Matteo Giordano da Pandora
Nell’ Atene democratica del V sec. A. C.
, le varie scuole filosofiche di matrice sofistica operarono una vera e
propria rivoluzione del pensiero, indirizzando la propria indagine
verso questioni di carattere antropologico, legate cioè ai temi della
vita morale, politica e sociale del cittadino all’interno della pòlis
greca. La speculazione filosofica si spostò dalla ricerca dell’arkè,
cioè della forza primigenia che aveva generato il mondo, ad un’indagine
sull’Uomo inteso come individuo posto all’interno di una comunità.
L’antropocentrismo sofistico coincise anche con la nascita dello
scetticismo filosofico e del criticismo, ovvero di una forma del pensare
che rifiuta il senso comune consolidato e le idee dominanti e si
propone di mettere continuamente in discussione ogni cosa. Come “un filo
che lega, un punto che tiene, un ripetere che salta, un rompere che
ricollega”.
Il cittadino, che in passato era stato
schiavo di un potere trascendentale, cominciò a godere di autonomia e
libertà: si appropriò di un senso umanistico della propria esistenza, di
una normativa a misura d’uomo. Ora gli individui imparavano a spezzare
la rigida trascendenza della parola: essa non era più strumento di
rivelazione del divino agli esseri umani, ma diveniva espressione
mutevole e contingente del pensiero soggettivo, forza persuasiva del
singolo di fronte alle masse e potente strumento politico. Fu il trionfo
del lògos, della parola che conferisce maggiore vigore e profondità al
pensiero. Della Ragione sul Mito. Questa rivoluzione concettuale, questa
opera di rischiaramento dell’oscurantismo prodotto dal Mito e dalla
tradizione, è riassunto da Gorgia da Lentini, uno dei padri della
Sofistica, quando afferma nell’Encomio di Elena che “La parola è un gran
signore, che con piccolissimo corpo e del tutto invisibile, divinissime
cose sa compiere”. Attraverso la parola, ormai non più rivelata, ma a
misura d’uomo, le scuole sofistiche misero in discussione l’ordine
sociale e politico su cui si reggeva il sistema della pòlis, la gestione
del potere e l’impianto culturale volto a giustificarne la legittimità e
l’autorità.
La parole è dunque una forma di lotta.
Un’arma. Serve per dire pensiero, per mettere in discussione ciò che è e
ciò che è stato, per costruire ciò che potrebbe essere. “Zur Kritik”,
Per la critica. Una Critica radicale a tutto campo all’idolatria del
presente, in nessun momento esaurita, mai superata. La parola è una
spada con cui fendere il senso comune intellettuale di massa,
l’integrazione omologata dell’opinione, che mira a presentare lo stato
di cose presente come necessario, inevitabile, inattaccabile ed
insostituibile. Per una Sinistra moderna che miri a riacquistare una
propria autonomia di pensiero, si rende quindi necessaria un’azione di
rischiaramento dalla dittatura ottenebrante del presente teorico e una
liberazione dai dogmi del pensiero unico della classe dominate che parta
innanzitutto dal linguaggio. Dalle parole. Riappropriarsi di un
linguaggio alternativo significa riconquistare un pensiero autonomo,
critico, soggettivante e diverso. Significa uscire dallo stato di
minorità concettuale in cui ci ha gettato il relativismo esasperato e
disgregante del postmoderno. Il nostro “Sapere aude!” si dovrebbe
sostanziare prima di tutto nel tornare ad usare le parole, nel coltivare
un linguaggio sottile, analitico, penetrante, che arrivi all’essenza
delle cose. Così ci possiamo rimpadronire di un punto di vista da cui
guardare il mondo, di una parte in cui riconoscerci. Di un’autonomia
teoretica da cui partire per tornare a pensare il mondo nuovo e una
futura umanità.
Se il linguaggio è il modo in cui si
articola il pensiero, per provocare una rottura di pensiero, bisogna
innanzitutto diversificare il nostro linguaggio. Popolo, classe,
conflitto, partito, autonomia, egemonia. Dimostrare di avere una
sensibilità alternativa. Un modo di guardare alle cose del mondo che non
sia lo stesso della classe egemone. Per fare questo, gli epigoni del
movimento operaio “devono impadronirsi dell’alta cultura, dei classici
del pensiero e della tradizione, come arma contro i padroni del mondo”.
Riaffermare la propria aspirazione ad avere una soggettività autonoma e
forte, un punto di vista critico, significa scatenare un conflitto,
provocare uno scontro, una rottura.
La prima parola da riscoprire è antica,
carica di storia, oggi fraintesa e stravolta: popolo. Quello di popolo è
un concetto che ha sempre prodotto una contrapposizione dai termini
dello scontro chiari: tra chi stava dalla parte del popolo e chi stava
contro di esso. Tra chi voleva che la plebe si facesse popolo e chi
pensava che il popolo non fosse altro che plebe. Tra chi, come il
persiano Megabazio -racconta lo storico Erodoto – delineava la figura di
un popolo tracotante, sfrenato, ignorante, e chi, come i seguaci di
Muntzer nella Germania del Cinquecento o i levellers ed i diggers
nell’Inghilterra rivoluzionaria del Seicento, rivendicava la dignità del
popolo in quanto popolo di Dio. Tra chi, come Hippolyte Taine, in “Le
origini della Francia contemporanea”, descriveva la plebaglia come
composta da malfattori, vagabondi, nemici della legge e selvaggi e chi,
come Jules Michelet in “Le peuple”, celebra il popolo come generoso,
straripante di umanità, solidale, pronto al sacrificio. Gustave Le Bon
in “La Psicologia delle folle” descrive la folla come irruenta, priva di
discernimento, ignorante e suggestionabile: è la nascita della società
di massa, dominata dalle grandi aggregazioni e dai grandi numeri.
Da quel momento, fino al secondo dopo
guerra, la categoria di popolo ha mantenuto un’ importanza centrale nel
dibattito politico. Marco D’Eramo sostiene che la sua progressiva
scomparsa sia dovuta alla logica da guerra fredda e al sorgere di un
nuovo paradigma del benpensantismo politico in cui il termine populismo,
assieme a totalitarismo, diventa fondamento di un paradigma che si
baserà sulla teoria degli opposti estremismi. Mentre l’Occidente si
appropriò dell’idea di libertà, il blocco sovietico fece sua quella di
popolo. Così “popolo” e “popolare” divennero lemmi sempre più rari nel
dibattito politico ad Ovest, fino a scomparire completamente. L’uso
sistematico del termine populismo cresce in modo proporzionale al disuso
del termine popolo: più la parola popolo è periferica nel discorso
politico, più populismo acquisisce centralità. Prevale in questo modo
una visione distorta dell’idea di popolo. Un modo di pensare
antipopolare. Populismo è un termine dalla marcata connotazione
dispregiativa: nessuno si auto dichiara populista, ma viene così
definito dai propri avversari politici. Il termine quindi definisce
molto di più chi lo proferisce rispetto a chi ne viene bollato. Se
populista viene identificato con popolare, ne deriva che chi prende le
parti del popolo, una forza che intenda rivendicare la dignità di
politiche filo popolari- e quindi una forza di sinistra- venga tacciata
di demagogia e rilegata ai margini dello scontro politico. Infatti,
“l’opinione positiva del popolo è condizione necessaria per ingaggiare
una battaglia per il popolo, ma quest’opinione positiva deve essere a
sua volta conquistata con una lotta. Il giudizio sul popolo diventa
quindi sia uno strumento della lotta politica, sia la sua posta in
gioco”. Vince chi impone la sua narrazione.
Non esiste una definizione metodologica
unitaria di popolo. Il concetto moderno è più vicino all’idea biblica
antico testamentaria di popolo, piuttosto che alla concezione greca di
dèmos, o a quella romana di populus. Popolo è un concetto teologico
secolarizzato: Marsilio parlava di “universitas civium seu populus” e
Bartolo di “populus unius civitatis”. Sono la Rivoluzione Francese prima
e l’idealismo romantico poi, con il concetto di Volkgeist, a far
esplodere l’idea di popolo sulla scena politica moderna. Concetto che
sarà portato alla sua massima teorizzazione da Marx con la figura del
soggetto politico operaio. Della classe dei lavoratori. E’ il concetto
di classe che fa del popolo una categoria della politica. Con l’idea di
classe il popolo diventa soggetto politico attivo. Senza classe non
esiste politicamente popolo, ma solo socialmente o nazionalmente. E’ il
punto di vista di classe che mette per la prima volta il popolo in grado
di iniziare una lotta di emancipazione contro le classi dominanti. Il
servo può ora affrancarsi dal padrone e trasformare il mondo. Il
populismo non è una causa, ma un effetto. E’ la forma in cui si
ripropone il problema del rapporto tra governati e governanti. E’ il
riflusso della scomparsa del popolo dalla scena politica dell’età
postmoderna. La critica al populismo non può e non deve essere fine a sé
stessa, ma congiunta al recupero dell’idea di popolo. E se il concetto
di popolo si fonda su quello di classe, al recupero dell’idea e della
pratica di classe. Non più classe operaia, non più proletariato, ma
qualcosa di nuovo: le componenti sociali più deboli, meno tutelate, le
forze del lavoro. Popolo significa infatti classi inferiori. La Sinistra
di oggi ha perso completamente ogni interesse per le gli ultimi. Non è
più una Sinistra di popolo. Non esprime più una proposta dal popolo, del
popolo, per il popolo. Intercetta flussi elettorali trasversali e pesca
da un bacino principalmente riconducibile ai dipendenti statali, ai
colletti bianchi e alla media e piccola borghesia cittadina.
La crisi della Sinistra deriva
principalmente da qui: dall’aver cessato di dare rappresentanza e voce
ai ceti popolari . Questo vuoto è stato riempito dal populismo e dal suo
adattamento aggressivo alla scomposizione di ogni legame sociale. E’
però in atto una proletarizzazione postmoderna dei ceti medi, una
polarizzazione verso l’alto della ricchezza, un aumento della disparità e
dell’ingiustizia sociale, che non potrà che riproporre in termini
ancora più drammatici che in passato la “questione” sociale e la
necessità di una grande forza organizzata di Sinistra che dia
rappresentanza al popolo e al mondo del lavoro. Dare un segno a questa
realtà di popolo è l’unico modo per sconfiggere il populismo. Ma questo
da solo non basta: non è sufficiente elaborare una proposta di governo
da sinistra, ma bisogna accompagnarla sempre dalla riproposizione del
tema del potere e della lotta per l’egemonia. Questo significa
recuperare il conflitto e provocare una rottura.
Ma come si fa popolo, oggi, nell’epoca
del postmoderno, senza la centralità di classe? Come si fa società nel
tempo della società liquida, della disgregazione dei legami umani,
politici e sociali , dell’isolamento degli individui, della dittatura
del mercato e del consumismo materialista? Il concetto politico di
popolo si può sostanziare con il concetto sociale di lavoro. Non più una
classe operaia, un proletariato urbano, ma un popolo di lavoratori.
Dove il lavoro riacquisti la sua centralità e restituisca dignità alla
persona umana. “Fondare una classe generale, quella del popolo
lavoratore: questo significa riafferrare il filo lì dove si è spezzato,
riannodarlo e proseguire”. Questa classe generale di popolo lavoratore,
per tornare a pensare in modo autonomo e critico, per riacquistare una
soggettività alternativa, di lotta ed aprire un conflitto contro i
padroni del mondo, che riproponga il tema del potere, ha bisogno di un
nuovo mito mobilitante di massa. Di un mito che faccia popolo, che dia
speranza. Che faccia senso. Che restituisca un senso all’esistenza
umana. Per il socialismo storico, questo mito è stato quello della
rivoluzione, di una futura umanità, ma la classe operaia è stata un
soggetto rivoluzionario sconfitto. Una nuova Sinistra moderna deve
elaborare una nuova narrazione mitica dell’oltre, dell’avvenire. Deve
sfaldare la dittatura del presente e tornare a pensare a lungo termine.
Non solo concepire una radicale critica del presente, ma anche un
racconto epico del futuro. Presentare la propria proposta politica come
una prospettiva escatologica, come uno slancio ideale che contrasti la
mercificazione delle relazioni umane, che restituisca dignità alla
persona, che ridia valore alla solidarietà tra gli uomini e
che permetta di riacquistare una dimensione più umana dell’esistere.
Deve riuscire a restituire un senso compiuto alla dimensione
esistenziale che il postmoderno ci offre, in cui l’individuo fa fatica a
pensare sé stesso in relazione ad un tutto compiuto, solido e definito,
avvertendo invece in modo drammatico la propria precarietà e
indefinitezza identitaria: deve concepire una sorta di nuovo Umanesimo
laico, che ridia un senso umanistico all’esistenza delle persone.
Nessun commento:
Posta un commento