Le
false promesse delle élite mondiali sull'economia liberista,
presentata come panacea per tutti i mali grazie al suo elisir di
crescita perenne, aiutano a spiegare i movimenti nazionalisti
arrabbiati che stanno mandando in pezzi la politica occidentale,
pensa l'ex diplomatico britannico Alastair Crooke.
di
Alastair Crooke
Raul
Ilargi Meijer è un esperto editorialista economico ed ha scritto,
in modo stringato e provocatorio, che
E' finita. Il modello su cui le nostre società si sono basate almeno per tutto il tempo in cui siamo vissuti è arrivato alla fine. Ecco perché esistono i Trump.Non c'è nessuna crescita. Non c'è da anni una vera crescita. Ci sono soltanto i vuoti ed insignificanti, ottimistici numeri dei mercati borsistici di Standard and Poor, drogati da uno stracciato costo del denaro e dai buyback, e datori di lavoro che nascondono ai lavoratori indicibili quantità di denaro. E soprattutto esiste il debito, pubblico o privato che sia, che è servito a mantenere in vita una crescita illusoria; le possibilità di ricorrervi sono sempre meno, adesso.
I falsi dati sulla crescita servono ad una cosa soltanto; servono a far sì che la massa lasci i potenti in carica sulle lore comode poltrone. Solo che sono sempre riusciti ad opporre il velo di Oz agli occhi altrui tante e tante volte; ora, quelle tante volte sono finite.
Ecco il perché dei Trump, delle Brexit, dei Le Pen e di tutto il resto. Basta, fine. Tutto quello che ci ha fatto da guida per tutta la nostra esistenza ha perso la direzione e ha perso potenza.
Meijer
scrive poi:
Siamo nel bel mezzo del più importante mutamento globale degli ultimi decenni, per certi aspetti addirittura degli ultimi secoli; una rivoluzione vera e propria, che continuerà a rappresentare il più importante fattore impattante sul mondo nei prossimi anni. Nonostante quello, non mi pare che nessuno ne faccia parola. La cosa mi ha sorpreso. Il mutamento di cui sto parlando è la fine della crescita economica mondiale, che porterà inesorabilmente alla fine dei processi centralizzati, globalizzazione compresa. Comporterà anche la fine della maggior parte delle istituzioni internazionali, soprattutto di quelle più potenti.
Sarà la fine anche per quasi tutti i partiti politici tradizionali, rimasti per decenni al governo nei rispettivi paesi e già oggi ai livelli record di impopolarità. Se non avete idea di cosa sta succedendo, date un'occhiata qui in Europa!
Non è questione di cosa vogliono questo o quello, o questo o quel gruppo. Sono in gioco forze ben al di là del nostro controllo, la cui grandezza e la cui portata va oltre la nostra opinione, nonostante si possa trattare di fenomeni costruiti dall'uomo.
Un sacco di persone più o meno intelligenti si stanno rompendo la testa per cercare di capire da dove vengano Trump e la Brexit e Le Pen e tutti questi spaventosi individui e fenomeni e partiti nuovi. Arrivano a formulare teorie incerte e di piccola portata che chiamano in causa gente anziana, gente impoverita razzista e bigotta, gli stupidi, quelli che alle elezioni si sono sempre astenuti, ogni genere di individui.
Solo che nessuno sembra capire o comprendere davvero. E questo lascia stupiti perché non è che la questione sia così difficile. Tutto questo succede perché la crescita è finita. E se finisce la crescita finiscono anche l'espansione e la centralizzazione, in tutta la loro miriade di varietà e di forme.
Più
avanti Meijer scrive:
La dimensione globale intesa come prima forza trascinante è finita, il paneuropeismo è finito, e il fatto che gli Stati Uniti continueranno a rimanere tali è tutt'altro che un dato scontato. Stiamo andando verso un movimento di massa favorevole a decine di paesi e di stati separati, e di società che guardano al passato. E tutte si trovano ad affrontare un qualche problema incombente di un qualche genere. Quello che rende la situazione così difficile da affrontare per chiunque è che nessuno vuol prendere atto di nulla di tutto questo. Esattamente dagli stessi luoghi da cui vengono i Trump, la Brexit e i Le Pen arrivano storie di amara povertà.
Il fatto che il baraccone politico, economico e mediatico sforni ventiquattr'ore su ventiquattro e sette giorni su sette messaggi positivi sulla crescita può anche costituire una parziale spiegazione del perché manchino consapevolezza e riflessione, ma si tratta di una spiegazione parziale. Il resto è dovuto a come siamo fatti noi stessi: pensiamo di meritarla, la crescita a tempo indeterminato.
La
fine della crescita
Insomma,
la crescita economica globale è finita? Raul Ilargi parla un po'
all'ingrosso perché ci sono anche esempi di crescita economica in
cui non c'è stata alcuna contrazione, ma è chiaro che gli
investimenti basati sul debito e sulle politiche di bassi tassi di
interesse si stanno rivelando sempre
meno efficaci
nel risultare in crescita economica o in aumento degli scambi, e a
volte non lo sono per niente. Tyler Durden di ZeroHedge scrive:
"Dopo
quasi due anni di programmi centrati sul quantitative easing i
dati economici nella zona euro rimangono molto deboli. Come spiega il
GEFIRA l'inflazione è ancora attorno allo zero e il PIL della zona
euro ha iniziato a rallentare invece di accelerare. Secondo i dati
della Banca Centrale Europea, per creare un euro di crescita di PIL
occorrono diciotto euro e mezzo di quantitative easing...
Quest'anno la BCE ha emesso quasi seicento miliardi nell'ambito del
programma per l'acquisto di titoli (il quantitative easing)."
Le
banche centrali possono anche produrre e stampare denaro, ma questo
non significa creare ricchezza o acquisire potere d'acquisto.
Incanalando il credito creato verso gli intermediari delle banche a
garanzia dei prestiti verso i loro clienti di favore le banche
centrali garantiscono potere d'acquisto ad un determinato gruppo di
soggetti; questo potere d'acquisto deve per forza venire da un altro
gruppo di soggetti europei (nel caso della BCE, arriva dai cittadini)
che vedranno ridurre il proprio potere d'acquisto e la
discrezionalità con cui potranno spendere il proprio reddito.
L'erosione
del potere d'acquisto non è del tipo più ovvio: non esiste una
grossa inflazione e tutte le principali valute si stanno svalutando
più o meno di pari passo; inoltre le autorità intervengono
periodicamente abbassando il prezzo dell'oro, cosicché non esiste
alcun segnale evidente per cui le persone possano capire fino a che
punto arriva la perduta di valore di tutte le valute.
Anche
il commercio mondiale sta soffrendo, come spiega
in termini piuttosto eleganti Lambert Strether di Corrente.
"Si torna alle spedizioni. Mi sono messo a seguire le
spedizioni... un po' perché è divertente, ma soprattutto perché le
spedizioni hanno a che fare con beni concreti, e seguire i percorsi
delle merci mi è sembrato un modo molto più interessante di toccare
con mano il funzionamento dell'economia; senz'altro più delle
statistiche economiche, per tacere di tutti i libri di cui quelli di
Wall Street parlano un giorno sì e l'altro pure. E non mi fate
parlare di Larry Summers.
Quello
che ho notato è che c'era un declino. E non si trattava di piccoli
passi indietro seguiti da balzi in avanti, ma di un declino vero e
proprio andato avanti per mesi e alla fine per un anno intero.
Declina il trasporto ferroviario, persino quando le merci sono grano
e carbone, e declina la domanda di vagoni. Declina il trasporto su
ruota, e con esso la domanda di camion. Il trasporto aereo se la
passa male. I porti del Pacifico non saranno affollati di merci sotto
Natale. E adesso è arrivato anche il fallimento di HanJin, con tutti
quei capitali fermi nelle navi alla fonda e coperto per solo dodici
miliardi di dollari o qualcosa del genere, e l'ammissione generale
che forse noi abbiamo investito un pochettino troppo in grandi
navi e grandi imbarcazioni, il che significa -credo- che dobbiamo
spedire molte meno merci di quello che pensavamo, almeno via mare.
Nel
frattempo, in apparente contraddizione rispetto al lento collassare
del commercio mondiale ed anche all'opposizione ai "trattati
commerciali" uno dei pochi settori trainanti dell'immobiliare è
quello dei magazzini, e la gestione delle catene di distribuzione
è un campo esaltante. Un campo pieno di sociopatici fuori da ogni
limite, e dunque dinamico ed in crescita!
Ecco,
le statistiche economiche sembra dicano che non c'è nulla che non
va. I consumatori sono il motore dell'economia e sono fiduciosi. Ma
alla fin fine le persone hanno bisogno di beni perché si vive in un
mondo materiale, anche se si è convinti di star vivendo a modo
proprio. Un bel rompicapo. Io vedo una contraddizione: si muovono
meno merci, ma i numeri dicono che va bene così. Ho ragione su
questo? Allora, devo pensare che i numeri non sono significativi, ma
le merci sì."
Un
elisir fasullo
In
altre parole, se vogliamo essere ancor più falsamente empirici come
nota
Bloomberg in A
Weaker Currency is no longer the Elixir, It Once Was,
"le
banche centrali di tutto il mondo hanno tagliato i tassi di interesse
per 667 volte dal 2008 in poi, secondo Bank of America.
Nel corso di questo periodo le prime dieci valute agganciate al
dollaro sono crollate del quattordici per cento e le economie del G8
sono cresciute in media dell'uno per cento appena. Secondo Goldman
Sachs dalla fine degli anni Novanta un deprezzamento del dieci per
cento al netto dell'inflazione nelle valute di ventitré economie
avanzate ha spinto le esportazioni nette soltanto dello zero virgola
sei per cento del PIL. Come raffronto, c'è l'uno virgola tre per
cento del PIL dei due decenni precedenti. Gli scambi commerciali tra
gli USA e gli altri paesi sono passati a tremilasettecento miliardi
di dollari l'anno nel 2015 dai tremilanovecento che erano nel 2014."
Fine
della crescita, fine della globalizzazione. Su questo è d'accordo
persino il Financial
Times,
il cui editorialista Martin Wolf scrive in The
tide of Globalisation is turning:
"Il meno che si possa dire è che la globalizzazione si è
fermata. Si potrebbe tornare perfino indietro? Certamente. Occorre
che le grandi potenze siano in pace... E' importante che la
globalizzazione si sia fermata. Certamente."
La
globalizzazione si è davvero fermata. Ma non a causa delle
tensioni politiche, che sono un comodo giustificativo, ma perché la
crescita è fiacca e questa debolezza è il risultato di una provata
concatenazione di fattori che ne hanno causato l'arresto, oltre che
del fatto che siamo entrati in una fase di deflazione che sta
drasticamente contraendo quanto è rimasto del reddito disponibile al
consumo per le spese a discrezione. Wolf ha comunque ragione.
Inasprire le tensioni con Russia e Cina non risolverà i problemi
del sempre più debole controllo ameriKKKano sul sistema finanziario
mondiale, anche se la fuga dei capitali verso il dollaro potrebbe far
passare un fugace momento di rialzo al sistema finanziario
statunitense.
Cala
il sipario sulla globalizzazione. Ma cosa significa realmente questa
espressione? Indica la fine del mondo finanziarizzato costruito dal
neoliberismo? Difficile dirlo. Ma nessuno si aspetti rapidi
dietrofront, e tantomeno delle scuse. La grande crisi finanziaria del
2008 all'epoca fu vista da molti come ultimo atto del neoliberismo.
Ma le cose non sono andate così: anzi, il periodo di tagli e di
austerità che seguì inasprì la sfiducia nello status quo ed
aggravò la crisi che ha le sue radici nella diffusa opinione che "la
società" in generale stia andando nella direzione sbagliata.
Il
neoliberismo dispone di solide
basi,
non da ultimo nella troika europea e nell'eurogruppo che fanno gli
interessi dei creditori e che grazie alle regole dell'Unione Europea
sono arrivati a dominare la politica finanziaria e fiscale
dell'Unione.
E'
troppo presto per capire da dover arriverà la sfida all'ortodossia
prevalente sul piano economico, ma in Russia esiste un aggregato di
eminenti economisti che si sono riuniti nel gruppo
Stolypin
e che sta levando un nuovo interesse verso Friedrich
List,
il vecchio avversario di Adam Smith morto nel 1846, che sviluppò un
"sistema nazionale di politica economica." List antepose
gli interessi della nazione a quelli dell'individuo. Mise in risalto
l'idea di nazione ed enfatizzò le particolari necessità di ogni
nazione secondo le circostanze in cui essa si trova, soprattutto in
rapporto al suo grado di sviluppo. List è noto per aver dubitato
della sincerità delle invocazioni al libero mercato che arrivavano
dai paesi sviluppati, con particolare riguardo al Regno Unito. In
sostanza fu
il primo no global.
Il
dopo globalizzazione
Il
pensiero di List potrebbe ben adattarsi alla corrente tendenza
post-globalizzazione. La presa d'atto di List della necessità di una
strategia industriale a livello nazionale e il suo ribadire il ruolo
dello stato come garante finale della coesione sociale non sono cose
cui sta flebilmente dietro soltanto una manciata di economisti russi.
Si tratta di concetti che stanno facendo il loro ingresso
nel discorso politico corrente.
Proprio il
governo May, nel Regno Unito, sta rompendo con il modello
neoliberista che ha guidato la politica britannica dagli anni Ottanta
in avanti;
ed è una rottura che va verso un approccio alla List.
Sia
come sia, che questo modo di vedere le cose torni in auge o meno, il
docente e filosofo politico britannico molto attento ai fenomeni
contemporanei John Gray ipotizza
che la cosa stia in questi termini:
Il riaffermarsi dello stato è uno dei punti su cui il tempo presente si distanzia dai "tempi nuovi" pronosticati da Martin Jacques e da altri osservatori negli anni Ottanta. All'epoca sembrava che le frontiere nazionali stessero liquefacendosi e che si fosse prossimi all'instaurazione di un mercato libero globale. Io non ho mai trovato credibile questa prospettiva. Esisteva un'economia globalizzata prima del 1914, ma si basava sulla mancanza di democrazia. La mobilità di capitali e di forza lavoro priva di qualsiasi controllo può anche impennare la produttività e produrre ricchezza su una scala senza precedenti, ma ha anche un impatto fortemente distruttivo sulla vita dei lavoratori, specie quando il capitalismo entra in una delle sue crisi periodiche. Quando il mercato globale attraversa un brutto quarto d'ora il neoliberismo finisce nella spazzatura perché si deve venire incontro ad una diffusa richiesta di certezze. Oggi, questo è quanto sta accadendo.
Se la tensione fra capitalismo globale e stato nazionale è stata una delle contraddizioni del thatcherismo, il conflitto tra globalizzazione e democrazia è stato la nemesi della sinistra. Da Bill Clinton a Tony Blair in poi il centrosinistra ha abbracciato il progetto del libero mercato globale con lo stesso ardente entusiasmo dimostrato dalla destra. Se la globalizzazione colpisce la coesione sociale, occorre riplasmare la società perché faccia da puntello al mercato. Il risultato? Ampi settori della popolazione sono stati abbandonati a marcire nella stagnazione o nella povertà, in qualche caso senza alcuna prospettiva di trovare un ruolo produttivo nella società.
Se
Gray ha ragione ad affermare che quando l'economia globalizzata passa
un brutto momento la gente esige che lo stato presti attenzione alla
situazione economica dei loro paraggi, del loro paese e non alle
utopistiche preoccupazioni della élite accentratrice, se ne deve
concludere che la fine della globalizzazione comporta anche la fine
della concentrazione della ricchezza in tutte le sue manifestazioni.
Ovviamente
l'Unione Europea, che è un simbolo di questa asociale
concentrazione, dovrebbe fermarsi un momento e riflettere. Scrive
Jason Cowley, editorialista del New
Statesman
orientato a sinistra: "In ogni caso... comunque lo si voglia
chiamare, [l'arrivo dei "tempi nuovi"] non porterà ad una
rinascita della socialdemocrazia: sembra che in parecchi paesi
occidentali stiamo invece entrando in un periodo in cui i partiti di
centrosinistra non riescono a formare maggioranze di governo perché
hanno perso suffragi in favore di nazionalisti, populisti e di
alternative più radicali."
Il
problema della delusione
Torniamo
adesso all'affermazione di Ilargi secondo cui "Siamo nel bel
mezzo del più importante mutamento globale degli ultimi decenni...
non mi pare che nessuno ne faccia parola. La cosa mi ha sorpreso",
cui Ilargi stesso risponde che in fin dei conti questo silenzio è
dovuto a noi stessi, che "pensiamo di meritarla, la crescita a
tempo indeterminato."
Ilargi
ha ragione a pensare che in qualche modo questo costituisca una
risposta alla visione, cara al cristianesimo, del progresso inteso
come processo lineare (in questo caso materiale, più che
spirituale). Ma in termini più pragmatici, la crescita non è il
fondamento di tutto il sistema globale finanziarizzato
dell'Occidente? Non è la crescita economica che doveva "liberare
gli 'altri' dalla loro condizione di povertà"?
Si
ricorderà che Stephen Hadley, ex consigliere per la Sicurezza
Nazionale del presidente degli USA George W. Bush, ha detto
chiaramente
che gli esperti di politica estera dovrebbero prestare molta
attenzione al crescente risentimento diffuso, che "la
globalizzazione è stata un errore", e che "le élite hanno
condotto [gli USA] come dei sonnambuli verso una situazione
pericolosa".
Hadley
ha affermato che "queste elezioni presidenziali non sono
soltanto un referendum su Donald Trump; riguardano i motivi di
scontento verso il nostro sistema democratico e il modo in cui
intendiamo affrontarli... Chiunque vinca, dovrà affrontare questa
situazione."
In
poche parole, se la globalizzazione apre la strada allo scontento, la
mancanza di crescita economica rischia di minare tutto il progetto
finanziarizzato globale. Secondo Stiglitz tutto questo era evidente
già da una quindicina d'anni; appena un
mese fa
ha scritto che già allora aveva individuato "una crescente
opposizione, nei paesi in via di sviluppo, verso le riforme
favorevoli alla globalizzazione. All'apparenza era un fenomeno
strano, perché alla gente dei paesi in via di sviluppo era stato
raccontato che la globalizzazione avrebbe fatto aumentare il
benessere generale; perché in così tanti si mostravano ostili nei
suoi confronti? Come può un fenomeno che a detta dei nostri leader
politici e di molti economisti avrebbe fatto vivere tutti meglio
incontrare un tale disprezzo? A volte si sente dire da qualche
economista neoliberista, paladino di queste politiche, che le persone
vivono davvero meglio, solo che non lo sanno. Questo loro scontento è
materia per psichiatri, non per economisti."
Ora,
questo scontento di nuovo genere a detta di Stiglitz si è esteso
anche alle economie avanzate. Forse è a questo che Hadley si
riferisce quando afferma che "la globalizzazione è stata un
errore." La globalizzazione sta oggi minacciando l'egemonia
finanziaria ameriKKKana, e dunque anche la sua egemonia politica.
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