martedì 29 luglio 2008

Lettera al Manifesto


Caro Manifesto,


La questione della giustizia mi sembra una questione dirimente, per quanto riguarda la visione della politica all’interno della sinistra: non per nulla è stata motivo di acceso dibattito nell’ultimo congresso di rifondazione.
Il nodo fatidico, che ci portiamo in eredità da quando abbiamo scoperto che la società è divisa in classi, è il concetto di conflitto. Una grossa parte della sinistra rifiuta di ricondurre la politica alla giustizia, cioè a dire all’etica, in nome dell’autonomia e del primato della politica, poiché concentrare l’azione sui problemi etici vuol dire mettere da parte le radici fondamentali dell’ingiustizia, che risiedono nella divisione in classi della società, e incentrare l’azione su tematiche “sovrastrutturali”. In altre parole, non si può ricondurre la politica a una questione etica, altrimenti si rischia, una volta risolta questa, di precludere ogni possibilità di cambiamento radicale della società. Mettiamoci anche il fatto che il conflitto rappresenta di per sé il motore fondamentale del diritto, poiché questo non può essere ipostatizzato, ma va considerato in perenne evoluzione, proprio in grazia del conflitto stesso. Mettiamoci inoltre l’idiosincrasia della sinistra verso una cultura genericamente repressiva, e si capisce il mal di pancia di Vendola e dei Bertinottiani. È paradossale, però, che proprio quella componente di Rifondazione che fa del conflitto la discriminante fondamentale del suo agire abbia voluto porre l’accento sulla questione morale.
Il problema è, a mio avviso, che nel contesto italiano in particolare il problema giustizia non può semplicemente essere eluso, bollando gli avversari come giustizialisti tout court e rimarcando la differenza fra chi è per il cambiamento vero e chi invece per una morale levantina punto e basta. La specificità italiana è tale che i principi basilari del diritto borghese vengono calpestati, soffocando ogni possibilità di politica (alta o bassa che sia) che abbia un minimo di credibilità. Non si può placidamente discutere in un salotto televisivo con dell’Utri o Cicchitto, o Berlusconi stesso, facendo finta di ignorare le loro storie intrise di trame, malaffare e connivenze mafiose, solo perché “il problema, compagni, è politico”. Tutto ciò crea una prevedibile irritazione nella “plebe” poiché mette tutti i soggetti della politica sullo stesso piano. È vero, non bisogna assecondare gli istinti forcaioli e plebei del cosiddetto “popolo”, ma qui non si tratta di mettere in galera nessuno, qui si tratta di raggiungere un  grado accettabile di legalità, si tratta di restituire un minimo di agibilità alla politica, soffocata da interessi mafiosi e di casta. È proprio la politica con la P maiuscola che viene danneggiata da fenomeni regressivi come la criminalità politico-mafiosa, ed è per questo che si corre il rischio della mutazione del popolo in plebe.
Ho letto (nell’intervista al Manifesto) Vendola che irrideva all’intervento di un compagno che proponeva di formare un CLN insieme ai dipietristi. Anch’io un po’ fra il serio e il faceto ho fatto una proposta simile sul blog di Grillo, e alidilà degli aspetti che Vendola trova scandalosi, il problema di una transizione italiana si pone eccome, e  non possiamo ignorarlo. Dire che Grillo e di Pietro sono  populisti è come dire che il dolore è tale perché fa male. Non significa niente. Bisogna finirla coi pregiudizi e con le discriminanti, non dobbiamo essere d’accordo con Grillo su tutto, ma non possiamo ignorare quelle istanze che la sinistra in tempi non sospetti aveva fatto sue prima ancora dello stesso Grillo. Dire che la mafia è un problema politico e come tale va considerato non vuol dire niente: la mafia bisogna combatterla a tutti i livelli, recidendo in primis il filo che la lega alla politica e questo, sebbene molti compagni abbiano sacrificato le loro vite nella lotta alla mafia, non è stato fatto o è stato fatto con una tale schizzinosità (per non apparire giustizialisti), che è sembrato ai più una gara di fioretto fra Bertinotti e dell’Utri. Insomma, quando si è trattato di denunciare apertamente i legami fra mafia e politica il messaggio è stato talmente debole che non l’ha sentito nessuno.

Franco Cilli

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