domenica 13 novembre 2016

Trumpeide. Rassegna stampa su una vittoria ancora da digerire


La creatività malefica di Donald Trump



IN USA OBAMA passa la mano direttamente a Trump. Ma è davvero così strano e inaudito? A pensarci c’è una logica forte. Per otto anni il presidente nero non ha fatto altro che cumulare sconfitte alternate da piccole insignificanti vittorie. La parola d’ordine con cui era riuscito a farsi eleggere (Yes we can) non poteva conoscere una smentita più clamorosa. Sia in politica interna che in politica estera l’impotenza e l’incoerenza è stato il tratto distintivo di questa presidenza. Ed è proprio la completa disillusione delle grandi attese di cambiamento riposte per otto anni nel presidente democratico che in definitiva ha aperto la strada alla destra. Ad essere sconfitto è stato il tentativo tardivo e un po’ ingenuo di riproporre il tradizionale messaggio progressista americano in un’epoca in cui erano venute meno le condizioni storiche della sua attuazione.
La politologia americana, nella figura assai rappresentativa del democratico Arthur Schlesinger ( stretto collaboratore di J.F. Kennedy), ebbe ottimi motivi per teorizzare una politica di «vital center» negli anni in cui un possente sviluppo economico allargava ininterrottamente i confini della classe media i cui requisiti di base si era soliti individuare nella proprietà di una confortevole abitazione nei sobborghi in perpetua espansione e nella possibilità di mandare i figli a studiare in una buona università. Il sogno americano in definitiva non aveva niente di sognante: si lasciva misurare su assai tangibili risultati economici. La politica di inclusione del centro vitale trovò precisi corrispettivi in Europa. In Italia significò un ininterrotto monopolio del governo della Democrazia cristiana, partito congenitamente interclassista, e in Europa, in assenza della conventio ad excludendum, un progressivo avvicinamento politico – programmatico dei partiti conservatori e progressisti.
Quantum mutatus ab illo! Obama ha avuto la piccola vittoria di mettere in sicurezza l’industria automobilistica, ma ha perso platealmente la guerra contro la crescente polarizzazione sociale che mina da anni la stabilità della democrazia americana.
OGGI È CHIARO quello che già prima si poteva intuire, ossia che solo un candidato democratico come Bernie Sanders poteva avere qualche opportunità di arrestare la landslide di Trump. Ed ancor più chiaro è il fatto che la Clinton, invece di accontentarsi dell’endorsement di Sanders, avrebbe dovuto riprendere ed enfatizzare l’agenda iniziale di Obama che l’opposizione repubblicana , maggioranza nei due rami del parlamento, era riuscita a mandare a picco. Troppo per quella sua storia personale tutta calata nelle mitologie ormai stantie degli anni Novanta, quando sia in Europa che in Usa si pensò davvero(ingenuità o scelleratezza?) che la tradizionale politica di progresso, affermatasi in tutto l’Occidente capitalistico dopo la seconda guerra mondiale, ed in presenza di una ruggente Unione sovietica, fosse conciliabile con una espansione illimitata del potere della finanza.
Se si ha il coraggio di andare oltre le emozioni di superficie di una campagna elettorale, che forse troppo superficialmente si è detto essersi basata sul nulla, ci si accorge che in realtà Trump ha vinto sulla base di due parole d’ordine che fecero il successo dei bolscevichi nel 1917: pace e pane. Una politica estera di intesa con la Russia per porre fine alla tragedia del Medio Oriente in cui gli Stati uniti stanno perdendo ogni reputazione dal 2001, allorché, frastornati dall’idea di aver vinto la guerra fredda, imboccarono la impossibile strada della ricostituzione dell’impero. E una politica di sviluppo fondata prioritariamente su grandi investimenti pubblici nelle infrastrutture(di cui Trump ha riparlato nel discorso della vittoria), sulla difesa della precedenza del lavoratore americano rispetto a quello straniero, sul ritorno anche, là dove sia necessario, a forme di protezione della manifattura nazionale contro la logica del Trattato Transatlantico difeso accanitamente in Europa dai pasdaran della politica di austerità, in primis dal ministro dello sviluppo economico del governo in carica nel nostro paese.
PIACCIA O NO occorre prendere atto che da queste elezioni esce battuto quel mix di liberismo e bellicismo di cui la Clinton è apparsa rappresentante diretta. Siamo dinanzi al paradosso di una politica di destra che viene sconfitta da una destra che ha avuto il coraggio e la creatività politica di farsi interprete di un disagio sociale ormai dilagante e che da tempo cerca disperatamente una voce che lo rappresenti. Gli ingredienti sono molto simili a quelli che hanno determinato la Brexit (che pure è totalmente specioso rappresentare come una vittoria della destra) e che nei paesi più benestanti del continente stanno invece gonfiando le vele del populismo neofascista.
Le elezioni americane ci aiutano allora a capire l’ estrema fragilità democratica di un’Europa sintonizzata da anni sulla politica di austerità. Nella sconfitta della Clinton è facile leggere anche tutta la debolezza di Renzi che crede di stabilizzare il proprio potere con la distribuzione dei bonus; che continua a pensare si possa avere crescita e occupazione regalando soldi alle imprese (secondo un vecchio pregiudizio degli anni Novanta) senza aver capito che nessun imprenditore che si rispetti, grande o piccolo che sia, è disposto a fare investimenti se non ha le certezza di vendere le sue merci; che crede di contestare la politica di austerità prendendosela con Junker, il funzionario di turno, senza chiamare in causa il sistema di Maastricht, da un quarto di secolo governato con mano ferrea dagli interessi tedeschi. Ossia dal vero Stato che consente l’esistenza della «moneta senza Stato».
LA COSCIENZA E LA CULTURA di sinistra che ancora esiste nel nostro paese, aldilà delle vecchie sigle del passato, ha dunque qualcosa da imparare dalla vittoria di Trump. Ma come? Ad esempio smettendo di bollare di razzismo ogni protesta contro una situazione caratterizzata da crescente immigrazione e crescente disoccupazione. Facendosi interprete sul terreno nazionale e persino su quello locale di tutti gli interessi lesi dalla globalizzazione, come unico modo per risuscitare la politica democratica cancellata dal sedicente governo impersonale delle regole. Andando a censire gli enormi danni provocati dalle tre libertà di Maastricht, quelle dei capitali, delle merci, e della forza lavoro, per ricostruire nelle condizioni di oggi un concreto programma di quella che negli anni Trenta Karl Polanyi chiamava «autodifesa della società dal mercato».

 

Trump, giù le mani dal 1917!


di Angelo D'Orsi da il Manifesto 

Eh, no! Che si legga la vittoria di Donald Trump nei termini leniniani, come ha fatto Leonardo Paggi sul Manifesto di ieri, mi pare non solo un errore storico e uno svarione politico, ma persino un oltraggio. Giù le mani dal 1917!, mi vien fatto di urlare. E non mi risento in modo peculiare avendo appena pubblicato un libro dedicato al 1917; mi incupisco davanti a una simile interpretazione proprio perché proviene da una delle menti più acute della sinistra intellettuale italiana, che mi fa temere per il futuro della sinistra stessa, che, in effetti, non se la passa tanto bene.

È certo condivisibile il punto di partenza dell’articolo di Paggi che denuncia gravissime manchevolezze ed errori catastrofici della «sinistra perbene» (ma vorrei aggiungere anche di larga parte di quella «permale», confusa e spesso autoreferenziale), così come condivido le critiche a Obama. E sarei ancora più aspro nel giudizio su Hillary Clinton, della cui sconfitta non ci si può che rallegrare; il che non ci deve portare a fare del suo avversario il nostro eroe, il cavaliere libero e selvaggio che si incarica di portare al vertice del potere Usa le voci del popolo in catene, di far risuonare nel mondo le immortali parole dei bolscevichi vittoriosi: «Pane e pace». Trump rappresenta una destra che sconfigge un’altra destra: questo è chiaro, ma che la destra del tycoon americano sia in grado di esprimere il disagio sociale di ceti non rappresentati, sconfitti dalla gestione oligarchica della crisi finanziaria, e che si debba apprendere da questa linea i rudimenti di una nuova sinistra mi pare pensiero bislacco.

Paggi parla di «coraggio e creatività politica»: a me pare che il messaggio di Trump sia una miscela pericolosa, e insieme banale di luoghi comuni della destra peggiore, che, nondimeno, ha, per noi europei e specie per noi italiani, il vantaggio di aprire un qualche ritorno all’isolazionismo di Washington, che è ciò che i commentatori mainstream, politici e giornalistici, in questi giorni paventano e che invece deve farci rallegrare. Così come ci deve rallegrare l’apertura alla Russia (e alle sanzioni per la Crimea), l’accenno alla Nato, e alla riduzione delle spese militari. Sotto questi aspetti, Trump ci dà speranze che la signora Clinton non ci dava, con la sua dichiarata predisposizione a rilanciare la linea della «esportazione della democrazia», i cui nefasti effetti sono il nostro tragico presente. Ma non possiamo neppure dimenticare le dichiarazioni su Gerusalemme, che il neopresidente vorrebbe dare in esclusiva agli ebrei, violando storia, geografia, cultura e buon senso; né le inquietanti allusione sull’Iran, che danno adito al timore che si voglia riaprire un contenzioso la cui chiusura è di fondamentale importanza. Né inquieta meno l’intenzione dichiarata di «rivedere» gli accordi, pur minimalisti, sulla riduzione del danno ambientale, di cui gli Stati Uniti sono i grandi protagonisti mondiali, seguiti a ruota dalla Cina.

Per non parlare del programma di pulizia razziale che è nell’hardcore della agenda politica Trump, e del suo conclamato progetto di quell’America «forte» che solo a sentirlo vagheggiare fa venire i brividi, se la si vede nei termini di una nuova feroce supremazia Wasp, che espelle i latinos e tiene «al loro posto» i neri, magari ritornando a chiamarli negri, in odio alla political correctness, di cui tanto gioiscono Libero e Il Giornale, Salvini e Meloni. E, su questa scia, arrivare a dichiarare, come Paggi fa, che bisogna smetterla di «bollare di razzismo ogni protesta contro una situazione caratterizzata da crescente immigrazione e crescente disoccupazione», lascia sgomenti.

Dunque, siamo all’«io non sono razzista, ma…»? Il problema, naturalmente, non è costituito tanto e solo dai bravi cittadini e cittadine delle numerose Gorino d’Italia, ma dal fatto che tante di queste proteste sono un fatto politico, politicamente caratterizzate e come tali utilizzate. Difendere gli interessi locali e nazionali, come Paggi invita a fare, incuranti del tessuto sociale di cui tali interessi sono espressione, e ignorando i più larghi e generali contesti geografici e sociali in cui essi si collocano, mi pare un programma perfetto proprio per la Lega Nord 2017, non per una «nuova sinistra», a meno che si voglia perseguire davvero una sinistra «coraggiosamente trumpista».

 


Trump, noi, il vecchio e il nuovo

di Alessandro Gilioli da l'Espresso

Essendo diventato con gli anni di miglior carattere, quando i molti capiscono ciò che prima si sosteneva in pochi, invece di imbufalirmi me ne rallegro.
Anche se - quando si era pochi - si era presi poco sul serio, o etichettati con definizione partitiche il cui scopo era delegittimare una fastidiosa lettura del presente e la conseguente previsione.
Così quella che fino a ieri era un'opinione e un "alert" di minoranza (o da "estremisti", o da "grillini") oggi è diventata cosa talmente mainstream da sembrare scontata, ovvia, giusta, corretta, insomma da Buongiorno di Gramellini. Il quale infatti oggi ci spiega la vittoria di Trump, in prima pagina sulla Stampa, parlandoci degli stipendi bassi e dei lavori precari, dei debiti spaventosi che i ragazzi devono contrarre per arrivare a una laurea dopo la quale saranno disocccupati, ed «è stata la finanza a costruire questo mondo di sperequazioni odiose».
Bravo, sono d'accordo. Da un bel po', diciamo.
Di tutto questo sono contento, ripeto: per semplificare, del fatto che finalmente sia chiaro a tutti che in Occidente la mancata governance sociale della globalizzazione abbia provocato tali e tanti disastri da portarci all'implosione, al casino. E che talvolta (spesso, temo, se non ci si dà una mossa) questo casino si declina poi nell'affidamento a leader ipermuscolari e iperemotivi, che proprio per questa ipermuscolarità e iperemotività vengono visti come uniche risposte possibili ai poteri freddi, lontani, impalpabili e algoritmici che hanno preso il controllo delle nostre economie e delle nostre vite, impoverendo il ceto medio ed esternalizzando le democrazie.
Sono anche abbastanza contento del fatto che adesso la si smetterà definitivamente (con l'eccezione di qualche zuccone) di dire che per la sinistra "le elezioni si vincono al centro", quando la centrista Hillary si è persa per strada 6-10 milioni di elettori democratici, rispetto alle ultime due tornate presidenziali, finendo così per essere sconfitta da un avversario repubblicano che ha preso meno voti di McCain e di Romney.
Il teorema del "si vince al centro" peraltro era già da anni che batteva in testa: insomma funzionava quando c'erano geometrie politiche che nel frattempo si sono sciolte - o almeno molto diluite. Del resto, se al bar, qui a Roma, per un mese hai incontrato gente incerta se votare Raggi o Meloni o Fassina (insomma tutto fuori che Giachetti, poraccio) puoi decidere che incontri solo fuori di testa oppure chiederti se le vecchie geometrie politiche sono andate in vacca, almeno come percepito diffuso. Avendo optato per la seconda ipotesi, ho vinto diverse birre non solo su Roma e la Brexit, ma pure sulle elezioni americane.
Adesso che tutto questo è mainstream - ed è diventato tanto scontato da apparire noioso - forse è il caso di andare un po' oltre.
Cioè di provare a vedere quali nuove e successive categorie e geometrie politiche nasceranno da oggi in poi, sostituendo anche quella establishment-antiestablishmente che è con ogni evidenza provvisoria, propria di una fase di passaggio e di distruzione - non di costruzione. Propria di quell'epoca in cui il vecchio sta morendo senza che il nuovo stia ancora nascendo.
Vale per gli Stati Uniti, vale per l'Europa, vale per l'Italia.
Ecco, ci siamo occupati del vecchio che stava morendo - e solo i ciechi o i complici non vedevano che stava morendo.
Adesso è decisamente del nuovo che nascerà che con ogni forza ci si deve occupare.

class hero”?


Ma davvero Donald Trump sarebbe un “working class hero”?


(New York) Credo che stia passando un’interpretazione del voto USA fuorviante e pericolosa per la quale Trump si rivelerebbe una sorta di “working class hero”. Vorrei invitare a riflettere su alcune questioni.

Leggo in giro che Bernie Sanders, degnissima persona e con una visione politica moderna e perciò considerato un pericoloso sovversivo, sarebbe stato bloccato da losche manovre dell’establishment in favore di Clinton, altrimenti questi avrebbe sicuramente battuto Trump. Non pensate che le praterie aperte al centro da un candidato ben a sinistra di Obama avrebbero reso incomparabile la situazione? E questo famoso establishment è davvero incarnato solo da Hillary Clinton e solo dal partito democratico come sembrano credere gli elettori di Trump e molti critici da sinistra? Ma davvero i colletti blu del Midwest sarebbero arrivati a Trump da sinistra, perché delusi dal “pd”? E davvero Trump sarebbe un campione anti-globalizzazione e anti-establishment? E se qualcuno lo pensa dovremmo blandirlo dandogli ragione?

Credo sia più ragionevole pensare il contrario e abituarsi a ridefinire gli spazi politici in ragione di ciò. Gli stati industriali dei quali si parla, Ohio, Pennsylvania, Michigan, per tacere della Florida, che pure avevano votato per Obama, negli ultimi trent’anni hanno tutti votato due volte per Reagan, almeno una per Bush padre, alcuni anche per il figlio; altro che roccaforti di sinistra come vengono descritti da analisi miopi o forse più interessate ad incolpare qualcuno (la candidata o il partito) che a cercare di capire.

Sono spezzoni della società occidentale, nel Midwest statunitense come nella fascia pedemontana del Nord Italia o nelle Midlands inglesi o nel Sud-est della Francia, identificabili come la parte più debole del blocco sociale che ha beneficiato e assicurato il consenso al modello economico vigente. In gran parte, oramai abbiamo pacchi di dati, gli elettori di Trump sono uomini, baby-boomers o poco meno. Come chi ha votato la Brexit, spesso non hanno studiato, ma se la sono cavata benino o bene per buona parte della loro vita. Con un’espressione azzeccata, hanno preso “il miglior slot della storia”, e si sono creduti élite senza esserlo, potendo permettersi piccoli lussi anche partendo da lavori subalterni perché c’era chi era più subalterno di loro, ma altrove nel mondo; occhio non vede, cuore non duole. Quando la crisi è arrivata da loro, lungi da mettere in dubbio la loro pretesa centralità, sono slittati verso posizioni xenofobe e di suprematismo bianco, liberi di credere alle balle di Trump o Le Pen o Salvini, in un processo ben più vasto e pericoloso, indipendente dall’insipienza dei centro-sinistra come li abbiamo conosciuti nell’ultimo quarto di secolo.

Questa massa di manovra delle destre viene blandita rappresentandola come vittima dei privilegi concessi ai migranti o di una globalizzazione che dal 2008 morde anche loro, dopo che per decenni ne hanno goduto consumando prodotti confezionati da bambini pakistani o da donne chihuahuensi pagate al mese come loro per un giorno. La festa nel Walmart globale è finita e la colpa sarebbe delle donne di Ciudad Juárez o del tipo salvadoregno che pulisce i bagni del loro bar per un salario di fame? Di fronte a tanta bassezza, alla disinformazione e all’ignoranza crassa che si fa stupidità, all’odio sparso a piene mani verso chi ha la sola colpa di avere più fame, solo la fine imminente del predominio del maschio bianco, che con Trump potrebbe aver vinto una delle ultime partite, può mettere in moto un circolo virtuoso che li metta in condizione di non nuocere. Questo in Italia si declina con la più urgente delle battaglie democratiche: il ripristino del suffragio universale da tempo negato con la cittadinanza, ovvero lo Ius soli subito.

Fin dalle ore successive alle elezioni è iniziata intanto una vasta operazione di ripulitura dell’immagine di Trump, ora che questi andrà alla Casa Bianca. Ma checché ne pensi l’Huffington Post – che dopo averlo apostrofato come razzista per mesi ha pubblicamente deciso che non lo chiamerà più così, ipocriti – anche dalla Casa Bianca Trump resterà un bugiardo matricolato, parafascista, xenofobo, sessista, oltre che espressione di una classe dirigente infinitamente ricca e rapace, che lo ha per un po’ osteggiato per venire rapidamente a patti con lui, così come i suoi elettori restano una manica di reazionari, bigotti, fanatici delle armi e membri del Ku Klux Klan o aspiranti tali con i quali personalmente non andrei a cena.

In conclusione il voto statunitense intercetta un cambio sociale più vasto che ci porta sempre più fuori dal Novecento al quale in troppi sembrano continuare a far riferimento per ogni analisi. Un articolo del Guardian sostiene – in maniera un po’ trita – che il Partito Democratico non rappresenti più la classe operaia. È così, ma prendiamone atto. Ancora per un po’ rappresenterà le minoranze, che però si avviano a non essere più tali. Anche il Partito Repubblicano non rappresenta più le classi dirigenti e lo stesso vale in Europa. Il soggetto tipico della politica novecentesca (la classe, il partito) si rideclina ora su linee diverse, nessuna delle quali ha come obbiettivo ultimo il superamento di questo modello sociale. Il riallineamento è per affinità più che per classe e il conflitto capitale/lavoro è solo una delle variabili tra destra e sinistra con quest’ultima che da mezzo secolo ha trovato un nuovo specifico nel farsi interprete della complessità dei diritti laddove la destra insiste a negarli. Se Obama firma accordi sul clima dai quali Trump recederà, io non sto col partito delle ciminiere, anche se questo crea lavoro qui e ora ma anche cancro e cambio climatico. Gli esempi sono infiniti, a partire dalla divisione pro-life/pro-choice.

Si leggono in queste ore sulle due sponde dell’Oceano, da Zucconi in giù, un mare di compiaciute stupidaggini: Trump sarebbe la rivincita dei carnivori sui vegetariani, del divano sullo yoga, del SUV sulla bicicletta. Dilaga ben oltre il Giornale e Libero, il revanscismo contro l’odiato politicamente corretto. Ne godono, riecheggiando una volta di più il disprezzo per il “culturame” scelbiano, con annesso invito ad autofustigarci.

Cosa dovremmo fare, smettere di differenziare la rumenta perché gli elettori di Trump si scocciano? Diventare un po’ razzisti e plaudere al diritto di espellere dal quartiere chi ha una sfumatura di pelle diversa o usa spezie per cucinare? Condividere la speranza che almeno qualche barcone affondi, altrimenti non siamo in sintonia con la gente per bene dell’Idaho o di Gorino? Concedere che la pena di morte quando ci vuole ci vuole e che in fondo tutti i guai sono cominciati con la parità di genere? Stare – come i bravi blue collar del Midwest – con chi pensa che la salute non sia un diritto e che Obamacare sia un peccato? Andare incontro al disastro ambientale per compiacere chi vuol andare in giro con mostri da un litro di benzina al km? Sommarci alla canea sessista che sta massacrando Hillary Clinton – anche dalla presunta sinistra – con particolare accanimento, ben oltre le sue responsabilità? Farci piacere Trump come sanguigna espressione popolare? E perché non Bossi e Gentilini allora?


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