di Riccardo Achilli da sinistrainrete
Un articolo di 2 anni fa che vale la pena di rileggere. Giudicate voi
Ho
finora sempre sostenuto la strategia della permanenza nell’euro, e
della lotta "da dentro", contro le politiche economiche imposte dai
trattati europei. Oggi ho cambiato posizione, sostenendo l’esigenza di
mettere sul tavolo un piano di fuoriuscita, il più possibile ordinato,
dall’euro stesso. Cerco di dare conto delle ragioni di questo mio
cambiamento di opinione.
I non- problemi: per sgombrare il campo
Il
problema non è quello di pensare, come fanno i sovranisti monetari, che
recuperando sovranità monetaria possiamo stampare moneta a go-go,
uscendo magicamente dalla crisi. La fragilità della ripresa giapponese,
che nonostante politiche gigantesche di quantitative easing e di
acquisto di titoli del debito pubblico (cfr. grafico) è caduta in
recessione, ma anche la fragilità intrinseca dell’economia statunitense
dopo i grandi Q.E. fatti dalla FED (con una crescita trimestrale del PIL
reale caduta per ben due trimestri in recessione, ed uno in
stagnazione, da metà 2009 ad oggi, e con segnali di rallentamento anche
per il terzo trimestre 2014) dovrebbe far riflettere molto
sull’efficacia degli strumenti monetari.
Soprattutto
per chi conosce un po’ di teoria keynesiana. Infatti, i meccanismi di
trasmissione di un impulso monetario verso l’economia reale si arrestano
in condizioni particolari, dette di trappola della liquidità, nelle
quali le aspettative degli operatori bancari che ricevono la liquidità
primaria dalla Banca Centrale sono improntate alla certezza che i tassi
di interesse non possano scendere, per cui assorbono qualsiasi quantità
di moneta venga loro offerta, senza rimetterla in circuito
nell’economia. Soprattutto se poi questi operatori bancari sono in
difficoltà patrimoniale, come mostra l‘asset quality review fatto
recentemente dalla Bce, in cui quattro banche italiane, di cui due di
rilevanza nazionale (Mps e Carige) risultano in condizioni di carenza
patrimoniale anche dopo le operazioni di rafforzamento fatte quest’
anno, e, in base allo stress test, il Cet 1 ratio delle banche italiane
sarebbe inferiore a quello medio europeo (10,2%, a fronte dell’11,8%).
In tali condizioni, quindi, le banche assorbirebbero una grande quantità
di liquidità emessa da una neonata Banca d’Italia che tornasse a
stampare lire, neutralizzando qualsiasi effetto reale del Q.E.,
soprattutto se una uscita disordinata dall’euro comportasse fenomeni di
corsa allo sportello da parte dei risparmiatori.
Asset totali delle principali banche centrali
Fonte: Financial Times, IMF, Haver Analytics, Fulcrum Asset Management LLP
Il motivo non è neanche quello riferito ai vantaggi esportativi da svalutazioni competitive. Tutti gli studi, ivi compreso uno recente di Tockarick (2010) pubblicato peraltro fra i working papers del FMI[1] , e che già tiene conto dell’effetto della partecipazione all’euro, mostrano che la condizione di Marshall-Lerner è verificata. Ma evidentemente l’argomento per uscire dall’euro non può essere quello che l’uscita ci migliora le esportazioni! Per questo, basterebbe una politica valutaria che guidi l’euro verso una svalutazione, ed il gioco sarebbe fatto, atteso che l’Italia sta destinando quote crescenti del suo export verso i mercati no-euro già da diversi anni a questa parte[2].
La vera ragione
No.
La ragione vera, a mio avviso, è più profonda, ed è a cavallo fra
politica ed economia. Per motivi in parte di convenienza economica, ma
anche di cattura del consenso elettorale interno, e più in generale per
un interesse specifico di ristrutturazione classista in senso regressivo
dell’intera Europa, la Germania e la corona dei Paesi nordici,
supportati dagli organismi tecnici del capitalismo finanziario globale,
impongono, contro ogni razionalità economica una strategia di politica
economica disastrosa. La deflazione non è un tragico effetto inatteso
delle politiche economiche neoliberiste in atto, ma è voluto,
anticipato, nel 2013, da una intervista chiarissima di Hans-Werner Sinn,
capo del centro studi economici IFO e consigliere economico della
Merkel, che prefigurava esattamente una deflazione interna come strada
maestra per i Paesi più indebitati dell’area-euro, stimando anche
l’entità di tale deflazione (10% per l’Italia, 30% per la Grecia)[3] .
Tra l’altro, la deflazione conviene a milioni di piccoli e medi
risparmiatori tedeschi, stante il valore particolarmente basso del
rendimento nominale dei Bund, che ovviamente richiede una inflazione
prossima allo zero. E costoro rappresentano la spina dorsale
dell’elettorato del partito della Merkel, che ha costruito quella
Germania di ceti medi tutelati dalle politiche di austerità imposte agli
altri, che siede sulla polveriera dell’immiserimento del resto del
continente.
E più in generale, la
deflazione dei costi è voluta dal capitalismo transnazionale,
finanziario e delle multinazionali, ed appoggiato anche dai piccoli
capitalismi nazionali, pure nei Paesi in crisi, perché comporta un ovvio
spostamento della ricchezza dal lavoro al capitale. Il grafico seguente
mostra il calo del rapporto fra retribuzioni lorde dei lavoratori e
Pil, in Italia, fra 2009 e 2013: in questi 4 anni, detto indicatore
perde 0,7 punti. Evidentemente, la ricchezza prodotta che non è più
destinata a retribuzioni, viene destinata a profitti e rendite.
Questo
scenario, però, prefigura la riduzione di ampie parti dell’Europa verso
la fascia medio-bassa della ricchezza, condannandole a sopravvivere di
esportazioni di prodotti di fascia medio-bassa, che giustifichino costi
competitivi, o di turismo dall’area “ricca” dell’Europa, mentre
l’industria ad alto valore aggiunto, che garantisce quindi gli spazi per
la crescita dei salari, sarà concentrata in Europa del Nord. Un vero e
proprio progetto egemonico, nel quale borghesie nazionali sempre più
compradore si ritaglieranno spazi di sopravvivenza sulla compressione
dei salari e dei diritti, magari operando come fornitori dei sistemi
produttivi più avanzati del Centro-Nord Europa. Non è infatti un caso se
le politiche di austerità e deflazione sono accompagnate in modo
stretto dalle “riforme strutturali”, miranti ad indebolire i sistemi di
difesa del lavoro, ed a flessibilizzarlo sempre più.
Andamento del rapporto percentuale fra retribuzioni lorde e Pil in Italia
Elaborazione su dati Istat
Questo
sistema avrà i punti di tenuta, da un lato, in una riduzione
progressiva degli spazi democratici e di espressione a livello nazionale
(e nelle riforme istituzionali che convergono verso un presidenzialismo
associato a leggi elettorali dove è forte il controllo delle direzioni
dei partiti sugli eletti si vedono già alcuni sintomi, accanto a
provvedimenti mirati esplicitamente a ridurre lo spazio di espressione
politica sul web, o a dibattiti sempre più frequenti su regolamentazioni
restrittive del diritto di sciopero) e dall’altro proprio nella
sopravvivenza dell’euro. Infatti, l’appartenenza ad una medesima area
valutaria, dove i movimenti di capitale sono perfettamente
liberalizzati, crea un differenziale di credibilità, sui mercati
finanziari, fra i Paesi caratterizzati da alto debito e bassa crescita,
ed i Paesi a più basso debito ed a più alta crescita.
Detto
differenziale di credibilità costringe i Paesi meno virtuosi ad una
strategia del tipo “follow the leader”, fatta di politiche di austerità e
di deflazione interna tali da portarli sullo stesso livello del leader,
in termini di saldi di finanza pubblica, CLUP e inflazione potenziale.
Il prezzo da pagare nel non seguire tale strategia è ovviamente
costituito dalla crescita dello spread sul servizio del debito, fino a
livelli da default. D’altra parte, però, la strategia “follow the
leader” comporta una continua rincorsa al ribasso (se il leader continua
a fare politiche di contenimento della spesa pubblica, della domanda e
dei suoi costi interni) che avvita chi insegue in una spirale mortale di
austerità-deflazione-decrescita-ulteriore aumento degli squilibri di
finanza pubblica (endogeni sia alla decrescita che alla riduzione
dell’inflazione, che fa lievitare gli interessi reali sul debito, e
riduce la svalutazione della sua quota capitale) ed ulteriore spinta
verso la decrescita e la deflazione. Una situazione sintetizzabile da
una antica fiaba contadina: un uomo sogna di prendere la Luna che si
specchia, di notte, nell’acqua del suo pozzo. Butta nel pozzo il suo
bugliolo, ma quando lo ritira è pieno d’acqua, e il riflesso della luna
rimane dentro il pozzo. A forza di buttare il bugliolo per catturare il
riflesso della Luna, il pozzo rimane senz’acqua. L’uomo muore di sete.
Il riflesso della Luna è scomparso, e l’astro splende, irraggiungibile
ed indifferente a noi mortali, nel cielo.
Per uscire da questa tragedia annunciata, ci sono solo tre possibilità:
a) Il
leader cambia direzione alle sue politiche, in senso espansivo,
consentendo a chi insegue di rifiatare. Non ci sono oggi le condizioni
politiche per questo. La Germania non ha alcuna intenzione di veder
ridurre il suo straordinario avanzo commerciale, facendo politiche di
sostegno alla domanda interna che vadano oltre il compromesso fatto, in
sede di accordo di Governo, con la Spd (e che in un mio precedente
articolo, http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2013/11/un-accordo-dignitoso-di-riccardo-achilli.html#more
, stimo avere un impatto di riduzione, nel medio periodo, di circa 2
punti, del saldo commerciale tedesco, evidentemente troppo poco per
rilanciare la crescita del resto dell’area-euro) ed anche l’annunciato
programma di investimenti infrastrutturali sembra essere piuttosto
modesto in termini di impatto sulla domanda interna tedesca, poiché i 10
miliardi di investimenti annunciati da Schaeuble saranno coperti dai
300 miliardi di investimenti annunciati da Juncker (ed è quindi una
partita di giro: la Germania si riprende una parte dei soldi che eroga
al bilancio Ue) e comunque gli effetti sul debito interno tedesco
saranno sterilizzati, con tagli alla spesa pubblica in altre voci;
b) A
livello europeo, si accentrano le politiche fiscali nazionali,
lanciando un programma di crescita della domanda e di rilassamento
fiscale, assieme ad una mutualizzazione dei debiti pubblici nazionali,
oppure ad una significativa ristrutturazione di quelli dei Paesi più
indebitati. Manco a parlarne: queste cose non le vogliono nemmeno i
socialisti europei, e tutto ciò che è stato ottenuto per il prossimo
quinquennio è un miserrimo programma di investimenti da 300 miliardi
(pari al 3% del totale degli investimenti fissi lordi fatti in un solo
anno a livello di area-euro, una goccia nel mare, una presa in giro);
c) Si
esce dall’euro (ma non dal mercato unico europeo, né dalle istituzioni
della Ue), nel modo più ordinato e concordato possibile. Più nello
specifico, ad esempio, si potrebbe costituire una parità centrale fra
lira ed euro, con margini di oscillazione ampi (ad esempio, + o – il
20%) e stabilendo un committment politico di lungo periodo, in termini
di mantenimento di una disciplina di bilancio pubblico coerente (che non
significa austerità, ma solo gestione ordinata e prudenziale dei conti
sul versante del solo saldo fra entrate ed uscite correnti, tecnicamente
il cosiddetto risparmio pubblico, che dovrebbe rimanere tendenzialmente
positivo, senza però stabilire parametri quantitativi, ed abolendo
tutti quelli oggi imposti dai Trattati Europei) e di target
inflazionistico positivo, ma non eccessivo (dell’ordine del 4-5%) nelle
politiche monetarie, ristrutturando al contempo il debito, in modo
concordato con le Autorità internazionali, e destinando a riduzione del
debito, e non del disavanzo, le imposte patrimoniali già esistenti (come
l’imposizione sulla casa, ad esempio). Evidentemente, sarebbero i
mercati stessi a punire una deviazione da tale committment.
E’
evidente che, se le prime due strade sono precluse, l’unica strada per
evitare di fare la fine del proprietario del pozzo è la terza, cioè
l’uscita dall’euro, al di là dei dettagli tecnici che poi fornisco sul
“come uscire”, sui quali si può essere o meno d’accordo. Anche perché,
continuando su questa strada, la fine dell’euro avverrà per
autocombustione, perché è diventato socialmente, prima ancora che
economicamente, insostenibile. Ma usciremo in condizioni di degrado
degli assetti economici, politici e sociali, molto più gravi di quelle
che otterremmo uscendo subito. Siamo come i protagonisti di un film
americano, L’Inferno di Cristallo. Se rimaniamo nel palazzo in fiamme,
abbiamo la certezza di morire incendiati. Se ci buttiamo fuori, forse
moriamo, forse no.
Possibili obiezioni e mia opinione in merito
Qualcuno
potrebbe dire: va beh, ma non ci sono le condizioni politiche per
uscire dall’euro. La mia risposta è: ci sono allora le condizioni
politiche per imporre una delle due summenzionate strategie, la a) o la
b)? Direi di no. E’ inutile che continuiamo ad aspettare un Godot, che
non arriverà mai, e che cambierà le carte in tavola nella politica
europea. Basta guardare a ciò che è successo sinora. Il socialismo
europeo non è stato assolutamente in grado di esercitare alcun ruolo
significativo in questi anni, di fatto ratificando l’austerità, e
respingendo qualsiasi ipotesi, non dico di mutualizzazione dei debiti,
ma quantomeno di calmieramento degli interessi sugli stessi (attraverso
ipotesi, come il redemption fund, che lo stesso Martin Schulz ha
respinto nella sua campagna elettorale). Tale ruolo ancillare del
socialismo europeo è arrivato fino al punto di votare la fiducia alla
Commissione Juncker senza alcuna traccia di un negoziato programmatico,
talché la dialettica politica europea è tutta interna alla destra
popolare, fra sostenitori dell’economia sociale di mercato e più
ortodossi monetaristi. Una dialettica ovviamente inadeguata a
rappresentare la gravità della situazione. E francamente il dibattito in
Germania sulla questione è limitato ad ambienti intellettuali o
sindacali, che non ricevono attenzione nemmeno dalle componenti più
filogovernative dell’Spd. Mentre il suicidio politico dei socialisti
francesi, guidati, nonostante mal di pancia inoffensivi e dichiarazioni
roboanti e poi smentite dai fatti, dal rigorismo di Hollande e Valls,
rende semplicemente impossibile immaginare un asse euromediterraneo
anti-austerità. Anche perché l’altra estremità dell’asse dovrebbe essere
Renzi. Figuriamoci… In sostanza, se la destra europea non è in grado di
offrire altro che miserrimi programmini di investimento, nel quadro
della prosecuzione dell’austerità, il socialismo europeo sembra aver
esaurito tutte le, pur numerose, opportunità che ha avuto in questi anni
per imporre un cambiamento di direzione alle politiche europee.
Altra
obiezione: ci rischi enormi di buttarsi fuori dalla finestra. Rischi
che peraltro pagherebbero le classi più deboli della società, quelle che
la sinistra ha il dovere di tutelare. I rischi tradizionalmente
menzionati (inflazione importata) sono stupidaggini. Anzi, ben venisse
un po’ di inflazione. La fuga dei capitali può essere contenuta con
misure amministrative, e comunque già oggi dal nostro Paese i capitali
fuggono in misura molto massiccia.
Il rischio è un altro. I recenti lavori di Brancaccio e Garbellini (2014)[4]
mostrano che un’uscita dall’euro avrebbe effetti negativi sulla
dinamica dei salari reali e sulla quota dei salari rispetto al PIL,
quantificabili, per un Paese come l’Italia, in 4 punti di caduta del
salario medio nell’anno della fuoriuscita (però in cinque anni il
salario recupera e cresce di 1,7 punti) e in una riduzione di 5 punti
della quota salari/reddito nazionale in 5 anni. Ma, ripeto, le stesse
classi sociali deboli sono schiacciate, già oggi, anche dalla
prosecuzione sine die di un’austerità, più o meno moderata, che promette
altri decenni di lenta deriva sociale e stagnazione economica ed
occupazionale. Gli stessi Brancaccio e Garbellini, infatti, ci dicono
che negli ultimi cinque anni i salari medi lordi reali italiani sono
diminuiti di 2,2 punti, per effetto della crisi, e, come ho evidenziato
io prima, la quota retribuzioni lorde/PIL è diminuita di 0,7 punti in
quattro anni. Quindi, qui si tratta di scegliere fra una morte lenta, ma
sicura, ed uno shock che, forse, potrebbe nel medio periodo invertirsi e
riportare verso la crescita i salari (come per l ‘appunto nelle stime
di Brancaccio). Fra la certezza di un declino lento e la possibilità di
invertirlo, seppur dopo uno shock nel breve, io ho pochi dubbi su quale
strada scegliere.
E
poi si possono immaginare anche i doverosi paracadute, utili a far
passare la nottata nella fase di shock da fuoriuscita: sistemi di
indicizzazione dei salari, meccanismi di reddito minimo garantito,
programmi di edilizia popolare e di lavori di pubblica utilità,
interventi di calmieramento dell’aumento del prezzo delle materie prime
energetiche importante, panieri alimentari sovvenzionati, ecc. Tutti
interventi mirati a sostenere i salari ed il tenore di vita nella fase
di fuoriuscita, e quindi a ridurre gli effetti negativi di cui sopra.
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