di Pier Francesco Zarcone da utopiarossa
Si tratta di un argomento praticamente non trattato dai grandi media. Al massimo ogni tanto si comunica il numero di vittime civili a seguito di scontri e bombardamenti, e si dà notizia di successi militari dell'Isis e di altre formazioni jihadiste, magari dilatandone la portata suscitando il classico effetto di Hannibal ante portas, ma senza inquadrarli nelle oggettive proporzioni tattiche e strategiche. Cosa accada davvero sui campi di battaglia resta sconosciuto ai più, e nella presente fase, alquanto negativa per i cosiddetti takfiri (sinonimo dei jihadisti per il loro tacciare di apostasia i musulmani di orientamento diverso), il silenzio è pressoché totale. Eppure in questi circa quattro anni di guerra in Siria sul piano militare (e politico) ci sono stati sviluppi interessanti.
LE PREMESSE TATTICO-STRATEGICHE
In primo luogo va rimarcata l'opportunità della scelta fin dall'inizio effettuata dal governo di Damasco di fronte a una massiccia e capillare invasione di combattenti stranieri sostenuti (militarmente ed economicamente) dall'esterno. Le opzioni possibili erano due: a) cercare di difendere subito tutto il territorio siriano, con prevedibili esiti disastrosi sul terreno, oppure b) attestarsi nella difesa della capitale e della zona costiera (cioè dell'area con la maggiore concentrazione alawita e sciita in genere). Questa seconda ipotesi implicava il temporaneo abbandono al nemico dei territori orientali – che, seppure in buona parte desertici, presentano risorse energetiche importanti - e poi manovrare da quello "zoccolo duro" territoriale per un'auspicata azione di riconquista. La scelta è caduta sulla seconda opzione.
Al riguardo i grandi media l'hanno generalmente interpretata come segnale o della prossima sconfitta militare dei governativi o di una precisa exit strategy, nel senso che Assad avrebbe fatto della zona costiera il ridotto in cui rifugiarsi e concentrarvi la resistenza dopo il disastro sul campo, dato come inevitabile. La prospettiva strategica alla base di quella decisione era diversa e si basava - in ragione della globale situazione siriana, più complessa e comunque diversa rispetto a quelle di Egitto e Tunisia - sulla vera carta giocabile dal governo damasceno: l'appoggio pratico e concreto da parte di Russia, Iran e Hezbollāh libanese. Era quindi essenziale mantenere aperti i canali aerei, terrestri e marittimi con questi alleati, fornitori di aiuti non solo diplomatici, ma anche militari ed economici. Come infatti è avvenuto.
All'inizio della guerra l'Esercito Arabo Siriano (Eas) disponeva di circa 300.000 uomini (tre Corpi d'armata e un raggruppamento direttamente dipendente dallo Stato maggiore, per tredici divisioni: sei corazzate, quattro meccanizzate, due di Parà/Forze speciali, una meccanizzata di Guardie repubblicane, due brigate di fanteria indipendenti e sei reggimenti di Commandos indipendenti). Struttura portante per ogni comando di divisione, la brigata. La maggiore presenza di truppe (divisioni) all'inizio della guerra si trovava nella parte sudovest della Siria, l'11ª divisione era nella zona di Homs, la 18ª in quella di Aleppo, mentre la 17ª era nella parte est, zona di Deir Ezzour.
Non casualmente gli invasori takfiri avevano concentrato gli attacchi sulle città lontane dai centri con maggiore presenza di truppe governative (Hama, Homs e anche Aleppo), al fine di far concentrare su di esse il più consistente sforzo bellico, lasciando così sguarniti centri vitali; tenuto conto dei continui e abbondanti flussi di militanti jihadisti, questo avrebbe significato esporsi a una vasta manovra di accerchiamento non solo in caso di rovescio militare su quel fronte, ma anche qualora il massiccio concentramento governativo su esso venisse - per così dire - "agganciato" dal nemico, in modo da non poter effettuare manovre di ripiegamento senza incorrere in forti perdite. Tanto più che inizialmente l'Eas non era preparato a condurre una guerra non puramente convenzionale.
La prima fase del conflitto, quindi, fu di sostanziale ripiegamento difensivo e poco impegnata sul piano militare, mentre su quello politico il governo riscosse i suoi successi nel referendum costituzionale del febbraio 2012 e nelle elezioni di primavera: entrambi ignorati dai media e dai governi occidentali, in quanto suscettibili di far argomentare (non foss'altro per l'entità della partecipazione popolare) che tutto sommato l'elettorato siriano preferiva lo statu quo alle scelte auspicate da Washington e dall'Ue. Si trattò di successi politici del tutto ininfluenti sul piano militare, e infatti la stessa Damasco fu direttamente minacciata dai jihadisti, con l'attentato al ministero della Difesa (in cui morirono il ministro, generale Dawoud Rajiha, e furono seriamente feriti vari ufficiali d'alto rango) e combattimenti nella capitale. Poi i jihadisti vennero respinti, fu messo in sicurezza l'Aeroporto internazionale e le residue sacche nel Rif Dimanshq non furono più un reale pericolo.
Prima dell'intervento russo si è rivelata fondamentale, nel gennaio 2013, la decisione governativa di formare i Comitati popolari di difesa (detti anche "Milizia Ndf"), nelle cui fila entrarono veterani, giovani non ancora in età di leva, miliziani di gruppi già formatisi in via spontanea, militari rimasti separati dalle unità di appartenenza o anche disertori pentiti. Non solo furono dotati di armi automatiche, ma anche di lanciarazzi, mortai leggeri e medi, e di artiglierie di piccolo e medio calibro, in modo da far svolgere a questi miliziani gli indispensabili compiti di appoggio all'Eas, o presidiando e pattugliando territori già liberati o effettuando operazioni su scala ridotta. Il fatto di operare essenzialmente nelle zone di origine ha reso queste formazioni maggiormente motivate. Né va trascurata al riguardo l'importanza dell'apporto addestrativo da parte di elementi della Guardia rivoluzionaria iraniana. Poi sono intervenuti i Battaglioni del Partito Baath, unità di profughi palestinesi filosiriani e anche milizie religiose sciite e cristiano-assire. Questi volontari sono "coperti" dal mantenimento dei precedenti posti di lavoro, le loro famiglie ricevono dal governo aiuti alimentari e sovvenzioni, e spetta loro metà della paga dei soldati.
Nell'immediato le cose non sono state tanto semplici, giacché le forze armate di Damasco hanno dovuto subire duri colpi da parte jiahdista, come a Idlib, a Jisr al-Shoughour e a Tadmur-Palmira. Tuttavia il collasso militare non c'è stato. Da notare che l'"informazione" occidentale nulla dice circa la tenace resistenza, da anni, dei centri sciiti di Fouaa e Kafraya, oppure dei villaggi della zona di Aleppo come Nubbul e Zahraa; oppure del lungo assedio sostenuto dai militari nella prigione principale di Aleppo, solo alcuni mesi fa liberati dalla stretta jihadista, o anche dei due anni di assedio alla base di Kuweires o della strenua resistenza dei governativi a Deir Ezzour e Hasakah (difesa, oltre che da soldati dell'Eas e miliziani dell'Ndf, dalle Brigate del Baath e da cristiani assiri e curdi).
L'INTERVENTO RUSSO E LA SITUAZIONE ATTUALE
Ovviamente l'intervento russo ha fatto sì che le forze armate governative potessero passare a una fase più apertamente offensiva su veri settori, e da qui la riconquista di Homs e Hama, e una sostanziale rimonta ad Aleppo. In questa città i combattimenti continuano, ma ai jihadisti resta solo la parte est con 300.000 abitanti, mentre la parte ovest con 2 milioni di abitanti è sotto il controllo delle forze di Damasco. Innegabilmente senza l'intervento russo - a fronte del non ancora esaurito "serbatoio" di rinforzi umani per i jihadisti - il governo damasceno non avrebbe potuto passare all'attuale fase offensiva. Viene infatti valutata a circa il 70% la perdita del potenziale bellico dei jihadisti a seguito dei bombardamenti russi sui loro magazzini e fabbriche di armi, munizioni, esplosivi e sui depositi di carburante, oltre che sui centri di comando. Anche la loro capacità di manovra e di coordinamento rientra nella predetta percentuale.
Da ciò derivano estreme difficoltà per i jihadisti, dovendosi essi orientare sulla difesa delle posizioni ancora tenute. Proseguire nelle operazioni offensive implicherebbe infatti manovre e concentramenti di uomini e mezzi di una certa entità; cioè qualcosa di non occultabile alla sorveglianza aerea (oggi russo-siriana). E sempre di qui la maggiore capacità di manovra dell'Eas, tanto più che il ritiro dei jihadisti da vari centri abitati rende più agevole l'utilizzazione delle forze corazzate sostenute da un'aviazione che martella le postazioni nemiche prima dell'assalto finale. Superfluo dire che da sempre i conflitti locali servono pure a "testare" i nuovi armamenti, come sta accadendo per i blindati russi 8×8 Bumerang e il nuovo carro T-15.
L'intervento aereo russo conta su vari punti di partenza: la base di Mozdok nell'Ossezia del Nord, con 12 bombardieri pesanti Tu-22M3, in grado di operare in Siria dopo 2 ore e 44 minuti, protetti da una batteria di missili antiaerei S-400 stanziata nella base di Humaymim, Lataqia (è una delle quattro inviate in Siria), e dalla batteria della base di Quwayris, a 30 km a est di Aleppo; circa 64 aerei saranno presto operativi a Humaymim (24 Su-24M2, 12 Su-25, 12 Su-34 e 16 Su-30SM). Infine, una volta terminato il processo di modernizzazione dell'aeronautica militare siriana, entreranno in funzione dai 66 ai 130 aerei siriani (9 MiG-29SMT, 21 Su-24M2, 36 Jak-130 e probabilmente 64 MiG-23-98), in aggiunta ai 112 non modernizzati ma riparati dai russi (MiG-21, Su-22M4 e L-39). Sarebbe folle ritenere che tutto questo costoso materiale riguardi solo un intervento a favore di un alleato sul punto di crollare.
La presenza dell'Isis in Siria è innegabilmente pericolosa, ma non va valutata semplicemente guardando la carta geografica, oppure omologandola a quella in Iraq. Mentre in quest'ultimo paese l'Isis è insediato nella ricca e fertile zona di Ninive, in Siria in realtà controlla solo una piccola parte di "territorio utile", alcune vie di comunicazione e alcuni punti di rilievo strategico, tra cui la città di Raqqa. Le cartine pubblicate dai media in cui si evidenziano i territori siriani in mano all'Isis comprendono enormi estensioni desertiche o rocciose praticamente spopolate, talché non hanno torto quanti le considerano fonte di oggettiva disinformazione, facendo cioè dell'Isis in Siria qualcosa di più incombente e massiccio di quanto non sia.
Il 2 ottobre e il 1° dicembre dello scorso anno, Obama dichiarò che la Russia incontrava in Siria difficoltà di rilievo e che i pochi successi non compensavano gli elevati costi sostenuti e futuri, tanto da parlare di sprofondamento russo in un nuovo Afghanistan. Ma il 28 dicembre la certo non filorussa Reuters ha pubblicato una valutazione fondata su interviste ad analisti del Pentagono, con conclusioni opposte: ottimi risultati già nei primi tre mesi di intervento, scarsi costi operativi (circa 1-2 miliardi di dollari l'anno), e quindi senza sostanziali problemi di bilancio per Mosca. In concreto i predetti analisti avrebbero valutato l'intervento russo come assai flessibile e soft in quanto a materiali e forze, ma rivelando una proficua capacità di coordinamento con le forze di terra. Particolare valenza è stata attribuita a un aspetto sopra accennato: la sperimentazione russa di nuovi armamenti in condizioni di combattimento e della loro capacità operativa immediata. A parte ciò, sembra che dagli analisti del Pentagono pervengano conclusioni non in linea con la tesi ufficiale circa la Siria teatro di guerra civile in cui i russi si sarebbero infilati, trattandosi in realtà di una guerra ibrida e asimmetrica alimentata da aggressori esterni e da competizione fra potenze straniere. Valutazioni del genere inducono a riflessioni critiche circa l'operato statunitense nei recenti teatri del suo intervento bellico. Vale a dire, si profila un dubbio: finora le imprese statunitensi hanno messo in campo mezzi, uomini e risorse economiche infinitamente maggiori, ma dai non esaltanti risultati, del resto sotto gli occhi di tutti. La performance russa in Siria dal canto suo attesterebbe una sorprendente situazione di recupero militare rispetto agli anni '90, con l'ulteriore interrogativo - in prospettiva - circa l'eccesso di congruità del potenziale militare russo rispetto agli odierni conflitti locali.
GLI USA
Poiché film e serie televisive made in Usa ci hanno abituati a divaricazioni e conflitti operativi fra Cia, Fbi, Dea e varie altre agenzie di intelligence, quanto segue non sembrerà molto strano o del tutto anomalo. Secondo un articolo di Seymour Hersh, pubblicato alla fine dello scorso anno sulla London Review of Books, vertici del Pentagono avrebbero dato vita a una svolta contraria alla linea finora tenuta da Washington e dalla Cia. La premessa sta nell'inclusione della Turchia nel programma della Cia per armare i "ribelli moderati" in Siria, e nel fatto che il governo turco decise di effettuare un "riorientamento" di questi aiuti statunitensi in favore dei jihadisti, tra cui Jabhat an-Nusra e l'Isis. Al Pentagono, invece, si sarebbero "accorti" della sostanziale inesistenza di questi ribelli moderati, e quindi nell'autunno del 2013 i Joint Chiefs of Staff (Jcs) del generale Martin Dempsey avrebbero deciso di inviare informazioni di intelligence a Germania, Russia e Israele affinché le trasmettessero al governo di Assad. Certo non gratuitamente, ma con la richiesta a Damasco di cercare di mettere un po' di freno a Hezbollāh verso Israele, di tenere aperti i negoziati sulle alture del Golan e di indire le elezioni dopo la fine della guerra. Secondo questa ricostruzione, nell'estate del 2013, in barba alla Cia sarebbero state inviate ai ribelli siriani armi obsolete, quale attestazione di buona fede ad Assad. Il ritiro di Dempsey a settembre avrebbe posto fine al tentativo di intesa.
Nella Siria nordoccidentale la sconfitta jihadista sembra essere più che prossima. Nella provincia di Aleppo i governativi hanno già tagliato le maggiori vie di rifornimento dalla Turchia ed è finito il quadriennale assedio di Nubul e al-Zahra, con la liberazione di più di 70.000 abitanti, e la stessa grande città del nord non è lungi dall'essere ripulita dalla presenza takfira, e non c'è da stupirsi se a breve tutto il confine turco sarà di nuovo sotto il controllo di Damasco. Anche la provincia di Lataqia è praticamente ripulita.
Importante, anche in prospettiva, il fatto che nella Siria nordoccidentale la sconfitta jihadista sembra essere più che prossima. Si ha notizia che dal 10 febbraio sono in corso scontri e bombardamenti a nordovest della base aerea di Kuweyres contro militanti dell'Isis che cercano sia di arginarne l'avanzata governativa verso la parte orientale del sobborgo industriale aleppino di Sheikh Najjar (il che preluderebbe alla chiusura di una vasta sacca tra l'aeroporto di Aleppo e Kuweyres), sia di prevenire la riconquista di Al-Sin e Jubb al-Kalb. Il giorno 9 si è avuta notizia dell'arrivo a Damasco e Aleppo di ben 6.000 ufficiali e soldati iraniani: questo dopo un'opera di disinformazione di Teheran per far credere a un suo ritiro militare dalla Siria.
TORNA IL PROBLEMA CURDO
Ci sono due fatti importanti da ricordare. Il 7 febbraio truppe siriane (appoggiate da miliziani di Hezbollāh e da paramilitari iracheni di Nujaba, Kataeb Hezbollah, Badr) hanno occupato la località di Kiffin, prossima a Ziyarah (sotto controllo di milizie curde) e creato nella zona un centro di coordinamento siriano-curdo, sia in funzione operativa sul campo, sia per non lasciare ai soli occidentali la "carta curda". A ciò si aggiunga che truppe siriane e iraniane hanno l'ordine di non ostacolare l'azione delle milizie curde, ed è chiaro l'intento russo di far valere nei "colloqui di pace" (a prescindere dall'esito che daranno) il peso dell'avanzata delle forze curde verso il confine turco.
E proprio la questione curda potrebbe trovarsi dietro al fatto che, nel quadro della persistente e non ridotta tensione fra Russia e Turchia, si sia parlato da parte russa di un possibile intervento turco in Siria – seguìto dal minaccioso avvertimento che ogni eventuale incursione sarà affrontata con la forza e non con la diplomazia. Che Erdoğan possa compiere qualche colpo di testa non è impossibile: semmai c'è da chiedersi fino a che punto la Nato sarebbe così folle da andargli dietro. E c'è pure da domandarsi se esista un collegamento tra una tale previsione e la messa in allerta - ai primi di febbraio - delle forze aviotrasportate del Distretto militare meridionale russo. Il fatto è che il coordinamento tra i governativi siriani e le milizie curde potrebbe accelerare la completa e forse definitiva chiusura del confine turco ai rifornimenti per i jihadisti. Su Ankara incombe sempre il pericolo di saldature fra i curdi della Siria e quelli della Turchia, cosa suscettibile di complicare le relazioni anche con gli Usa. In precedenza Erdoğan aveva minacciato di bombardare i curdi siriani se avessero superato la linea dell'Eufrate, e quando in estate si prospettò un'operazione curda per prendere Jarabulus e quindi interrompere i rifornimenti all'Isis, la Turchia minacciò l'intervento militare: questione tamponata dagli Stati Uniti annullando quell'operazione. Sta di fatto che a nord di Aleppo i curdi hanno operato sotto la copertura degli aerei russi e si sono comunque avvicinati al confine. In questo pasticcio le possibilità di manovra russe ci sono eccome, facilitate dalla contraddittorietà (ovvero incompatibilità) delle alleanze di Washington. Non è chiaro fino a che punto Bashar al-Assad sia del tutto felice per la prospettiva di un'alleanza con i curdi, ma è certo che - a prescindere dal non potersi opporre alle manovre moscovite in questo senso e dall'utilità militare dell'apporto curdo - nel dopoguerra la questione dovrà essere affronta da Damasco realisticamente, e non certo lasciandola irrisolta alla maniera turca. Vedremo come andrà a finire, ma se davvero Putin riuscisse a sfilare i curdi (Iraq a parte) dall'intesa con gli Stati Uniti farebbe un bel colpaccio.
venerdì 12 febbraio 2016
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