerdì 30 novembre 2012
Rodotà: “Libertà e diritti non sono negoziabili”
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