Viaggio
verso il cuore della Terra:
il
“nuovo secolo americano”
Medio Oriente e l’Asia Centrale erano tappe obbligate per fronteggiare il prossimo competitor strategico: la Cina.
Quei rapporti erano così limpidamente spudorati che in “Rebuilding America’s Defenses”, Pnac Report, September 2000, si poteva leggere tranquillamente che la consigliata strategia di riposizionamento strategico in Asia non sarebbe mai stata adottata in tempi utili «in assenza di qualche evento catastrofico e catalizzatore – come una nuova Pearl Harbor».
Dopo l’11/9 su impulso del Segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, fu messa a punto una tabella di marcia, rivelata nel 2007 dal generale Wesley Clark, che prevedeva la conquista in cinque anni di Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e per finire l’Iran. Lo scopo era chiarissimo fin da dieci anni prima delle Torri Gemelle. E’ sempre il generale Clark che racconta: «[...] nel 1991 Wolfowitz era il sottosegretario, ossia il numero tre del Pentagono. A quel tempo mi disse: “Abbiamo 5 o 10 anni per ripulire tutti questi regimi favorevoli all’ex Unione sovietica, la Siria, l’Iran, l’Iraq, prima che la prossima superpotenza emerga a sfidarci”». L’Amministrazione Bush ha iniziato il programma. Sono stati riscontrati degli ostacoli, Barack Obama l’ha rivisto facendolo diventare meno arrogantemente unilaterale e puntando a coinvolgere forze locali di opposizione, l’Onu e gli alleati (ed è solo per questo che si è preso il premio Nobel per la Pace) e l’ha aggiornato con lo Yemen, il Pakistan occidentale, l’America bolivariana e infine l’Africa, e in condizioni differenti, e con altri metodi, la stessa Europa.
Il fine è tenere sotto controllo l’Eurasia, perché come ricordava la classica “dottrina Brzezinski”, nel nostro supercontinente c’è il 75% delle risorse energetiche del pianeta, il 60% del prodotto interno lordo mondiale, ci sono le sei maggiori economie dopo gli Usa, i primi sei paesi dopo gli Usa per spese militari e tutte le potenze nucleari oltre gli Usa. Infine l’Eurasia comprende il 75% di tutta la popolazione mondiale tra cui le superpotenze demografiche di Cina e India. Zbigniew Brzezinski negli anni ottanta aveva già concretizzato le sue convinzioni trasformando l’Afghanistan in una trappola
dove gli Afgani erano l’esca e i Sovietici i topi. Il risultato furono due milioni morti e una tragedia umanitaria di proporzioni bibliche, nonostante che Brzezinski fosse Consigliere per la sicurezza di Carter, forse il presidente Usa che più sinceramente ha creduto nei diritti umani. Evidentemente ciò non è bastato a far assumere a questo concetto un carattere universale e non geopolitico. Ma la possibilità storica di intervenire in modo più deciso e assertivo in Eurasia si è aperta clamorosamente con il collasso dell’Unione Sovietica. Dopo il crollo del Gigante Rosso, l’Europa Orientale, i
Balcani, l’Asia Centrale e la zona del Caucaso Meridionale sono diventati all’improvviso un immenso terreno di conquista. I Paesi transcaucasici e centroasiatici non solo uscivano dal settantennale abbraccio del potere sovietico ma uscivano dalla bicentenaria soggezione al potere Russo. Uno spazio immenso di manovra come non si vedeva da duecento anni a quella parte, dove niente era stabilito in anticipo. Certo la Russia partiva per molti versi in vantaggio, ma per altri versi era la sfortunata erede di una bancarotta storica.
2. Il presidente democratico Clinton aveva ben chiari i punti fondamentali di questa strategia e l’intervento Nato contro la Serbia lo aveva testimoniato. Quell’intervento era stato deciso quando la crisi cecena aveva mostrato che la Russia faceva fatica a venire a capo anche solo di una guerra locale e limitata. Ma se i primi pilastri della geopolitica eurasiatica degli Usa erano quindi stati posti durante la seconda parte dell’era Clinton, soltanto con l’amministrazione Bush si era entrati nel vivo. L’ideologia, gli interessi personali o di lobby e anche le singole personalità hanno voce in capitolo negli eventi storici, ma ciò che è interessante capire è se le varie forze e
condizioni che insistono su un momento storico a un certo punto “commutano”, come si dice in matematica, ovvero danno luogo a un’equazione funzionale, cioè a quella combinazione che Hegel compendiava nel concetto di “astuzia della Storia”. La junta petrolera di Bush sembrava confermarlo, perché era stata messa in sella proprio per venire incontro a due ordini di motivi.
Il primo riguardava il relativo declino economico americano e la situazione di stagnazione dell’economia mondiale, con la conseguente necessità di mantenere il predominio anche, se non soprattutto, con strumenti extraeconomici. Fino all’inizio dell’amministrazione Bush, i capitali drenati dagli Usa sulla base della forza del Dollaro erano riusciti a sostenere relativamente la domanda e, soprattutto, a innescare una finanziarizzazione globale dell’economia sotto controllo americano e inglese e alle spese dei “Paesi in via di sviluppo” dai quali preferibilmente si traeva profitto con la gestione del debito. Lo scoppio della bolla borsistica clintoniana mise a nudo l’entità della crisi sistemica, rifacendo emergere il substrato di stagnazione. Il secondo motivo era il fatto che l’emergere di giganteschi competitor internazionali non permetteva di scaricare all’esterno come prima le enormi contraddizioni che si erano create. Il mondo capitalista occidentale doveva trovare i mezzi per assorbire le eccedenze di capitale
monetario e di mezzi di produzione o distruggerle nel modo più controllato possibile per ricavarne il massimo vantaggio strategico e senza esitare a utilizzare strumenti brutali servendosi inevitabilmente del potere dello Stato, “violenza concentrata e organizzata della società”, sotto forma di repressione interna e di aggressioni militari
esterne.
Queste dinamiche escludono il concetto di “impero” in quanto “potere sovranazionale”, che deve essere invece ricondotto al concetto di fase di “unica superpotenza rimasta".
Il cerchio teorico non quadra 1. Il lato empirico dell’analisi è dunque basato su fatti evidenti. Meno evidente è il suo status teorico. Se Giovanni Arrighi in “The Long Twentieth Century. Money, Power and the Origins of Our Times” esplorava i cicli sistemici monocentrismo-policentrismo del capitalismo mondiale, partendo da Marx ma oltrepassandolo, Samir Amin, ad esempio in “Oltre il capitalismo senile”, oppure nel saggio storico-teorico “Oltre la mondializzazione” o quello più teorico-metodologico “Le fiabe del capitale”, sosteneva che oggi saremmo in presenza di un sovrastante schieramento capitalistico (la Triade imperialista Usa, Europa, Giappone) senza nessuna potenza alternativa all’orizzonte, grazie al suo controllo dei cinque monopoli (controllo ribadito dalle guerre statunitensi, che assumevano quindi un carattere di fatto coloniale) e grazie alla centralizzazione di capitali che può far pensare solo a un imperialismo in condominio, seppur strutturato gerarchicamente.
Per alcuni versi Samir Amin è più aderente agli schemi marxisti poiché propone lo scenario di un sistema capitalistico tutto sommato unificato, la cui “senilità” (leggi “contraddizioni interne epocali”) lo rendono avido di risorse naturali e finanziarie, dipendente dal controllo di nuovi spazi geografici e quindi, alla fine, oppressore del
Sud del mondo oltre che del proprio proletariato. Un capitalismo dove l’esclusione prevale sulle possibilità di inclusione e che ormai ha bisogno di chiudere sempre più gli spazi democratici. Giovanni Arrighi vede al contrario il peso dei processi di accumulazione capitalistica spostarsi con decisione verso l’Oriente asiatico e il suo epicentro: la Cina. Tuttavia la possibilità di un nuovo ciclo sistemico di accumulazione è sottoposta a una serie di interrogativi a partire dalla constatazione che si è in presenza di una situazione
complicata che vede gli Usa potentissimi sul piano militare, diplomatico, politico e culturale e la Cina potentissima su quello economico e finanziario. Una prolungata divergenza di fattori inedita.
2. Nello schema di Amin la lotta di classe fa la sua ricomparsa sotto la forma composita di lotta dei popoli oppressi del Sud del Mondo, delle classi subalterne dei paesi emergenti e in posizione quasi ma non totalmente paritetica, delle classi dominate del Nord del Mondo, in un quadro teorico però ormai differente dal vecchio “terzomondismo”.
In Arrighi le contraddizioni principali nel sistema capitalistico sono dovute al feroce conflitto (sostanzialmente di potere) tra differenti segmenti e schieramenti capitalistici, alleati in determinate fasi con differenti poteri territoriali, conflitto che è insito nella logica stessa del capitalismo. In questo quadro le lotte delle classi subordinate non
hanno stroricamente un ruolo univoco. Se all’inizio della crisi del precedente ciclo sistemico, cioè durante la Lunga Depressione 1873-1896, esse hanno ricevuto l’impronta dalla lotta intercapitalistica, e si sono politicizzate in direzioni differenti
parallelamente alla politicizzazione di quel conflitto, viceversa nella crisi sistemica attuale sono state esse stesse a condizionare il conflitto intercapitalistico e l’agenda di gestione della crisi.
Arrighi attenua il legame tra i meccanismi di riproduzione allargata del capitale e l’industrialismo. Da qui un’attenzione particolare sul ruolo svolto dalla finanza, al di là delle sole funzioni di debito pubblico e di credito, nazionale o internazionale, analizzate
da Marx.
Samir Amin invece è più legato all’analisi marxista del capitalismo come essenzialmente coincidente con l’industrialismo, la cui logica è spiegata dal concetto, per l’appunto, di “modo di produzione”, ovviamente nel senso marxiano che è innanzitutto quello di sistema di rapporti sociali di produzione. Per Amin la finanziarizzazione del capitale è quindi indice della senilità del capitalismo, della sua intrinseca tendenza alla centralizzazione e alla sovraccumulazione. Tendenza che le lotte popolari potrebbero limitare, limitando l’estrazione di profitto.
Le analisi di Arrighi e quelle di Amin divergono quindi su punti importanti. Questa divergenza può essere però considerata insanabile solo se ci si pone da un punto di vista fondazionale, assiomatico. Penso invece che lo schema interpretativo di Arrighi, se sufficientemente sviluppato, possa sussumere gran parte di quello di Amin, inserendolo nei loci storici e geografici che esso di fatto descrive. Se non ci si emancipa dal punto di vista fondazionale sarà difficile fare analisi e proposte convincenti.
Bisogna affrontare questo compito avendo il coraggio di lasciare alle spalle la sicurezza fornita dai prontuari marxisti, sia ortodossi che eterodossi, evitando le trappole identitarie. Una richiesta pesante, anche in termini emotivi. In termini sociali e ideologici qualcosa di peggio che proclamarsi Protestante nel bel mezzo del Concilio di
Trento. Staccarsi dal concetto, non laico ma teo-teleologico, di “lotta di classe” o di “lotta dei popoli oppressi” è come rompere gli ormeggi e infilarsi in un mare in burrasca pieno di Scille e di Cariddi (socialismi indentitaristici, nazionalismi, spiritualismi e culturalismi di varia e spesso lugubre provenienza; oppure, brutalmente, vendersi al miglior offerente capitalista, opzione quanto mai affollata).
Ma dall’inizio del Millennio a oggi le cose sono cambiate in modo talmente profondo che non è più possibile nascondersi, tirarsi indietro o far finta di niente.
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