domenica 7 febbraio 2016

L'asse tedesco-tedesco

da Goofynomics

(...da Londra...)

Luigi (nome di fantasia) è un'affabile e intelligente persona. Ci sentiamo ogni tanto al telefono, più raramente mi invita nel suo lussuoso appartamento a discutere, en petit comité, gli sviluppi della situazione. Sono i momenti nei quali intuisco che in effetti essere un miliardario avrebbe un certo fascino, soprattutto in un paese nel quale ancora puoi permetterti di non girare per strada sotto scorta (salvo casi eclatanti). La vita di tutti i giorni ne risulta considerevolmente semplificata, il che, inutile negarlo, libera tempo da dedicare all'otium. Va anche detto che la maggior parte dei miliardari che conosco è la dimostrazione vivente del fatto che le materie prime non sono un problema: di tempo libero ne hanno tanto, ma lo buttano al cesso. Luigi è un po' diverso. A lui, che non è un economista ma i soldi li ha fatti (a differenza dei tanti cialtroni accademicamente titolati cui non affiderei dieci euro per andare a comprarmi il pane e il latte, perché non saprebbero controllare il resto), a lui, che quindi ha girato il mondo non per dimenticare l'Italia, ma per valorizzarla (il marchio che ha creato è parte integrante del nostro prestigio), a lui, dicevo, dell'integrazione europea colpisce la distonia culturale, l'aver voluto superare il nazionalismo degli Stati creando un mostro statalista che avrebbe senso solo se sostenuto da una cosa che non c'è perché non ci può essere: una nazione europea. Luigi insomma è la prima persona cui ho sentito articolare (anche nel dibattito) la riflessione che Giandomenico Majone stava sviluppando nel dibattito scientifico, e che anch'io avevo confusamente anticipato nei miei libri che non sono solo divulgativi: combattere il nazionalismo con una supernazione non è cosa molto coerente logicamente, e in fondo nemmeno operativamente. La creazione dei due stati nazionali più recenti (Germania e Italia) non credo possa essere considerata esattamente una best practice, eppure è avvenuta proprio nel modo in cui ci si dice che dobbiamo operare, perché, ci si dice, è l'unica via di salvezza: cedendo sovranità. Ora, ai tempi, questa cessione, che ha funzionato poco (vedi il persistere dei noti divari fra Nord e Sud o fra Ovest e Est), era almeno in parte motivata da uno stimolo positivo: l'esistenza di un dato culturale, l'identità linguistica, che giustificava l'ambizione a gestire insieme uno spazio comune, anche a costo di qualche sacrificio.

Oggi, se ci fate caso, questa cessione è motivata principalmente da uno stimolo negativo: la paura. Paura della Cina, paura dei migranti. Il terrorismo psicologico è stato apertamente teorizzato da Mario Monti come elemento portante della creazione di una nuova identità, come qui sappiamo bene. Che non sia solo teoria ma anche prassi lo abbiamo visto in occasione dei fatti di terrorismo che ci hanno sconvolto lo scorso anno, e che sono subito stati sfruttati dai media di regime per invocare, con un salto logico rivelatore di una vera e propria psicosi (e di un livello patologico di poraccesimo), gli Stati Uniti d'Europa.

Quindi, cosa vogliamo aspettarci da un sistema che non solo ricalca un modello di integrazione fallimentare (e in quanto tale disapplicato nel resto del mondo, dove non esistono esperimenti di integrazione economica che ambiscano a darsi statura politica), ma in più lo persegue sulla base di motivazioni negative e intrinsecamente distoniche? Se per costringere qualcuno a fare qualcosa devi terrorizzarlo, intanto c'è qualcosa che non va, e poi non è detto che la cosa finisca bene.

E infatti...

Nel corso delle nostre amabili conversazioni, Luigi, che è meno giovane di me, ricorda spesso una frase, credo di De Gaulle: quella secondo cui l'Europa sarebbe stata un carro tirato da un cavallo tedesco e condotto da un nocchiere francese (non so se la frase sia esattamente così, non so se sia di De Gaulle, ma sicuramente qualcuno di voi lo sa). Frase che ricorre ogni volta che Luigi mi riespone quella che secondo lui è la motivazione profonda dell'euro: il desiderio francese di supremazia, presentato, per indorare la pillola, come asse franco-tedesco.

Una cosa della quale mi è stato chiesto di parlare qui:

 

Ora, come sapete, io a questa versione dei fatti credo poco. Certo, Mitterrand era un tronfio imbecille puttaniere (definizione un po' riduttiva, ma tutto sommato comprovata dall'evidenza), però in questa concettualizzazione molte cose non mi convincono. Sì, chiaro, esisteva all'epoca l'idea, impersonata qui da noi da quell'altro fulmine di guerra di Modigliani, che la moneta unica avrebbe avuto una gestione comune, e che quindi "più Europa" avrebbe significato meno Germania. Come sia finito lo abbiamo potuto vedere: male. La Bce è una grande Bundesbank, e la stessa cosa accadrebbe a livello di politica fiscale, se si procedesse verso un bilancio federale europeo. Del resto, sta già accadendo, non vedete? Smigol vuole imporre un'accisa a casa nostra per risolvere un problema che il suo paese ha creato, e che però ora si manifesta anche da loro (finché si manifestava solo da noi, non c'era bisogno di condividere i costi). Non si capisce come andrebbe a finire? E poi, quale asse vuoi che esista fra un paese che una valuta debole (per lui) rende strutturalmente creditore, e un paese che una valuta forte (per lui) rende strutturalmente debitore? Cioè, rispettivamente, fra Germania e Francia?

E infatti l'asse non c'è. L'asse franco-tedesco è morto, e lo si vede bene se si conoscono le dinamiche in atto a Bruxelles. Dinamiche che, come sempre, non hanno nulla di occulto: tutte le informazioni disponibili a ricostruirle sono pubbliche, ma se non sei del mestiere necessariamente ti sfuggono. Il punto qui è molto evidente: mentre portava avanti l'Anschluss dei suoi fratelli dell'Est, la leadership tedesca (un gruppo, come vedremo, piuttosto ristretto di persone unite da legami partitici e personali) pianificava l'Anschluss di tutto il resto, infiltrando con abilità e senza alcuna particolare azione di contrasto dei suoi elementi in ogni posto chiave delle istituzioni europee. Posti, notate bene, che sono appena sotto il pelo dell'acqua (o del fluido al quale volete paragonare le istituzioni europee), e dei quali quindi il grande pubblico (europarlamentari e governanti periferici compresi) non intuisce la rilevanza strategica. Motivo per cui questa occupazione ha potuto procedere indisturbata, superando il punto di non ritorno.

Pensate che esageri?

Non lo penserete più dopo che vi avrò fatto pochi esempi, fra alcune decine che potrei produrvi.


Iniziamo dal Parlamento europeo, il cui membro più longevo, che vi siede ininterrottamente fin dalla prima elezione nel 1979, è Hans-Gert Pöttering. Pöttering (classe 1945) è membro della CDU- CSU, il partito di Angela Merkel. È anche stato Presidente del Parlamento, fra il 2007 e il 2009, ed è presidente della Fondazione Adenauer, ma ciò che lo rende uno degli uomini più influenti a Bruxelles è il fatto di essere l'uomo di fiducia di Angela Merkel per tutte le questioni europee. Durante la sua presidenza, il suo capo di gabinetto era Klaus Welle, che poi è diventato non a caso il Segretario Generale del Parlamento, cioè il funzionario più alto in grado di tutta l'amministrazione. Classe 1964, Welle era responsabile per le politiche europee dello stesso partito di Pöttering e Merkel negli anni '90, poi passato nella delegazione del Parlamento europeo del PPE, per poi lavorare con Pöttering e finalmente insediarsi al vertice dell'amministrazione parlamentare.

Se ci spostiamo in Commissione, è noto persino ai giornali italiani (di solito non molto informati sulle vicende comunitarie) che il nuovo capo di gabinetto del Presidente Juncker sia il vero fac-totum della Commissione 2014-2019, colui il quale con una gestione inusualmente autoritaria sta imponendo una sua precisa linea politica, a volte anche scavalcando il Presidente. Martin Selmayr, classe 1970, è un giurista che ha studiato gli aspetti legali dell’unione monetaria, lavorando prima presso la BCE e poi negli uffici di Bruxelles della fondazione tedesca Bertelsmann. È stato lui e non Juncker a definire i limiti entro cui tutti i membri dell’esecutivo comunitario, i Commissari ed i Vice-Presidenti, possono muoversi, arrivando addirittura a modificarne liberamente i discorsi. Un’altra manovra piuttosto spregiudicata e significativa è stata la rotazione dei direttori generali fortemente voluta e completata da Selmayr qualche mese dopo il suo insediamento.

In quell’occasione ha abilmente piazzato il suo predecessore e connazionale Johannes Laitenberger, ex-capo di gabinetto di Barroso, a capo della Concorrenza, uno dei portafogli più importanti.
Johannes Laitenberger ha molte cose in comune con Selmayr. Entrambi sono giuristi, molto vicini al partito di Angela Merkel, la CDU-CSU. Laitenberger è stato il vero e proprio cane da guardia imposto dalla cancelliera a Barroso nel suo secondo mandato (2010-2014), in cambio della rielezione come Presidente della Commissione. Anche lui ha molto influenzato il lavoro della Commissione in perfetta sintonia con Berlino. Adesso è stato spostato a capo della direzione generale della concorrenza da Selmayr, senza che la Commissaria responsabile fosse proprio entusiasta. Per intenderci, è da lui che passeranno tutte le decisioni sugli aiuti di stato, come quelle per il settore bancario che l’Italia sta disperatamente cercando di ottenere, senza molto successo.

Chissà perché? Forse perché, come ci siamo detti, qualcuno ha deciso che invece di salvare le nostra banche con le nostre risorse, come fece la Germania, noi dovremo rivolgerci al MES, cioè alla troika. E chi comanda, al MES? Bè, ormai, dovreste averlo capito: un tedesco, Klaus Regling!

Regling è il direttore esecutivo del Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) diventato poi il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), cioè il fondo che con assoluta discrezionalità e senza alcun controllo democratico decide le condizioni da imporre agli stati membri che chiedono aiuti finanziari a Bruxelles. Regling, classe 1950, è un altro economista tedesco la cui carriera si è sviluppata per oltre vent’anni fra il Fondo Monetario Internazionale e il Ministero delle Finanze tedesco, con una parentesi presso l’associazione delle banche tedesche e una banca d’affari londinese. Nel 2001, anche lui come esterno “prestato” all’amministrazione comunitaria, viene nominato direttore generale per gli affari economici e finanziari della Commissione europea, posto che ricopre fino al 2008. Dal 2008 al 2010 ritorna a Berlino come consigliere della Merkel, e poi dal 2010 diventa il capo dei vari meccanismi finanziari attraverso i quali l’Eurozona eroga i prestiti agli stati in difficoltà. E’ lui l’architetto dei vari “salvataggi” della Grecia, dell’Irlanda, del Portogallo, della Spagna, e degli altri che verranno. Significativa fu una sua intervista del 2010 in cui criticava duramente la Commissione per non aver adeguatamente vigilato sulle finanze pubbliche in Grecia, dimenticando di dire che il direttore generale responsabile dal 2001 al 2008 era stato lui stesso. Nel 2011 il suo nome circolò anche come candidato alla presidenza della BCE.

Notate che questo gruppo di persone è fortemente coeso: sono tutti a un grado di separazione da Frau Merkel, e pronti a esprimere il prossimo personaggio da collocare al posto suo o loro, che quindi sarà, anche lui, a un grado di separazione da tutti gli altri. Funziona così.

Potrei andare avanti per altre due pagine (sapete che non vi mento, e comunque gli organigrammi delle istituzioni europee sono consultabili sui relativi siti: andate a vedere, ad esempio, chi comanda il meccanismo di risoluzione bancaria...).
A questo punto la domanda diventa: e la Francia? Come ha potuto lasciar fare? Ricordo che quando incontrai a Rouen Jean-Paul Gozès lui espresse (in pubblico) la percezione netta che l'ingresso nell'euro, che lui difendeva come scelta di progresso ecc., aveva rappresentato un punto di svolta impostante: era stato l'euro a far dimenticare Auschwitz ai tedeschi. L'alterigia che avevano deposto quando, esponenti di una Germania sostanzialmente non denazificata, si affacciavano alle prime esperienze comunitarie schiacciati dal peso degli orrori compiuti poc'anzi, l'avevano ripresa una volta acquisita la certezza di averci incaprettato.

Ma allora la Francia perché non ha reagito, non reagisce?

Il fenomeno comincia a interessare e preoccupare i commentatori esteri, i quali, se danno per scontato che governanti fanfaroni, ignoranti e maggiordomi come i nostri non capiscano e non se ne curino, trovano viceversa molto meno normale che il "nocchiere" francese del carro europeo abbia deciso di suicidarsi. I motivi sono complessi. Politico.eu li analizza in un interessante articolo che propongo alla vostra riflessione. La prima riflessione da fare, però, è che in Francia si è costituito un gruppo di studio parlamentare per investigare le cause del problema. Vi immaginate una cosa simile da noi?

Le cause sono tante, e vanno da quelle evidenti (è chiaro che l'allargamento a Est dell'Unione è stato voluto dalla Germania nel suo interesse, che non era solo economico - manodopera qualificata da far entrare facilmente nelle sue fabbriche via Schengen - ma anche politico - creazione di una rete di vassalli da usare per mettere in minoranza i partner storici), a quelle meno evidenti, fra cui una questione generazionale: i rappresentanti francesi nelle istituzioni europee stanno andando in pensione, e i giovani enarchi sono molto meno attratti di un tempo da Bruxelles. Naturalmente, è un cane che si morde la coda: più la Francia passa in minoranza, meno prestigio offrono le cariche europee, e quindi minori incentivi hanno i giovini ram-polli dell'alta borghesia francese a recarsi nelle sedi dove i tedeschi li umiliano. Meglio restarsene a casa propria, o andare all'IMF, o in qualche multinazionale. Ma così la situazione si è degradata e si degraderà ulteriormente, e alla fine, del famoso asse franco-tedesco rimarrà solo un asse tedesco-tedesco, che la Francia non vedrà nemmeno più, perché lo avrà fuori dal campo visuale.


Questo lo dico a beneficio dei buontemponi che dicono "bè, però Renzi ha sbagliato, dovrebbe creare prima una rete di alleanze, e poi fare la voce grossa!". Forse non è chiaro come stanno le cose a Bruxelles e in Europa. I governi dei paesi in crisi sono tutti sostanzialmente ininfluenti, anche quando non sono direttamente commissariati dalla Bce (come quello greco, con la marionetta Tsipras), e l'unico paese di un certo peso politico che potrebbe schierarsi con noi, cioè la Francia, non lo fa perché pensa di essere migliore di noi (e vi ho mostrato più volte per tabulas che questa è presunzione), ma anche se lo facesse non ci potrebbe ormai aiutare più di tanto a cambiare i reali rapporti di forza a Bruxelles, le cui istituzioni sono marce di metastasi tedesche.

Chiaro il concetto? Abbiamo di fronte a noi un'alternativa non semplice: o un gesto disperato ma risolutivo, o alcuni decenni di disperazione.

Chi ci comanda non ha chiari i termini del problema, ve lo garantisco (e del resto lo vedete da voi), e quindi quale sarà l'esito ve lo lascio immaginare.

Ah, a proposito: buona domenica! 
 

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