di Mimmo Porcaro da Socialismo 2017
“Che
roba, contessa!” Un tempo qualcuno cantava, e con accenti vibranti,
questa vecchia canzone di Paolo Pietrangeli in faccia al clericofascismo
nostrano spaventato e disgustato dalla riscossa degli operai italiani.
Oggi, molti di quei “qualcuno” cantano ancora la stessa canzone, ma sono
loro, questa volta, ad essere spaventati e disgustati: dal “no” degli
operai inglesi all’Europa. E con l’immaginaria contessa condividono il
rimpianto per i bei tempi in cui l’intelligenza (la loro) contava ancora
qualcosa, lo stupore per quei molti che si considerano vessati da quel
gioiellino che è l’Unione europea, il fastidio per il fatto che ormai
anche l’operaio vuol decidere di testa sua : “non c’è più morale,
contessa!”.
Oggi,
dopo la Brexit, è tutto un “sì, ma…”: la democrazia è bella, ma…, i
referendum saranno pure importanti, ma…, il suffragio universale non si
tocca, ma… siamo sicuri che il voto di un qualunque tizio privo di
cultura debba valere quanto il nostro? E su questioni così complesse,
poi! E via sproloquiando. Dopo aver distrutto la scuola pubblica se la
prendono con l’ignoranza del popolo. Dopo aver smantellato le
concentrazioni operaie, dopo aver annichilito i partiti, dopo aver
dichiarato che ogni ideale di eguaglianza (anzi, ogni e qualsiasi ideale)
è pericoloso, hanno il coraggio di lamentarsi del populismo. I
rappresentanti delle classi che si sono arbitrariamente autodefinite
colte, non volendo capire la cosa più semplice (e cioè che dopo
vent’anni e più di impoverimento chiunque voterebbe controqualunque ordine stabilito) devono inventarsi un capro espiatorio per l’orrido misfatto che ha distrutto i loro tranquillizzanti exit poll.
Cosa c’è di meglio, allora, che prendersela col bersaglio preferito del
classismo liberista, ossia coi lavoratori anziani? Quei vecchi egoisti
rimbecilliti e rancorosi dovrebbero tacere, e lasciar parlare quelli che
ne sanno più di loro, quelli che hanno pensieri e comportamenti
razionali: i giovani, i mercati, le grandi imprese, gli esperti! Questo è
il commento corrente sulla Brexit.
Ma
ditemi voi perché mai un neolaureato che per sua disgrazia vivacchia in
famiglia, smanettando sulla tastiera, saltando da un semilavoro
pseudocreativo all’altro e chiamando tutto questo “libertà”, dovrebbe
saper giudicare il mondo meglio di un vecchio operaio gallese che ha
sperimentato tutte le delizie del capitalismo e che, soprattutto, ha
memoria di un’epoca passata e diversa, e proprio per questo può addirittura immaginare un futuro diverso.
Ditemi perché mai gli operatori finanziari possono fare incetta di un
titolo non per il suo valore intrinseco ma solo per la speranza che
qualcuno li imiti e ne faccia salire il prezzo (gonfiando così bolle su
bolle), e un povero cristo non dovrebbe votare un progetto che magari è
gestito da gente che non gli piace, ma può raggiungere la massa critica
necessaria a dare quantomeno uno scossone a tutta la baracca. Ditemi
perché una megaimpresa può fregarsene della programmazione a lungo
termine e basarsi solamente sulla trimestrale di cassa, mentre un
pensionato, nelle sue scelte politiche, dovrebbe basarsi sugli ideali
europeisti e non sul saldo del suo conto corrente. Ma soprattutto ditemi
perché mai si dovrebbero delegare le decisioni politiche agli esperti
ed agli informati, quando questi sono sempre in forte dissenso tra loro e
si schierano (anche sull’Europa, ovviamente) su fronti opposti. Su che
base si può mai decidere dopo avere ascoltato gli opposti pareri di esperti aventi gli stessi titoli scientifici?
E’ semplice: sulla base di ciò che da sempre determina le decisioni di tutti, popolo e sapienti, ossia sulla base dei propri interessi di classe e della propria (mutevole) percezione di tali interessi.
La scelta democratica può dar luogo a molti errori ed a volte ad errori
gravissimi, perché vi può essere un’erronea percezione dei propri
interessi o perché tali interessi sono troppo ristretti ed egoistici: ed
è proprio per questo che bisogna restare saldamente abbarbicati a
quelle Costituzioni, che non a caso i mercati e l’Unione europea tentano
di dissolvere, e che sono l’unica barriera possibile contro gli errori
del sovrano, chiunque esso sia. Ma è chiaro come il sole che gli errori
vengono commessi da tutti,
popolo e sapienti, mani callose e cantori dell’immateriale, perché per
tutti è difficile percepire in maniera adeguata i propri interessi e
mediarli, per quanto è possibile, con quelli altrui.
Sono
state anche o soprattutto le scelte elettorali tenacemente liberiste
delle classi presunte colte, è stata soprattutto la loro incapacità di
mediare i propri interessi di classe con quelli dei presunti incolti, a
creare la benvenuta crisi di egemonia della vasta élite europeista.
In questo caso i sapienti hanno sbagliato, e di grosso. E’ stata la
capacità popolare di percepire i propri interessi di classe e di
comprendere la necessità di una rottura quale la Brexit a produrre una
fase politica nuova, rischiosa ma dinamica. In questo caso gli incolti
l’hanno azzeccata. Che poi questa rottura venga gestita, oggi, dagli
eredi di Farage e di Cameron (ma non esclusivamente da loro: si veda la Left Leave Campaign…)
non deve né essere nascosto né essere usato come la croce contro il
vampiro: l’egemonia della destra su questo processo è ovvia ed al
momento inevitabile, così come è inevitabile il carattere interclassista
ed a volte ambiguo di formazioni che, come Podemos e il M5S, in altro
modo incrinano gli equilibri attuali. Ma l’antieuropeismo (meglio,
l’antiunionismo) ed il nazionalismo (meglio, il discorso nazionale) non
sono necessariamente di
destra: lo diventano se e quando la sinistra passa integralmente o
quasi dalla parte del grande capitale, e finché non si crea
un’alternativa socialista che contrasti sia l’attuale destra che
l’attuale sinistra.
Per
creare una simile alternativa è essenziale comprendere bene la
congiuntura attuale, e quindi saper leggere le cause e gli effetti della
Brexit uscendo dal chiacchiericcio antipopulista (ed in realtà
antipopolare) e dalla illusoria attesa di un “colpo di reni” delle élite unioniste. Su questo punto è assai utile seguire il consiglio di Emiliano Brancaccio ed analizzare i processi profondi che hanno condotto agli eventi più recenti. E questi processi ci parlano chiaramente dicrisi della globalizzazione, di aumento della competizione intercapitalistica, di lotta acuta non solo del capitale contro il lavoro, ma anche del grande capitale contro il piccolo,
una lotta nella quale bisognerebbe incunearsi (come suggerisce ancora
Brancaccio), mentre invece la sinistra la osserva con supponenza e senza
comprenderla, oppure si schiera apertamente col capitale globalista e
con la sua strategia di centralizzazione (ancora una volta confusa con
la modernizzazione tout court: quando mai finirà l’influenza di quella che il maoismo chiamava la “nefasta teoria” della neutralità delle forze produttive?).
Tale
crisi della globalizzazione, resa sempre più evidente
dall’indebolimento degli istituti sovra o internazionali, dalle
svalutazioni competitive, dagli accordi di libero scambio fatti ormai
non per aprire a tutti, ma per “chiudere” a qualcuno, comporta a mio
parere un processo di rinazionalizzazione della politica che può piacere
o non piacere, ma costituisce di fatto il campo attuale, e ineludibile, della lotta di classe.
Una rinazionalizzazione (successiva ad un periodo in cui le nazioni non
erano certo scomparse, ma delegavano molte funzioni ad organismi
extranazionali…gestiti dalle nazioni più forti) che si realizza non
perché la nazione sia un residuo della storia che nei momenti di crisi
viene riattivato in mancanza di meglio (ed anche se così fosse, ciò non
ne sminuirebbe l’importanza politica), ma perché le differenze nazionali
sono la veste più adeguata per una integrazione delle economie mondiali che avviene in forma capitalistica, ossia attraverso una centralizzazione gerarchica che
assorbe i capitali deboli mente incrementa la subordinazione del
lavoro. Questa lotta costante contro i capitali deboli e contro i
lavoratori trova nelle differenze fra nazioni un’arma
formidabile, perché esse permettono di costruire “aree speciali” in cui
il credito è più oneroso ed il salario più compresso, ed altre aree in
cui il capitale si centralizza e trova poli di direzione strategica e di
supporto militare (Europa docet).
La subordinazione delle nazioni più deboli ed il rafforzamento
ulteriore di quelle già forti è uno dei mezzi più importanti della
centralizzazione del capitale oggi. La riconquista della sovranità
nazionale e la creazione – su questa base – di nuove relazioni
internazionali cooperative sono oggi l’oggetto decisivo della lotta di classe in Europa,
la condizione di ogni avanzamento del movimento dei lavoratori. Lo
spazio nazionale e il nuovo spazio internazionale cooperativo tra
nazioni sovrane, disegnano il campo in cui sia i lavoratori che il
piccolo capitale possono organizzare la resistenza contro il loro nemico
principale e contendersi l’egemonia sul processo di liberazione dal
dominio del capitale finanziario globalista. Fuggire da questo campo
significa consegnare senza combattere la
direzione del processo al piccolo capitale, alle sue inconseguenze,
alle sue tendenze razziste e autoritarie, al suo protezionismo privo di
sguardo strategico.
La
Brexit, per tornare a noi, è proprio effetto della crisi della
globalizzazione, è effetto dell’incontro tra il processo di
rinazionalizzazione (come aspetto del conflitto intercapitalistico) ed
il crescente malcontento popolare contro l’Unione. In particolare è
l’effetto del crescente squilibrio intraeuropeo,
che consiste nell’indebitamento di molte economie nazionali del
continente nei confronti di altre nazioni dell’Unione, uno squilibrio
che non viene sanato, ma riprodotto dall’Unione stessa,
e che la liberalizzazione spinta dei mercati ha accentuato anche nei
paesi che non si sono autoimposti il giogo dell’euro. Contro questo
squilibrio, che l’economia inglese patisce in modo significativo, e
contro i regolamenti europei ritenuti responsabili principali della
situazione si è creata una coalizione tra una parte degli esportatori
inglesi, la gran massa dei piccoli produttori declassati ed una notevole
parte dei lavoratori maggiormente colpiti dalla crisi. E questa
coalizione al momento ha vinto.
Difficile
dire quali potranno essere le conseguenze della Brexit sull’economia
inglese e soprattutto sui lavoratori di quel paese: da sola, senza un
chiaro programma di critica al neoliberismo, essa (che pure era un
passaggio necessario) non può portare molto lontano. Più facile
immaginare quali saranno le conseguenze sul futuro dell’Unione. Data la
tendenza generale alla rinazionalizzazione e data la crescente
disaffezione, come la chiamerebbe timidamente un europeista, dei
cittadini europei nei confronti dell’Unione, non potranno che essere
negative. Qualche anima bella sogna una reazione unitaria, un passo
verso la messa in comune dei debiti, un’attenuazione, se non
un’inversione, delle politiche antipopolari: il tutto condito
dall’immancabile illusione sull’aumento del peso politico della Francia
“socialista” e, perché no, della stessa Italia. Ma il tanto atteso
scatto in avanti non ci sarà: nessuno vorrà rifondare l’Unione
nell’unico modo che le garantirebbe un futuro, ossia come patto politico tra nazioni sovrane, finalizzato a tutelare la tradizione europea di economia mista e welfare state in
un contesto di autonomia dai blocchi geopolitici attuali. Nessuno lo
farà perché, salvo minacce immediate alla sopravvivenza delle nazioni (e
la Brexit non lo è, o non è percepito come tale) queste ultime tendono a
seguire le loro abituali strategie di lungo periodo: e le strategie
francesi e soprattutto tedesche, ad oggi, non intendono aumentare
l’integrazione fiscale o diminuire la pressione sul salario. Nessuno lo
farà perché l’uscita dell’Inghilterra non rafforzerà, ma indebolirà la prospettiva di una maggiore integrazione economica e politica.
Immediatamente
infatti la Brexit accentua gli elementi di disgregazione. Non concedere
nulla di sostanziale sulla questione delle banche italiane, indebolire
la Commissione europea, privilegiare ancor più di prima le decisioni
intergovernative, investire tutti i parlamenti nazionali della
discussione sui trattati commerciali dell’Unione, questa è la reazione
pavloviana del dominus dell’Unione,
ossia il governo di Berlino, nonostante le (deboli) proteste italiane.
Esattamente il contrario dello scatto unionista che qualcuno si attende.
Qualcuno potrebbe consolarsi aspettando che la pur non immediata uscita
di scena della potenza nazionale meno propensa all’integrazione (anche
perché più atlantista) giochi alla fin fine a favore dell’integrazione
stessa. Ma in realtà, come osservano equilibrati studiosi della politica estera di Berlino,
il liberismo inglese era un ottimo alleato dell’ordoliberismo tedesco
nelle trattative con Francia “statalista”. Fuori il primo, il secondo
sarà ancor meno propenso a fare concessioni, per paura di essere
fagocitato. Né si può sperare (e sarebbe comunque un tragica speranza)
nell’attuale riproposizione, da parte del “ministero degli esteri”
europeo, di una politica militare unitaria. La Brexit potrebbe
certamente accelerare il processoformale di
integrazione della politica militare dell’Unione, anche perché
l’industria bellica del continente può finalmente spingere come non mai
per un aumento degli investimenti comunitari in questo campo. Ma d’altro
canto, dal punto di vista sostanziale, un’Europa che perde pezzi è
assai meno credibile di prima come soggetto di una politica estera
unitaria, mentre l’uscita della Gran Bretagna priva l’Europa stessa di
una piattaforma tecnologico-informativa decisiva per ogni seria
operazione militare. E a tutto ciò si deve aggiungere il fatto che,
venendo loro a mancare la possibilità di influenzare l’Unione attraverso
l’Inghilterra, gli Usa tenteranno di aumentare la presa, oltre che
sull’Italia, sulla Germania o sulla Francia, appesantendo così la loro
ipoteca sull’autonomia geopolitica del vecchio continente. Al di fuori
di una vera integrazione economico-politica e di una vera autonomia
geopolitica (oggi impossibili), un’eventuale accelerazione dell’
unificazione militare si risolverà quasi certamente in una operazione di
mera polizia interna (contro
l’immigrazione ma anche contro le possibili rivolte popolari) oppure si
tradurrà in qualche intervento avventurista, precario sostituto di un
vero ruolo mondiale dell’Unione. E questo mentre si fa più chiara la
tendenza degli Usa a muovere guerra alla Russia sul terreno europeo, e
quindi a muovere guerra ad ogni residua velleità unitaria dell’Europa
stessa.
Insomma, la Brexit sembra preparare un futuro in cui la politica dell’Unione proseguirà ipocritamente as usual,
ma in un contesto di tensioni decisamente crescenti. Non si possono
escludere piccole svolte tattiche, apparenti concessioni
“antipopuliste”, belle parole sulla solidarietà e sulla crescita: ma la
direzione fondamentale è quella dell’aumento degli squilibri, anche
perché ormai gli effetti di ogni consultazione elettorale che in qualche
modo punisca le forze europeiste sono moltiplicati ed amplificati dalle
dinamiche centrifughe nazionali, e queste ultime si alimentano dei
risultati elettorali stessi, riproducendo così le condizioni della
crisi.
Se tutto questo è vero, si prepari a ballare, contessa!