di Mimmo Porcaro da socialismo2017
Il 2016 si chiude ponendoci un compito urgentissimo per il 2017.
La sonante vittoria dei No al referendum di dicembre
ha finalmente trasformato la palude della politica italiana (che stava
ristagnando grazie alla droga della Bce e agli artifici verbali dell’ex premier)
in un rapido fiume che corre veloce verso una cascata: le prossime,
inevitabili elezioni. E più tardi queste avverranno, più alto sarà il
balzo della cascata, più rovinoso l’effetto sul sistema politico
italiano.
Faranno certamente di tutto per evitare il patatrac:
trucchi elettorali, corruzione di gruppi dirigenti, forse altro ancora.
Ma ben difficilmente potranno scongiurare l’affermazione dell’unico
attuale antagonista degli equilibri di potere: il M5S. E qui sorge il
problema. Perché una vittoria del M5S dovrebbe essere senz’altro essere
salutata, allo stato attuale, come un’affermazione ulteriore del fronte
del No al PD ed al neoliberismo. Ma significherebbe anche, allo stato
attuale, l’apertura di una obiettiva e salutare crisi con l’Unione
europea senza che però vi siano le idee sufficientemente chiare, le
alleanze sociali sufficientemente salde, le convinzioni politiche
sufficientemente forti per gestirne positivamente le conseguenze.
Intendiamoci: tutto è meglio dell’Unione europea, perché l’Unione è una macchina micidiale che ha come scopo principale
la sottomissione dei lavoratori ed il passaggio di proprietà delle
migliori imprese e del risparmio dei paesi deboli nelle mani dei
capitalisti dei paesi forti. La situazione di incertezza derivante da
una rottura non sarebbe negativa quanto la certezza di essere condannati
a morte dall’Unione, e molti sono ormai gli studi che smontano
l’equazione exit=catastrofe. Però, dato l’attuale progetto politico del
M5S (e del suo non improbabile alleato, la Lega) l’uscita ci darebbe
soltanto un po’ di esportazioni ed un po’ di inflazione in più, con un
modesto rilancio dell’occupazione bilanciato da una relativa perdita del
potere d’acquisto dei salari, e con la persistenza della dinamica di
accentuazione degli squilibri sociali e territoriali del paese. Una
dinamica che sarebbe forse rallentata, ma non certo invertita. Il tutto
nel contesto di un probabile aumento della dipendenza dell’Italia dagli
Usa: dalla padella di Bruxelles alla brace di Washington.
Perché l’uscita dall’euro e dall’Unione (conditio sine qua non
di ogni e qualsivoglia politica) sia positiva per i lavoratori e per il
paese, essa deve essere accompagnata: a) dal mutamento di ruolo della
banca centrale e dalla ripresa della monetizzazione del debito pubblico;
b) dalla parziale nazionalizzazione del settore del credito; c) da una
forte impresa pubblica capace di rilanciare investimenti e innovazione e
di essere background per lo sviluppo della PMI; d) da un piano
industriale che affronti i problemi idrogeologici ed energetici del
paese e riduca la nostra dipendenza dalle importazioni; e) da politiche
di piena occupazione attuate anche attraverso il rilancio del settore
pubblico; f) da una riforma del mercato del lavoro che elimini la
precarietà, offra sbocchi alle eccellenti risorse intellettuali prodotte
dal sistema scolastico italiano e trasformi realmente l’immigrazione in
una risorsa, inibendone l’effetto negativo sui salari; g) da un
mutamento della posizione geopolitica del paese in direzione di più
stretti rapporti coi Brics, di una cooperazione mediterranea, e comunque
di politiche tese a creare aree internazionali capaci di esercitare un
controllo sul movimento dei capitali.
“Niente di meno!”, si dirà. Sì, non è poco (e
figuratevi che c’è anche dell’altro!), ma è ciò che è richiesto dalla
fase storica attuale. E’ ciò che è necessario. E’ ciò che è possibile,
perché in Italia ci sono le idee e le forze per elaborare e realizzare
un programma del genere.
Le idee ci sono da tempo: da tempo piccoli gruppi
lavorano a grandi prospettive, ed è inoltre inutile fare il nome dei
numerosi intellettuali, di diversa provenienza, che negli ultimi anni
hanno elaborato riflessioni convergenti che ormai potrebbero quasi
definire una vera e propria scuola di pensiero. Le forze erano latenti,
ma sono venute alla luce grazie agli ultimi fatti, in particolare nei
comitati per il No. Forze soprattutto di sinistra, ma non solo: forze
che in qualche maniera si riconoscono tutte nella Costituzione del ’48 e
nel suo impianto lavorista. Queste idee e queste forze possono e devono
dar vita ad un soggetto politico che sulla Costituzione si basi e che
quindi non faccia appello né alla sinistra né alla destra ma alla cittadinanza democratica (Podemos, almeno su questo, docet). Un soggetto che sia apertamente nazionale, e ciò in due sensi.
Prima di tutto perché vuole costruire l’unità della maggior parte dei ceti popolari (al momento divisi spesso artificiosamente
fra destra e sinistra), dando vita ad un’alleanza tra lavoratori
dipendenti (oggi divisi tra pubblici e privati, precari e garantiti,
migranti e nativi), partite Iva (che spesso nascondono lavoratori
formalmente autonomi ma realmente dipendenti), piccole imprese (che oggi
sono vessate non solo dallo stato, ma dalle grandi imprese private e
dalle banche, e che in uno stato rinnovato potrebbero trovare un
alleato); e poi offrendo alle stesse medie imprese più dinamiche un
contesto di relazioni geopolitiche che consenta loro un maggiore
sviluppo.
In secondo luogo perché rivendica apertamente la
sovranità politica e monetaria come precondizione di ogni politica (ed
in particolare di ogni politica che voglia essere favorevole ai
lavoratori) e come base per la costruzione di nuove e paritarie
relazioni e tra nazioni. Una forza nazionale che già solo per la valenza
simbolica di questo suo attributo (l’orgogliosa difesa non già di
un’etnia, di una lingua, di un insieme di tradizioni, ma di una civiltà politica che ha saputo in alcuni momenti coniugare libertà ed eguaglianza) potrebbe conquistare successi inaspettati.
Ci sono le forze, ci sono le idee, c’è l’occasione.
C’è l’urgenza politica ed etica. Gli ostacoli inutili vanno rimossi alla
svelta. Le riflessioni e le operazioni che richiedono più tempo vanno
iniziate subito. Dobbiamo essere consapevoli che saremo giudicati
(quantomeno dalla nostra coscienza) per quello che faremo l’anno prossimo.
Nel 1917 è successo quel che è successo, e la Costituzione del ’48
(come ci ricorda Luciano Canfora, uno che sa come si snodano le
dinamiche storiche più profonde) è anche effetto della lunga durata di
quell’evento. Che il 2017 sia, a suo modo, un anno memorabile per le
classi subalterne italiane. Auguri a tutti.
Post scriptum (che sarà un po’ lungo)
So che uno dei maggiori ostacoli da rimuovere è la
diffidenza verso la “nazione”. Diffidenza che ha radici profonde, ma che
è anche il sintomo della vocazione servile di gran parte del
ceto politico-intellettuale di oggi. Una vocazione ad obbedire a potenze
esterne facendo finta di non vedere ciò che ormai è chiaro a tutti: la
crisi della globalizzazione e il riemergere della questione nazionale
non sono un opinione, ma un fatto. “Imprese” militari decise da
singoli stati, guerre valutarie, trattati commerciali fatti più per
escludere qualcuno che per includere altri, decine, centinaia di
provvedimenti a protezione del proprio tessuto produttivo e dei capitali che, ovunque siano nati, fanno riferimento comunque al proprio
stato. Questo fanno quasi tutte le nazioni, tranne l’Italia. E perché
l’Italia no? Per internazionalismo? Tutt’altro: per servilismo, appunto,
verso i capitali (e le capitali) più forti. Vedasi il caso MPS.
La nazione è quindi un campo di battaglia, è il terreno attuale dello scontro politico, è l’oggetto nuovo della politica (nuovo
perché si muove in un contesto assai diverso da quello che vide il
nascere delle nazioni e da quello che vide il loro scontro
imperialista), la cui forma dipenderà dagli esiti degli scontri politici
interni d internazionali. Fuggire da questo campo è fuggire dalla
politica. Ed è una scelta che possono fare solo le frazioni medio-alte
del lavoro, solo quelli che credono di poter vivacchiare anche senza
alternativa politica e senza stato: la maggior parte dei lavoratori non
lo può fare.
E perché dovrebbe poi? La sovranità nazionale a cui
dobbiamo ispirarci non è sinonimo di potere assoluto: essa è piuttosto
il presupposto della nostra Costituzione (senza sovranità la
Costituzione non sarebbe efficace), che a sua volta dà forma alla
sovranità stessa e la limita. La sovranità nazionale a cui
pensiamo è condizione della democrazia: è ciò che fa sì che le decisioni
vengano prese senza dover preventivamente sottostare al placet
delle potenze esterne o interne al paese. Né sta scritto da nessuna
parte che la sovranità implichi necessariamente lo scontro militare con
gli altri paesi: dopo il ‘45, le guerre in Europa e in Medio Oriente
sono anzi contemporanee al declino della sovranità nazionale ed hanno
quasi sempre come scopo proprio quello di distruggere l’idea stessa di
sovranità – tranne che per l’unico stato veramente garante dell’ordine
internazionale – a vantaggio del libero flusso dei capitali e delle
merci. Il “sovrano” può decidere la guerra, ma anche la pace. Un’Italia
sovrana è la precondizione di una politica di pace nel mediterraneo ed
in Medio oriente.
Perché temere la nazione, dunque? Perché si teme che facendo appello alla nazione si faccia appello all’interclassismo generico contro
la classe dei lavoratori, si resusciti una qualche comunità immaginaria
per nascondere le divergenze di classe? Ma questo era il discorso
dell’imperialismo nazionalistico del passato. Oggi l’imperialismo si
realizza proprio attraverso la distruzione delle nazioni, intese
come spazi di definizione e tutela di diritti civili e soprattutto
sociali. Oggi quindi l’indipendenza di classe dei lavoratori, ossia la
capacità di porre in essere una politica autonoma, è tutt’uno con la conquista dell’indipendenza della nazione
come complesso di istituzioni che rendono possibili l’esistenza stessa
della politica come attività non meramente servente le esigenze del
capitale. Certo, il discorso nazionale può, se egemonizzato dalla
frazione protezionista del capitalismo, divenire nazionalistico e
aggressivo. Ma la lotta di classe dei lavoratori contro il capitalismo
liberista (che è oggi di gran lunga il nemico principale) deve organizzarsi in forma nazionale.
Resta la solita obiezione: cosa potrà mai fare l’Italia da sola? Ma nessuno di noi vuole che l’Italia sia sola. Non si tratta di proclamare autarchicamente l’indipendenza dai vincoli, ma di scegliere liberamente i vincoli a cui vogliamo assoggettarci e di dar loro una forma paritaria e cooperativa.
Nessuna politica che voglia contrastare la libera circolazione dei
capitali (e quindi nessuna politica che voglia anche solo somigliare al
socialismo) è possibile senza la costruzione di un’area economica
relativamente “chiusa”, ossia relativamente indipendente dagli scambi
con l’esterno. Tale area deve essere necessariamente ampia, e quindi
coinvolgere più nazioni. Da un punto di vista analitico sarebbe dunque
più corretto dire che lo spazio attuale della politica non è né quello
globale (che non è più tale) né quello nazionale (che è insufficiente),
ma quello internazionale. Ma ciò metterebbe in ombra il fatto che lo spazio internazionale è appunto luogo delle relazioni tra nazioni sovrane. E soprattutto metterebbe in ombra il “punto politico” di oggi: la politica ricomincia dalla nazione. E’ la definizione di un interesse nazionale
(che le nostre classi dominanti non a caso non sanno definire, e che
per noi coincide con l’interesse delle classi subalterne) a imporci di
rompere con l’Unione e a guidarci nella costruzione di nuove relazioni
internazionali.
Che il 2017 ci dia il coraggio di cominciare ad essere nazione.
Nessun commento:
Posta un commento