martedì 27 dicembre 2016

L'Economia Politica dell'Apartheid di Israele e lo Spettro del Genocidio

di William I. Robinson (da Truthout, 19 settembre 2014)
traduzione per Doppiocieco di Domenico D'Amico



Pochi giorni prima delle sette settimane di assedio di Gaza degli scorsi luglio e agosto, che ha prodotto 2.000 palestinesi morti, 11.000 feriti e 100.000 senza casa, il deputato israeliano Ayelet Shaked, membro di alto livello del Jewish Home Party [HaBayit HaYehudi, La Casa Ebraica], parte della coalizione al governo, ha scritto su Facebook che “il nemico è l'intera popolazione palestinese (…) inclusi vecchi e donne, città e villaggi, edifici e infrastrutture.” Il post prosegue affermando che “dietro ogni terrorista ci sono dozzine di uomini e donne, senza i quali non potrebbe compiere atti di terrorismo. Sono tutti combattenti nemici, e il loro sangue ricadrà su di essi [1]. E questo include anche le madri dei martiri, che li spediscono all'inferno con fiori e baci. Dovrebbero seguire i loro figli, niente sarebbe più giusto. Dovrebbero sparire, insieme al luogo fisico in cui hanno cresciuto quei serpenti. Altrimenti, quella casa farà da nido ad altri piccoli rettili.”
Il post di Shaked è stato condiviso più di mille volte, e ha ricevuto quasi cinquemila like. Qualche settimana dopo, il primo di agosto, The Times of Israel ha pubblicato un editoriale di Yochanan Gordan intitolato “Quando il Genocidio È Ammissibile.” Gordan afferma che “dovrà pur giungere il momento in cui Israele si senta abbastanza minacciato da non aver altra scelta che sfidare i moniti internazionali.” E prosegue così: “In quale altro modo è possibile trattare con un nemico di tale natura, se non eliminandolo totalmente [obliterate them completely]? All'inizio di questa incursione, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha detto chiaramente che il suo obbiettivo è quello di ristabilire un'accettabile tranquillità per i cittadini di Israele. (…) Se politici ed esperti militari giungono alla conclusione che il raggiungimento di questa tranquillità si possa ottenere con un genocidio [is through genocide], non diventa forse ammissibile raggiungere quegli obbiettivi ragionevoli?”

Gli appelli alla pulizia etnica e al genocidio sono sempre più frequenti

Facendo eco a sentimenti analoghi, il vicepresidente del parlamento israeliano Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu, ha incitato l'esercito israeliano all'uccisione indiscriminata dei palestinesi di Gaza, e all'impiego di ogni mezzo possibile per cacciarli via. “Se ne possono andare, il Sinai non è molto lontano da Gaza. Sarà questo il massimo sforzo umanitario di Israele,” ha affermato Feiglin. “L'IDF [esercito israeliano] conquisterà tutta Gaza, utilizzando ogni mezzo necessario a minimizzare il danno per i nostri soldati, ogni altra considerazione esclusa, (…) La popolazione nemica che non avrà compiuto atti di aggressione [innocent of wrong-doing] e che si sarà separata dai terroristi armati verrà trattata in accordo con il diritto internazionale, e gli sarà permesso di andare via.” [2]
Questi appelli alla pulizia etnica e al genocidio stanno aumentando di frequenza. In questi anni in Israele il clima politico ha continuato a svoltare talmente a destra, che ormai un'atmosfera fascista è percepibile nella vita di tutti i giorni. A tel Aviv, in agosto, alcuni dei dimostranti di destra che hanno picchiato i manifestanti di sinistra contrari all'assedio di Gaza indossavano magliette con simboli e foto neonaziste, incluse alcune con la scritta “Good Night Left Side” [Buonanotte Sinistra], uno slogan neonazista popolare nei concerti europei di band di estrema destra, replica all'originale slogan antifascista “Good Night White Pride” [Buonanotte Orgoglio Bianco]. Quasi metà della popolazione ebraica di Israele approva la politica di pulizia etnica per i palestinesi, e secondo un sondaggio del 2012, ampie parti del pubblico approverebbero l'annessione completa dei territori occupati e l'instaurazione di uno stato di apartheid.
Il timore per un fascismo in ascesa in Israele ha spinto 327 sopravvissuti e discendenti di sopravvissuti al genocidio nazista a pubblicare una lettera aperta sul New York Times del 25 agosto, manifestando allarme per “l'estrema, razzista disumanizzazione dei palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto il parossismo.” Così continua la lettera: “Dobbiamo levare la nostra voce collettiva e usare le nostre forze per porre fine a ogni forma di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese [the ongoing genocide of Palestinian people].”

Quali sono le radici economiche sottese alla politica economica israeliana che portano a simili tendenze genocide?

Il progetto sionista è probabilmente fondato [may have been founded] – come sappiamo da studi storici emersi di recente – sulla sistematica pulizia etnica e sul terrorismo inferti ai palestinesi. L'articolo II della Convenzione delle Nazioni Unite del 1948 [3] definisce il genocidio come “ciascuno degli atti (...) commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale.” Non c'è dubbio che stiamo assistendo, in Israele-Palestina, a un'attività che prelude al genocidio [pre-genocidal activity]. Quali sono le radici economiche sottese alla politica economica israeliana che portano a simili tendenze genocide?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un passo indietro di qualche anno, per concentrarci sui mutamenti di più larga scala associati alla globalizzazione capitalista e sull'integrazione di Israele e del Medio Oriente nel nuovo ordine globale. La globalizzazione del Medio Oriente, a partire dalla fine del XX Secolo, ha portato cambiamenti fondamentali nella struttura sociale di Israele e nell'economia politica del suo progetto coloniale. La ristrutturazione causata dalla globalizzazione capitalistica è stata portatrice di un importante cambiamento delle relazioni tra quel progetto e i palestinesi, e ha generato condizioni che rendono più agevole per la destra israeliana evocare lo spettro del genocidio.

Oslo e la Globalizzazione di Israele
La rapida globalizzazione di Israele, iniziata alla fine degli anni 80, coincise con due intifada palestinesi e con gli Accordi di Oslo, dibattuti dal 1991 al 1993 e demoliti negli anni successivi. Mentre la Guerra Fredda esalava l'ultimo respiro, le élite transnazionali ritenevano che l'emergente economia capitalistica globale non si sarebbe potuta stabilizzare, e rendersi sicura per l'accumulazione transnazionale di capitale, in un contesto di violenti conflitti regionali, e iniziarono quindi a fare pressione per una politica di “risoluzione dei conflitti,” o di una composizione negoziale dei conflitti regionali in corso, dall'America Centrale all'Africa meridionale. Sostenuti e persuasi dagli Stati Uniti e dalle élite transnazionali, nonché da potenti gruppi capitalistici israeliani, negli anni 90 i governanti di Israele intrapresero negoziati con le controparti palestinesi soprattutto come reazione alla crescente resistenza palestinese, manifestatasi con la prima intifada (1987-1991). Si possono vedere i negoziati di Oslo come un'importante tessera del puzzle politico dovuto all'integrazione del Medio Oriente nel sistema capitalistico globale emergente (un'integrazione che fa anche da sfondo strutturale alla Primavera Araba, ma è tutta un'altra storia).
Gli Accordi di Oslo, sottoscritti nel 1993, attribuirono all'Autorità Palestinese (PA) un'autonomia in stile bantustan [4] nei territori occupati, per un periodo che sarebbe dovuto essere un interim di cinque anni, durante il quale i negoziati avrebbero continuato a trattare questioni chiave per arrivare a una “situazione definitiva” [final status], questioni come lo stato dei rifugiati (e il loro diritto al ritorno), quello di Gerusalemme, dell'acqua, dei confini e del completo ritiro di Israele dai territori occupati. Eppure, durante gli anni di Oslo (dal 1991 al 1993, quando il processo fallì definitivamente) l'occupazione israeliana della West Bank e di Gaza conobbe una grande intensificazione. Perché il “processo di pace” fallì?

Fino alla metà degli anni 80, quando la globalizzazione prese il volo, la relazione tra Israele e i palestinesi rifletteva i caratteri del colonialismo classico, nel quale la potenza coloniale sottrae ai colonizzati territorio e risorse, per poi utilizzarli, i colonizzati, come forza lavoro.

Per prima cosa, il processo non era inteso a rimediare al dramma della maggioranza diseredata dei palestinesi, ma all'integrazione nel nuovo ordine globale di un'élite emergente palestinese, offrendo a questa élite una motivazione per mantenere l'ordine e per assumersi l'onere di gestire le masse palestinesi all'interno dei territori occupati. È stato rilevato, infatti, che la formazione delle classi palestinesi in questo periodo coinvolgeva capitalisti palestinesi di orientamento transnazionale, già in sintonia con le capitali del Golfo, speranzosi di fare del nuovo stato palestinese la piattaforma per il proprio consolidamento. La PA avrebbe dovuto gestire l'accumulazione del capitale transnazionale nei territori occupati, e al contempo mantenere il controllo sociale su una popolazione recalcitrante.
Seconda cosa, l'economia israeliana si stava globalizzando tramite un complesso militare-securitario ad alto contenuto tecnologico, la cui importanza chiariremo subito.
La compenetrazione tra il capitale israeliano e il capitale aziendale di America del Nord, Europa, Asia eccetera, è diventata sempre più profonda. Difatti, il capitale israeliano si è inestricabilmente integrato nel circuito del capitale globale. Oslo ha accompagnato il processo, agevolando l'attività dei capitalisti transnazionali israeliani in tutto il Medio Oriente e oltre, in parte permettendo la revoca dei boicottaggi verso Israele da parte dei regimi arabi conservatori, in parte favorendo l'apertura di un negoziato per la creazione di una Middle East Free Trade Area (MEFTA) che ha inserito Israele nella rete economica regionale (inclusi, ad esempio, Egitto, Turchia e Giordania) e ha integrato l'area ancora più profondamente nel capitalismo globale.
Terza cosa, intimamente connessa con le precedenti, negli anni 90 Israele ha conosciuto un grande aumento di immigrazione transnazionale, contando anche un milione circa di immigrati ebrei, che ha diminuito il bisogno di manodopera palestinese, anche se le cose, nel XXI Secolo, sarebbero cambiate. Fino alla metà degli anni 80, quando la globalizzazione prese il volo, la relazione tra Israele e i palestinesi rifletteva i caratteri del colonialismo classico, nel quale la potenza coloniale sottrae ai colonizzati territorio e risorse, per poi utilizzarli, i colonizzati, come forza lavoro. Ma l'integrazione del Medio Oriente nell'economia e società globale, sulle basi di una ristrutturazione economica neoliberista, che includeva la stranota litania di misure (privatizzazioni, liberalizzazione del commercio, austerità gestita dal Fondo Monetario Internazionale e prestiti dalla Banca Mondiale), quest'integrazione contribuì alla diffusione delle istanze di democratizzazione da parte di lavoratori, movimenti sociali e organizzazioni di base, il che portò alle intifada palestinesi, ai movimenti dei lavoratori nel Nord Africa e a crescenti agitazioni sociali – fino alle eclatanti sollevazioni arabe del 2011. Simili ondate di resistenza costrinsero i governanti israeliani e i loro sponsor statunitensi a reagire.

La Globalizzazione Trasforma i Palestinesi in “Umanità in Esubero”
L'economia israeliana, dalla sua integrazione nel capitalismo globale, ha attraversato due fasi di ristrutturazione, come viene mostrato nello studio Nitzan e Bichler, The Global Political Economy of Israel.
La prima, tra gli anni 80 e 90, ha visto la transizione da un'economia tradizionale di tipo agricolo-manifatturiero a una basata su computer e informatica (CIT), telecomunicazioni high-tech, tecnologia della Rete, eccetera. Tel Aviv e Haifa sono diventate gli “avamposti mediorientali” di Silicon Valley. A tutto il 2000, un buon 15% del PIL israeliano e metà delle esportazioni derivavano dal settore dell'alta tecnologia.

Israele si è globalizzata proprio attraverso la militarizzazione tecnologica della sua economia.

In seguito, dal 2001 in poi, e specialmente in seguito allo scoppio della bolla delle società dot-com e a una recessione globale, seguita dagli eventi dell'11 settembre 2001 e dalla rapida militarizzazione della politica mondiale, Israele ha conosciuto un ulteriore spinta verso un “complesso globale di tecnologie militari, securitarie, di intelligence, sorveglianza, antiterrorismo.” Le aziende tecnologiche israeliane sono state all'avanguardia nella cosiddetta industria della sicurezza interna. In effetti, Israele si è globalizzata proprio attraverso la militarizzazione tecnologica della sua economia. Le agenzie di export israeliane stimano che nel 2007 ci fossero 350 aziende transnazionali dedite alla sicurezza, all'intelligence e ai sistemi di controllo sociale, aziende al centro della nuova politica economica israeliana.
Le esportazioni di Israele in prodotti e servizi associati all'antiterrorismo sono aumentate del 15% nel solo 2006, con in prospettiva per il 2007 di un ulteriore aumento del 20%, per un ammontare di 1,2 miliardi di dollari all'anno,” osserva Naomi Klein nel suo studio Shock Doctrine. “Le esportazioni nel settore difesa hanno raggiunto nel 2006 un record di 3,4 miliardi di dollari (in confronto agli 1,6 del 1992), facendo di Israele il quarto commerciante d'armi del mondo, superando anche il Regno Unito. Israele ha molti più titoli tecnologici nel listino Nasdaq di qualsiasi altro paese non statunitense, titoli in larga parte legati alla sicurezza, e ha registrato negli USA più brevetti tecnologici di Cina e India messe insieme. Il suo settore tecnologico, per lo più nel campo della sicurezza, copre oggi il 60% di tutte le esportazioni.”

L'accumulazione militarizzata volta al controllo e contenimento degli oppressi e degli esclusi, volta al mantenimento dell'accumulazione in tempi di crisi, porta con sé tendenze politiche di tipo fascista, o, con termini usati da alcuni di noi, a un “fascismo del XXI Secolo.”

In altri termini, l'economia israeliana è giunta a trarre sostentamento dalla violenza locale, regionale e globale, dai conflitti e le disuguaglianze. Le sue aziende più importanti sono diventate dipendenti dalla guerra e dal conflitto, in Palestina, in Medio Oriente e nel mondo, e favoriscono questi conflitti utilizzando la loro influenza sul sistema politico e sullo stato d'Israele. Si tratta di un'accumulazione militarizzata che riguarda in egual modo gli Stati Uniti e l'intera economia globale.
Viviamo sempre di più in un'economia di guerra globale, e alcuni paesi, come Stati Uniti e Israele, sono componenti fondamentali di questo meccanismo. L'accumulazione militarizzata volta al controllo e al contenimento degli oppressi e degli esclusi, volta al mantenimento dell'accumulazione in tempi di crisi, porta con sé tendenze politiche di tipo fascista, o, con termini usati da alcuni di noi, a un “fascismo del XXI Secolo.”
Fino agli anni 90 la popolazione palestinese dei territori occupati forniva a Israele forza lavoro a basso prezzo. Ma negli ultimi anni, con gli incentivi per l'immigrazione ebraica da ogni parte del mondo e il collasso dell'Unione Sovietica, si è verificato un notevole aumento degli insediamenti ebraici, riguardante anche un milione di ebrei ex-sovietici, spesso essi stessi messi in fuga dalla ristrutturazione neoliberista post-sovietica. Inoltre, l'economia israeliana ha cominciato ad attirare un'immigrazione transnazionale dall'Africa, dall'Asia e altrove, dato che neoliberismo e crisi hanno spinto milioni di persone fuori dai paesi del Terzo Mondo.

I nuovi sistemi di mobilità e reclutamento del lavoro hanno permesso ai gruppi dominanti di tutto il mondo di riorganizzare il mercato del lavoro e ingaggiare lavoratori migranti privi di diritti e facili da controllare.

È un fenomeno globale, ma particolarmente appetibile per Israele, perché gli permette di fare a meno della forza lavoro palestinese, politicamente problematica. Oggi sono i più di 300.000 lavoratori immigrati da Tailandia, Cina, Nepal e Sri Lanka a costituire la maggior parte della forza lavoro impiegata nell'agricoltura israeliana, allo stesso modo con cui vengono utilizzati gli immigrati messicani o centro-americani nel settore agricolo statunitense, e nelle medesime condizioni di precariato, sfruttamento intensivo e discriminazione. Il razzismo che molti israeliani manifestavano nei confronti dei palestinesi – prodotto specifico della condizione coloniale – si è adesso mutata in una crescente ostilità verso gli immigrati in generale, favorendo l'evoluzione verso una società diffusamente razzista.
Dato che l'immigrazione ha eliminato il bisogno da parte di Israele di forza lavoro palestinese a basso prezzo, i palestinesi sono diventati una popolazione marginalizzata, in eccedenza. “Prima dell'arrivo dei rifugiati sovietici, Israele non avrebbe mai potuto recidere a lungo i rapporti con la popolazione palestinese di Gaza o della West Bank, perché la sua economia non sarebbe sopravvissuta senza di loro, non più di quanto quella californiana reggerebbe senza messicani,” come scrive Klein. “Circa 130.000 palestinesi lasciavano le loro case di Gaza o della West Bank e si recavano in Israele per costruire strade o fare gli spazzini, mentre altri palestinesi, contadini e commercianti, riempivano i camion di merci da vendere in Israele o in altre parti dei territori occupati.”

Dal punto di vista dei settori dominanti del capitale militarizzato, radicati nell'economia israeliana e internazionale, una simile situazione non costituisce la tragica perdita di opportunità per la risoluzione dei conflitti, ma piuttosto un'occasione d'oro per espandere l'accumulazione capitalistica – di sviluppare un mercato mondiale per armi e sistemi di sicurezza, tramite l'utilizzo dell'occupazione e della popolazione palestinese soggetta come terreno di prova e bersagli.

Non c'è da meravigliarsi, perciò, che esattamente nel 1993 – l'anno in cui gli accordi di Oslo sono stati firmati e attuati – Israele abbia imposto la sua nuova politica, nota con il nome di “closure” [chiusura], cioè il confinamento dei palestinesi dentro i territori occupati, la pulizia etnica e un forte incremento degli insediamenti coloniali. Nel 1993, l'anno d'inizio della politica di “closure”, la percentuale pro capite di Prodotto Nazionale Lordo dei territori occupati è diminuita del 30%. Arrivati al 2007, i tassi di povertà e disoccupazione arrivavano al 70%. Dal 1993 al 2000 – gli anni in cui veniva implementato un accordo “di pace” che avrebbe dovuto porre fine all'occupazione israeliana e vedere la nascita di uno stato palestinese – i coloni israeliani nella West Bank sono raddoppiati, arrivando a quota 400.000, a quota mezzo milione nel 2009, e il numero continua a crescere. Il tasso di grave malnutrizione a Gaza è simile a quello di alcune delle nazioni più povere del mondo, con più di metà delle famiglie che consuma solo un pasto al giorno. Mentre da una parte i palestinesi venivano espulsi dall'economia israeliana, dall'altra parte la politica di chiusura e di espansione dell'occupazione distruggeva la loro economia.
Il fallimento degli accordi di Oslo e la farsa di trattative “di pace” che vanno avanti mentre l'occupazione israeliana non conosce soste, potrebbe costituire un dilemma politico per le élite transnazionali (e alcune loro controparti israeliane) desiderose di coltivare e cooptare le élite palestinesi e altre entità capitalistiche. Tuttavia, dal punto di vista dei settori dominanti del capitale militarizzato, radicati nell'economia israeliana e internazionale, una simile situazione non costituisce la tragica perdita di opportunità per la risoluzione dei conflitti, ma piuttosto un'occasione d'oro per espandere l'accumulazione capitalistica – di sviluppare un mercato mondiale per armi e sistemi di sicurezza, tramite l'utilizzo dell'occupazione e della popolazione palestinese soggetta come terreno di prova e poligono di tiro.
Una volta dissipata la cortina fumogena di ideologia e retorica, sono questi i potenti interessi economici che sono giunti ad avere un'influenza decisiva sulla politica statale di Israele. “La rapida espansione di un'economia basata sull'alta tecnologia securitaria ha generato tra gli israeliani più ricchi e potenti un forte desiderio di accantonare la pace e intraprendere invece una 'guerra al terrore' in continua espansione,” osservava Klein vari anni fa, “insieme a una netta strategia volta a ridefinire il proprio conflitto con i palestinesi, non come una battaglia contro un movimento nazionalista con obbiettivi territoriali e sociali, ma come parte di una guerra globale contro il terrorismo – cioè contro forze fanatiche e irrazionali dedite solo alla distruzione.”
In un editoriale del 2009 intitolato “Israel Knows that Peace Just Doesn't Pay” [Israele Sa che la Pace Proprio Non Paga], pubblicato su Haaretz, autorevole quotidiano israeliano, Amira Hass – una delle poche, coraggiose voci critiche nei media israeliani, osservava che “l'industria della sicurezza costituisce un settore importante per le esportazioni – armi, munizioni e migliorie che vengono testate quotidianamente a Gaza e nella West Bank. (…) La protezione degli insediamenti necessita di un continuo sviluppo di tecnologie di sicurezza, sorveglianza e strutture di deterrenza quali recinzioni, posti di blocco, video sorveglianza e droni.” Inoltre, “Nel mondo industrializzato, si tratta delle tecnologie di massima eccellenza, offerte a banche, industrie e quartieri di lusso che sorgono accanto a baraccopoli ed enclave etniche dove la ribellione dev'essere soppressa,”

La Sociologia di Razzismo e Genocidio: da Ferguson ai Territori Occupati
La sociologia delle relazioni etnico-razziali identifica tre generi distinti di strutture razziste, vale a dire, di relazioni strutturali tra gruppi dominanti e gruppi minoritari. Una è quella che prende nome dalle “minoranze intermediarie” [middle men minorities]. In questo tipo di struttura, il gruppo minoritario riveste un ruolo di mediazione tra il gruppo dominante e gli altri gruppi subordinati. Questa è l'esperienza storica dei commercianti cinesi d'oltremare nel Sud Est Asiatico, dei libanesi e siriani nell'Africa Occidentale, degli indiani in Africa Orientale, dei meticci in Sud Africa, e degli ebrei in Europa. Quando le “minoranze intermediarie” perdono il loro ruolo col mutamento della struttura, esse possono essere assorbite nel nuovo ordine, oppure ritrovarsi nel ruolo di capri espiatori, se non addirittura essere vittime di genocidio.

Il sistema dominante ha bisogno della manodopera dei gruppi subordinati – in pratica i loro corpi, la loro esistenza – anche se questi gruppi subiscono una marginalizzazione sociale e culturale, e la privazione dei diritti civili.

Storicamente, a svolgere questo ruolo di “minoranza intermediaria” nell'Europa feudale e protocapitalista erano gli ebrei. La struttura dell'Europa feudale affidava agli ebrei determinati ruoli vitali per la riproduzione della società feudale europea. Ciò includeva il commercio a lunga distanza e il prestito di denaro. Simili attività erano proibite dalla Chiesa Cattolica e non avevano un ruolo prestabilito all'interno del rapporto servo-signore, cardine del feudalesimo, eppure erano indispensabili al mantenimento del sistema. Con lo sviluppo capitalistico di XIX e XX Secolo, le nuove classi capitaliste si appropriarono delle funzioni commerciali e bancarie, rendendo così il ruolo degli ebrei irrilevante per gli interessi della nuova classe dominante. Come conseguenza, mentre il capitalismo si sviluppava la pressione sugli ebrei d'Europa aumentava, finché si giunse al genocidio, per via di una serie nefasta di condizioni: gli ebrei che fanno da capro espiatorio per le privazioni causate dal capitalismo, la perdita del loro indispensabile ruolo economico, la crisi degli anni 30 e l'ideologia e i programmi dei nazisti.
Un secondo genere di struttura razzista è quella che chiamiamo “supersfruttamento/divisione [super-exploitation/disorganization] della classe lavoratrice.” Ciò si verifica quando, all'interno di un'economia o società che ha una classe di lavoratori stratificata razzialmente o etnicamente, un gruppo oppresso che fa parte della classe lavoratrice sfruttata si ritrova a occuparne il gradino più basso. L'essenziale qui è che la manodopera di questo gruppo subordinato – cioè corpi ed esistenze – è indispensabile al sistema dominante perfino se esso subisce la marginalizzazione sociale e la privazione dei diritti civili. Questa è stata l'esperienza degli degli africani-americani negli Stati Uniti dopo lo schiavismo, come quella degli irlandesi in Gran Bretagna, quella attuale dei latinos negli Stati Uniti, degli indios maya in Guatemala, degli africani durante l'apartheid in Sud Africa, eccetera. Questi gruppi sono spesso subordinati socialmente, culturalmente e politicamente, o de facto o de iure. Essi rappresentano il settore supersfruttato e discriminato delle classi popolari e lavoratrici divise etnicamente e razzialmente. Questa è stata l'esperienza dei palestinesi nell'economia politica israeliana fino ad anni recenti, e nel contesto unico di Israele e Palestina nel XX Secolo.

È la situazione in cui il sistema dominante ha bisogno delle risorse del gruppo subordinato, ma non della sua forza lavoro – non ha bisogno dei corpi dei suoi membri, della loro esistenza fisica. Questa è la struttura razzista che ha maggior probabilità di arrivare al genocidio.

L'ultima struttura razzista comporta l'esclusione e l'appropriazione delle risorse naturali. È la situazione in cui il sistema dominante ha bisogno delle risorse del gruppo subordinato, ma non della sua forza lavoro – non ha bisogno dei corpi dei suoi membri, della loro esistenza fisica. Questa è la struttura razzista che ha maggior probabilità di arrivare al genocidio. È quello che hanno subito i Nativi Americani nell'America del Nord. I gruppi dominanti avevano bisogno della terra dei nativi, ma non della loro forza lavoro o dei loro corpi – dato che gli schiavi africani e gli immigrati europei fornivano la manodopera necessaria al nuovo sistema – di conseguenza i nativi subirono un genocidio. È stata anche l'esperienza dei gruppi indigeni dell'Amazzonia – vaste riserve minerali ed energetiche sono state scoperte nelle loro terre, ma i loro corpi ostacolano letteralmente l'accesso a queste risorse da parte del capitale transnazionale, e di questi corpi non c'è bisogno, di conseguenza oggi in Amazzonia sono in atto spinte verso il genocidio [there are today genocidal pressures in Amazonia].
Si tratta della condizione recente degli africani-americani negli Stati Uniti. Molti africani-americani sono caduti dalla condizione di settore supersfruttato della classe lavoratrice a quella di marginali, dato che i datori di lavoro sono passati dalla manodopera dei neri a quella degli immigrati latinos, a loro volta divenuti manodopera supersfruttata. Diventati strutturalmente marginali in grande quantità, gli africani-americani subiscono un aggravamento del processo di perdita dei diritti civili, la criminalizzazione, una spuria “guerra alla droga,” l'incarcerazione di massa e un terrorismo statale e poliziesco, visti dal sistema come mezzi necessari per controllare una popolazione superflua e potenzialmente ribelle.

I sionisti e i difensori dello stato di Israele si mostrano mortalmente offesi da ogni accostamento tra il nazismo e le azioni dello stato israeliano, inclusa l'accusa di genocidio, in parte perché l'Olocausto ebraico viene utilizzato dallo stato d'Israele e dal progetto politico sionista come un meccanismo di legittimazione, di modo che evocare simili analogie significa mettere in discussione il discorso di legittimazione di Israele.

Oggi, come con i nativi americani prima di loro – e a differenza dei Sudafricani neri – i corpi dei palestinesi non servono più, sono solo ostacoli sul percorso dello stato sionista, delle classi dominanti, dei coloni e aspiranti tali, che hanno bisogno delle risorse palestinesi, in particolare della terra, ma non dei palestinesi. A onor del vero, anche se i lavoratori palestinesi vengono gradualmente espulsi dall'economia israeliana, migliaia di palestinesi della West Bank lavorano ancora in Israele. I russi e gli altri immigrati ebrei che hanno rimpiazzato i lavoratori palestinesi negli anni 90, negli anni successivi hanno continuato a contare sul loro privilegio razziale per essere cooptati nella classe media israeliana, dato che non volevano lavorare insieme agli arabi. Ma mentre accadeva tutto questo, immigrati asiatici, africani (e in genere del sud del mondo) hanno continuato ad arrivare in Israele. Questo passaggio verso la condizione di “umanità in esubero” è in uno stadio più avanzato per gli abitanti di Gaza, che rimangono imprigionati e relegati in quel campo di concentramento che è ormai diventata Gaza. I palestinesi di Gaza sembrano essere il primo gruppo ad affrontare azioni genocide. I sionisti e i difensori dello stato di Israele si mostrano mortalmente offesi da ogni accostamento tra il nazismo e le azioni dello stato israeliano, inclusa l'accusa di genocidio, in parte perché l'Olocausto ebraico viene utilizzato dallo stato d'Israele e dal progetto politico sionista come un meccanismo di legittimazione, di modo che evocare simili analogie significa mettere in discussione il discorso di legittimazione di Israele. Sottolinearlo è cruciale, perché quel discorso è giunto a legittimare politiche di Israele, già in atto o allo stato di proposta, che manifestano una sempre maggiore somiglianza con altri storici esempi di genocidio.
Il noto storico israeliano Benny Morris, professore all'Università Ben Gurion del Negev, il quale si identifica fortemente con Israele, nel 2004 ha rilasciato una lunga intervista ad Haaretz, nella quale ha fatto riferimento al genocidio dei nativi americani allo scopo di suggerire la possibilità che il genocidio sia accettabile. Nell'intervista afferma che “perfino la grande democrazia americana non si sarebbe potuta creare senza la distruzione degli Indiani. Ci sono casi in cui il bene generale ottenuto alla fine giustifica gli atti duri e crudeli che vengono commessi nel corso della storia.” [ There are cases in which the overall, final good justifies harsh and cruel acts that are committed in the course of history] Egli poi prosegue reclamando la pulizia etnica per i palestinesi, affermando che “bisogna pur costruire per loro un qualche tipo di gabbia. So che suona orribile. È davvero crudele. Ma non c'è altra scelta. Lì c'è un animale selvaggio che bisogna rinchiudere, in un modo o nell'altro.”
Le opinioni di Morris non sono generalmente accettate in Israele, men che meno a livello internazionale, e ci sono molte divergenze, contraddizioni e motivi di tensione tra Israele e le élite transnazionali. Esiste anche un crescente movimento globale che chiede il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni [boycott, divestiment and sanctions] (BDS), per esercitare una pressione che spinga le classi dominanti a raggiungere un compromesso in difesa dei loro stessi interessi economici. I futuri sviluppi sono imprevedibili. Che la pressione strutturale a favore di un genocidio si materializzi davvero in un progetto del genere, questo dipenderà dalla congiuntura storica dei momenti di crisi, da condizioni politiche e ideologiche che rendano il genocidio una possibilità, e da un soggetto statale con i mezzi e la volontà di metterlo in atto. Un genocidio al rallentatore sembra già in corso a Gaza, dove, a intervalli di qualche anno, ci sono già stati assedi israeliani della durata di mesi, che hanno causato molte migliaia di morti, decine di migliaia di feriti, centinaia di migliaia di sfollati e un'intera popolazione privata del minimo necessario per vivere, con uno stupefacente consenso del pubblico israeliano per queste campagne. Le condizioni generali per l'avvio di un progetto di genocidio sono lontane dall'essersi manifestate, ma di certo al presente stanno lentamente emergendo [they are certainly percolating at this time]. Sta alla comunità internazionale intraprendere una lotta al fianco dei palestinesi e degli israeliani per bene [5] per prevenire una simile eventualità.

Vorrei ringraziare Yousef Baker e Maryam Griffin per i suggerimenti e i commenti a una precedente stesura di quest'articolo.

William I. Robinson è professore di Sociology, Global Studies and Latin American Studies presso la University of California, Santa Barbara. La sua opera più recente è Global Capitalism and the Crisis of Humanity.


note del traduttore
[1] È una frase ricorrente in Levitico 20, come formula che conchiude il decreto di messa a morte di chi maltratta i genitori, commette adulterio, va a letto con la matrigna, con la nuora, con la zia, fa sesso con animali, fa sesso con un uomo (se uomo), eccetera eccetera. Le lesbiche non erano contemplate, perché vennero inventate molti secoli dopo dalle femministe.
[2] Trovo ammirevole il coup de maître logico-legale che permette di operare una pulizia etnica “in accordance with international law”.
[3] Più precisamente, si tratta della “Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio” (New York, 9 dicembre 1948).
[4] “Il termine bantustan si riferisce ai territori del Sudafrica e della Namibia assegnati alle etnie nere dal governo sudafricano nell'epoca dell'apartheid. (...) Negli anni del regime dell'apartheid voluto dal National Party allora al governo, le diverse etnie nere furono costrette a trasferirsi nei bantustan loro assegnati, e le loro possibilità di spostarsi sul territorio sudafricano furono fortemente limitate. I bantustan erano ufficialmente regioni autogovernate, ma di fatto erano dipendenti dall'autorità del governo sudafricano bianco.” [Wikipedia]
[5] Traduco così “decent”, che indica (più che il corrispettivo italiano “decente”) ciò che è corretto, accettabile, in breve ciò che raggiunge un minimo di rispettabilità.

1 commento:

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