di Carlo Formenti da Micromega
La lunga recensione
(quasi un saggio breve) a "La variante populista" (DeriveApprodi)
apparsa su queste pagine e firmata da Alessandro Somma (che ringrazio
vivamente per l’attenzione con cui ha letto e analizzato il libro) mi
stimola a compiere alcune precisazioni in merito alle tesi da me
sostenute, nonché a marcare convergenze e divergenze fra i nostri punti
di vista. L’intervento di Somma si articola in varie sezioni, ma può
essere sostanzialmente ricondotto a due parti: la prima, in cui
ripercorre la pars destruens delle mie argomentazioni (che mi pare
condivida in larga misura), la seconda, più breve, in cui analizza le
mie proposte politiche e nella quale si concentrano i dissensi. Andrò
quindi di fretta sulla prima parte per arrivare al nocciolo della
discussione contenuto nella seconda.
Provo a riassumere così le
cose su cui siamo sostanzialmente d’accordo: 1) Somma riprende e
articola le mie critiche alle tesi di coloro che vedono nel cosiddetto
“capitalismo della conoscenza” il presupposto di una transizione
spontanea e indolore a una società postcapitalista – critiche che io
muovo a partire soprattutto dai lavori di Antonio Negri e André Gorz
(anche seguendo le argomentazioni di Dardot e Laval) e dai teorici della
New Economy come Yochai Benkler, mentre lui allarga il campo a Paul
Mason e al suo Postcapitalismo; 2) riprende inoltre il tema della non
neutralità delle forze produttive (cruciale per superare le visioni
“oggettiviste” della transizione al socialismo, presenti nello stesso
Marx); 3) riprende infine la mia analisi (che arricchisce in relazione
al caso Uber) sulle mistificazioni della sharing economy che, assieme
alle nuove forme di “lavoro del consumatore” mediate dai social network,
rappresenta un nuovo, formidabile dispositivo di potenziamento delle
forme di sfruttamento e controllo del capitale sul lavoro.
Passiamo
alle osservazioni critiche che mi vengono rivolte nella seconda parte.
Le elenco qui di seguito per poi discuterle singolarmente: 1) in
riferimento alla metafora delle “tessere del mosaico”, che io utilizzo
per alludere al lavoro di ricostruzione di un fronte unitario dei
soggetti sociali e politici che la “guerra di classe dall’alto” (per
usare la definizione di Gallino) del capitale globale è riuscito a
disarticolare, Somma mi rimprovera di averne una visione rigida e
riduttiva, cui contrappone la maggiore flessibilità con cui le sinistre
radicali tedesche guardano alla costruzione di un blocco
controegemonico, di un attore anticapitalista eterogeneo; 2) in questo
blocco Somma schiera a pieno titolo quei movimenti che, nel secondo
capitolo del libro, io considero invece integrati nella governance
neoliberista; 3) mi attribuisce poi una piena adesione alle tesi di
Laclau sul populismo, con conseguente semplificazione/banalizzazione del
conflitto sociale, ridotto alle coppie oppositive popolo/élite,
alto/basso; 4) critica il mio discorso sulla sovranità popolare e
nazionale come regressivo e, non ritenendo sufficiente la variante
post-nazionale che ne suggerisco, ribadisce che, a suo parere, questi
termini, in quanto patrimonio della narrazione di destra, sono
inservibili a sinistra; 5) infine – ribadito che dal suo punto di vista
non si danno diritti sociali se non si riconoscono i diritti civili (il
riferimento è alla mia polemica contro l’inversione gerarchica a favore
dei secondi ad opera delle sinistre sia moderate che radicali) – rifiuta
la mia idea del divorzio fra liberalismo e democrazia, rivendicando la
possibilità di coniugare superamento del capitalismo e liberal
democrazia.
Per quanto riguarda il primo punto: non ho mai
preteso di dare una definizione completa ed esaustiva dei soggetti
arruolabili in un blocco anticapitalista, tanto è vero che, a un amico
che nel corso di una presentazione mi ha detto che il libro finisce là
dove dovrebbe iniziare, ho risposto che il mio proposito è sollevare i
problemi nodali su cui considero urgente aprire la discussione, perché
la loro soluzione non può arrivare dal contributo di un singolo ma non
può che essere collettiva. Ciò detto, resto convinto che nessun blocco
sociale può essere una mera sommatoria di soggetti ma va costruito
gerarchicamente, a partire dall’identificazione di quelle classi,
movimenti, comunità politiche e culturali, ecc. che più di altre sono
portatrici di un potenziale antagonista. Ciò non significa che creda
nell’esistenza di avanguardie definibili apriori come tali (quasi
“naturalisticamente”) e a chi (non Somma, mi pare) mi rivolge tale
accusa, replico che si tratta di identificare, di volta in volta, la
“composizione politica” di classe – cioè quegli strati sociali che
attivamente e concretamente lottano contro il neoliberismo –
composizione che per definizione appare mutevole e contingente.
Quanto
appena affermato ci porta direttamente al terzo punto (saltando il
secondo, su cui tornerò più avanti), nella misura in cui chiama in causa
il concetto gramsciano di egemonia. Curiosamente Somma nella sua
recensione non cita mai Gramsci, mentre mi attribuisce, come scrivevo
poco fa, una posizione appiattita sul pensiero di Laclau. Ora il merito
di Laclau consiste, a mio avviso, nell’aver saputo descrivere
empiricamente la dinamica della “rottura populista” che viene a
determinarsi a partire dall’incapacità dei sistemi neo liberisti di dare
risposta differenziale ai bisogni dei vari soggetti sociali, la cui
rabbia e frustrazione tende appunto a convergere in un fronte populista e
a innescare l’opposizione antagonista fra popolo ed élite, alto e basso
(tipica la parola d’ordine di Occupy Wall Street: “We the 99%”). Ciò
detto, io rivolgo una serie di critiche radicali alle sue tesi (ripudio
dell’analisi di classe, esaltazione del ruolo del leader carismatico,
difesa delle istituzioni rappresentative, illusioni neo
socialdemocratiche, ecc.) e le reinterpreto appunto alla luce delle
categorie gramsciane di blocco sociale, egemonia, farsi partito e farsi
stato delle classi subordinate, guerra di posizione, ecc. Se il
populismo – sia esso di sinistra o di destra, perché esistono anche le
“rivoluzioni passive” – è la forma che la lotta di classe tende ad
assumere nell’era dell’eclissi delle sinistre storiche e dell’impotenza
di quelle radicali, la sua declinazione gramsciana dovrebbe essere la
valorizzazione del suo potenziale di rottura antisistemica, la spinta
alla creazione di istituzioni di democrazia diretta e partecipativa
(vedi i processi costituenti delle rivoluzioni bolivariane, pur con
tutti i loro limiti) e la lotta egemonica all’interno di tali processi
per orientarli in senso anticapitalista.
Passiamo alla questione
della sovranità popolare e nazionale. Somma afferma che: a) si tratta
di una visione irrealistica e nostalgica e che b) chiama in causa parole
irreversibilmente “contaminate” dalla narrativa di destra. Su a): oggi
la lotta di classe si presenta anche e soprattutto come conflitto fra
flussi globali (di merci, denaro, informazioni, membri delle élite) e
luoghi (i territori colonizzati dai flussi dove vivono, lavorano e
lottano le classi subalterne) – una diagnosi confermata dalle
dichiarazioni del direttore del Wall Street Journal, il quale, in
un’intervista al Corriere della Sera, ha dichiarato che il conflitto
sociale sarà sempre meno fra progressisti e conservatori e sempre più
fra globalisti e populisti - ; ma se questo è vero, irrealistica mi pare
piuttosto l’idea di competere al livello globale, laddove il capitale
controlla tutte le regole del gioco, mentre l’unica chance di rottura
sistemica si dà a livello di territorio locale (regionale e/o
nazionale). Né rimpiango lo stato nazione del trentennio glorioso (che
poi tanto glorioso non era), ma penso a forme di aggregazione
federativa, dal basso, di entità post nazionali (non fondate cioè su
basi identitarie, ma su comunità di lotta, lavoro, ecc.). La sovranità
non è necessariamente quella descritta dalla filosofia politica
classica, può assumere anche le forme descritte da Hannah Arendt, o
sperimentate nelle esperienze storiche del consiliarismo. Quanto a b):
le narrazioni cambiano, e consegnare certe parole alla destra senza
lottare per mutarne il significato mi pare un grave errore; egemonia è
anche e soprattutto lotta per il controllo del linguaggio, del senso
comune.
Siamo al punto 5 e qui compare, dopo Gramsci, un
secondo “convitato di pietra”, cioè Norberto Bobbio, il quale mi pare
faccia implicitamente capolino dietro quel Benedetto Croce che Somma
cita alla fine del suo articolo, a proposito della sua polemica con
Einaudi e della tesi di un possibile divorzio fra democrazia liberale e
capitalismo. Il vero dissidio è qui, ed è lo stesso che in altre
occasioni mi ha visto discutere amabilmente con altri amici come Stefano
Rodotà: sono infatti convinto che, mentre il divorzio fra democrazia e
capitalismo è ormai fatto compiuto, liberalismo politico e liberismo
siano strettamente interconnessi e che la lotta per la riconquista della
democrazia passi inevitabilmente per il superamento del liberismo
economico e del liberalismo politico. Del resto gli argomenti con cui
questa tesi è già stata da altri sostenuta sono arcinoti. Per citarne
solo un paio: il liberalismo politico comporta la delega della sovranità
popolare attraverso il meccanismo della democrazia rappresentativa, ma
le elezioni non assicurano la prevalenza della volontà generale se le
risorse economiche e i mezzi d’informazione appartengono alla proprietà
privata; il liberalismo politico riconosce a ognuno un diritto uguale,
ma senza equità sociale tale riconoscimento resta una mera affermazione
di principio.
A fronte di questi problemi i teorici della
democrazia radicale riconoscono come tale solo la democrazia diretta e
partecipativa, l’autogoverno, o, nel caso si diano forme di
rappresentanza, chiedono che vengano vincolate al mandato breve e
imperativo e alla possibilità di revocare l’eletto in qualsiasi momento.
Ecco dove affonda le radici la differenza attorno alla questione della
relazione gerarchica fra diritti civili e diritti sociali: per Somma,
come detto, non si possono dare diritti sociali senza diritti civili,
per me è il contrario (e qui, com’è ovvio, è in questione anche la
relazione gerarchica fra diritti individuali e diritti collettivi). Ecco
perché ho inserito nel secondo capitolo (quello sull’eutanasia delle
sinistre) la critica di quei movimenti che hanno progressivamente
abbandonato la lotta per i diritti sociali in favore di quella per i
diritti civili, ed ecco perché Somma, al contrario, mi invita a
riaccoglierli nel mio Pantheon di soggetti anticapitalisti.
Non
credo si tratti di stabilire chi ha torto e chi ha ragione, perché siamo
di fronte a due paradigmi differenti (forse anche a due modelli etici
ed epistemologici differenti: realismo politico versus
costituzionalismo, come una volta mi ha detto Rodotà). Le due posizioni
sono necessariamente incompatibili? No, perché abbiamo un obiettivo
comune, cioè uscire dal capitalismo, poi si tratta di vedere come, ma
soprattutto si tratta di vedere cosa fare una volta che se ne sia
usciti, ma questo, purtroppo è a tutt’oggi un problema remoto.
venerdì 25 novembre 2016
Democrazia, capitalismo e “rottura populista”
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