Il jobs act è
un'aberrazione, di questo possiamo esserne certi, ma anche il
consumismo e la perdita del valore in se delle cose è
un'aberrazione.
Il lavoro ha un valore in sé? Un errore logico direbbe qualcuno. Il valore in sé fa venire in mente la cosa in sé kantiana, un'entità inafferrabile ed inconoscibile, ma che esprime un'essenza con un significato e una funzione manifesta. Eppure cosa potrebbe avere più valore di un qualcosa che sfugge a una quantificazione numerica della sua essenza, principio cardine dell'alienazione di un oggetto (merce) dal suo valore d'uso?
Al di là delle parafrasi filosofiche vorrei dire molto semplicemente che oggi si è smarrito il senso di un lavoro come valore a sé stante e come auto-valorizzazione che prescinde dal prodotto stesso del lavoro. Per chi pensava che lavorare fosse una benedizione e vedeva se stesso riflesso nel proprio lavoro, non c'era nulla di mediato nel lavorare, c'era il lavoro e basta: dignità per sé e per la propria famiglia, reddito, futuro. Col passare del tempo e l'affermarsi del consumo come disincanto della civiltà e necessità dell'economia, il lavoro è divenuto una pausa ingombrante frapposto al tempo di consumo e al desiderio.
Non possiamo semplicemente pensare ad una riconquista dei diritti e alla fine di questo inferno liberista se non superiamo l'idea del lavoro come tassa sul consumo, come prigione del corpo e inibizione dell'istinto. Occorre abbinare alla richiesta dei diritti una dichiarazione di disponibilità ad un lavoro utile al bene comune, e occorre ripensare la teoria dei bisogni. Non possiamo più giustificare l'assenteismo.
Dobbiamo impossessarci del lavoro per non dover più essere costretti a liberarcene.
Il lavoro ha un valore in sé? Un errore logico direbbe qualcuno. Il valore in sé fa venire in mente la cosa in sé kantiana, un'entità inafferrabile ed inconoscibile, ma che esprime un'essenza con un significato e una funzione manifesta. Eppure cosa potrebbe avere più valore di un qualcosa che sfugge a una quantificazione numerica della sua essenza, principio cardine dell'alienazione di un oggetto (merce) dal suo valore d'uso?
Al di là delle parafrasi filosofiche vorrei dire molto semplicemente che oggi si è smarrito il senso di un lavoro come valore a sé stante e come auto-valorizzazione che prescinde dal prodotto stesso del lavoro. Per chi pensava che lavorare fosse una benedizione e vedeva se stesso riflesso nel proprio lavoro, non c'era nulla di mediato nel lavorare, c'era il lavoro e basta: dignità per sé e per la propria famiglia, reddito, futuro. Col passare del tempo e l'affermarsi del consumo come disincanto della civiltà e necessità dell'economia, il lavoro è divenuto una pausa ingombrante frapposto al tempo di consumo e al desiderio.
Non possiamo semplicemente pensare ad una riconquista dei diritti e alla fine di questo inferno liberista se non superiamo l'idea del lavoro come tassa sul consumo, come prigione del corpo e inibizione dell'istinto. Occorre abbinare alla richiesta dei diritti una dichiarazione di disponibilità ad un lavoro utile al bene comune, e occorre ripensare la teoria dei bisogni. Non possiamo più giustificare l'assenteismo.
Dobbiamo impossessarci del lavoro per non dover più essere costretti a liberarcene.
Naturalmente, il "lavoro" può essere alienato:
RispondiEliminaanche lo schiavo lavora, anzi lavora soltanto. Ma il lavoro può anche essere, idealmente, libera azione che crea, nel comune, ricchezza e benessere. Il "contesto" è decisivo. Credo (ancora), dipenda dai rapporti di forza fra le classi sociali e via di seguito...
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