di
William I. Robinson (da Truthout,
19 settembre 2014)
traduzione
per Doppiocieco di Domenico D'Amico
Pochi
giorni prima delle sette settimane di assedio di Gaza degli scorsi
luglio e agosto, che ha prodotto 2.000 palestinesi morti, 11.000
feriti e 100.000 senza casa, il deputato israeliano Ayelet Shaked,
membro di alto livello del Jewish Home Party [HaBayit
HaYehudi,
La Casa Ebraica], parte della coalizione al governo, ha scritto
su Facebook che “il nemico è l'intera popolazione palestinese
(…) inclusi vecchi e donne, città e villaggi, edifici e
infrastrutture.” Il post prosegue affermando che “dietro ogni
terrorista ci sono dozzine di uomini e donne, senza i quali non
potrebbe compiere atti di terrorismo. Sono tutti combattenti nemici,
e il loro sangue ricadrà su di essi [1]. E questo include anche le
madri dei martiri, che li spediscono all'inferno con fiori e baci.
Dovrebbero seguire i loro figli, niente sarebbe più giusto.
Dovrebbero sparire, insieme al luogo fisico in cui hanno cresciuto
quei serpenti. Altrimenti, quella casa farà da nido ad altri piccoli
rettili.”
Il
post di Shaked è stato condiviso più di mille volte, e ha ricevuto
quasi cinquemila like. Qualche settimana dopo, il primo di agosto,
The
Times of Israel
ha pubblicato un editoriale di
Yochanan Gordan intitolato “Quando il Genocidio È
Ammissibile.” Gordan afferma che “dovrà pur giungere il momento
in cui Israele si senta abbastanza minacciato da non aver altra
scelta che sfidare i moniti internazionali.” E prosegue così: “In
quale altro modo è possibile trattare con un nemico di tale natura,
se non eliminandolo totalmente [obliterate them completely]?
All'inizio di questa incursione, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu
ha detto chiaramente che il suo obbiettivo è quello di ristabilire
un'accettabile tranquillità per i cittadini di Israele. (…) Se
politici ed esperti militari giungono alla conclusione che il
raggiungimento di questa tranquillità si possa ottenere con un
genocidio [is through genocide], non diventa forse ammissibile
raggiungere quegli obbiettivi ragionevoli?”
Gli
appelli alla pulizia etnica e al genocidio sono sempre più frequenti
Facendo
eco a sentimenti analoghi, il vicepresidente del parlamento
israeliano Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu, ha
incitato l'esercito israeliano all'uccisione
indiscriminata dei palestinesi di Gaza, e all'impiego di ogni
mezzo possibile per cacciarli via. “Se ne possono andare, il Sinai
non è molto lontano da Gaza. Sarà questo il massimo sforzo
umanitario di Israele,” ha affermato Feiglin. “L'IDF [esercito
israeliano] conquisterà tutta Gaza, utilizzando ogni mezzo
necessario a minimizzare il danno per i nostri soldati, ogni altra
considerazione esclusa, (…) La popolazione nemica che non avrà
compiuto atti di aggressione [innocent of wrong-doing] e che si sarà
separata dai terroristi armati verrà trattata in accordo con il
diritto internazionale, e gli sarà permesso di andare via.” [2]
Questi
appelli alla pulizia etnica e al genocidio stanno aumentando di
frequenza. In questi anni in Israele il clima politico ha continuato
a svoltare talmente a destra, che ormai un'atmosfera fascista è
percepibile nella vita di tutti i giorni. A tel Aviv, in agosto,
alcuni dei dimostranti di destra che hanno picchiato i manifestanti
di sinistra contrari all'assedio di Gaza indossavano magliette
con simboli e foto neonaziste, incluse alcune con la scritta
“Good Night Left Side” [Buonanotte Sinistra], uno slogan
neonazista popolare nei concerti europei di band di estrema destra,
replica all'originale slogan antifascista “Good Night White Pride”
[Buonanotte Orgoglio Bianco]. Quasi metà della popolazione ebraica
di Israele approva la politica di pulizia etnica per i palestinesi, e
secondo un sondaggio del 2012, ampie parti del pubblico
approverebbero l'annessione completa dei territori occupati e
l'instaurazione di uno stato di apartheid.
Il
timore per un fascismo in ascesa in Israele ha spinto 327
sopravvissuti e discendenti di sopravvissuti al genocidio nazista a
pubblicare una lettera
aperta sul New
York Times
del 25 agosto, manifestando allarme per “l'estrema, razzista
disumanizzazione dei palestinesi nella società israeliana, che ha
raggiunto il parossismo.” Così continua la lettera: “Dobbiamo
levare la nostra voce collettiva e usare le nostre forze per porre
fine a ogni forma di razzismo, incluso il genocidio in corso del
popolo palestinese [the ongoing genocide of Palestinian people].”
Quali
sono le radici economiche sottese alla politica economica israeliana
che portano a simili tendenze genocide?
Il
progetto sionista è probabilmente fondato [may have been founded] –
come sappiamo da studi storici emersi di recente – sulla
sistematica pulizia etnica e sul terrorismo inferti ai palestinesi.
L'articolo II della Convenzione delle Nazioni Unite del 1948 [3]
definisce il genocidio come “ciascuno
degli atti (...) commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o
in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come
tale.” Non c'è dubbio che stiamo assistendo, in Israele-Palestina,
a un'attività che prelude al genocidio [pre-genocidal activity].
Quali sono le radici economiche sottese alla politica economica
israeliana che portano a simili tendenze genocide?
Per
rispondere a questa domanda dobbiamo fare un passo indietro di
qualche anno, per concentrarci sui mutamenti di più larga scala
associati alla globalizzazione capitalista e sull'integrazione di
Israele e del Medio Oriente nel nuovo ordine globale. La
globalizzazione del Medio Oriente, a partire dalla fine del XX
Secolo, ha portato cambiamenti fondamentali nella struttura sociale
di Israele e nell'economia politica del suo progetto coloniale. La
ristrutturazione causata dalla globalizzazione capitalistica è stata
portatrice di un importante cambiamento delle relazioni tra quel
progetto e i palestinesi, e ha generato condizioni che rendono più
agevole per la destra israeliana evocare lo spettro del genocidio.
Oslo
e la Globalizzazione di Israele
La
rapida globalizzazione di Israele, iniziata alla fine degli anni 80,
coincise con due intifada palestinesi e con gli Accordi di Oslo,
dibattuti dal 1991 al 1993 e demoliti negli anni successivi. Mentre
la Guerra Fredda esalava l'ultimo respiro, le élite transnazionali
ritenevano che l'emergente economia capitalistica globale non si
sarebbe potuta stabilizzare, e rendersi sicura per l'accumulazione
transnazionale di capitale, in un contesto di violenti conflitti
regionali, e iniziarono quindi a fare pressione per una politica di
“risoluzione dei conflitti,” o di una composizione negoziale dei
conflitti regionali in corso, dall'America Centrale all'Africa
meridionale. Sostenuti e persuasi dagli Stati Uniti e dalle élite
transnazionali, nonché da potenti gruppi capitalistici israeliani,
negli anni 90 i governanti di Israele intrapresero negoziati con le
controparti palestinesi soprattutto come reazione alla crescente
resistenza palestinese, manifestatasi con la prima intifada
(1987-1991). Si possono vedere i negoziati di Oslo come un'importante
tessera del puzzle politico dovuto all'integrazione del Medio Oriente
nel sistema capitalistico globale emergente (un'integrazione che fa
anche da sfondo strutturale alla Primavera Araba, ma è tutta
un'altra storia).
Gli
Accordi di Oslo, sottoscritti nel 1993, attribuirono all'Autorità
Palestinese (PA) un'autonomia in stile bantustan [4] nei territori
occupati, per un periodo che sarebbe dovuto essere un interim di
cinque anni, durante il quale i negoziati avrebbero continuato a
trattare questioni chiave per arrivare a una “situazione
definitiva” [final status], questioni come lo stato dei rifugiati
(e il loro diritto al ritorno), quello di Gerusalemme, dell'acqua,
dei confini e del completo ritiro di Israele dai territori occupati.
Eppure, durante gli anni di Oslo (dal 1991 al 1993, quando il
processo fallì definitivamente) l'occupazione israeliana della West
Bank e di Gaza conobbe una grande intensificazione. Perché il
“processo di pace” fallì?
Fino
alla metà degli anni 80, quando la globalizzazione prese il volo, la
relazione tra Israele e i palestinesi rifletteva i caratteri del
colonialismo classico, nel quale la potenza coloniale sottrae ai
colonizzati territorio e risorse, per poi utilizzarli, i colonizzati,
come forza lavoro.
Per
prima cosa, il processo non era inteso a rimediare al dramma della
maggioranza diseredata dei palestinesi, ma all'integrazione nel nuovo
ordine globale di un'élite emergente palestinese, offrendo a questa
élite una motivazione per mantenere l'ordine e per assumersi l'onere
di gestire le masse palestinesi all'interno dei territori occupati. È
stato rilevato, infatti, che la formazione
delle classi palestinesi
in questo periodo coinvolgeva capitalisti palestinesi di orientamento
transnazionale, già in sintonia con le capitali del Golfo,
speranzosi di fare del nuovo stato palestinese la piattaforma per il
proprio consolidamento. La PA avrebbe dovuto gestire l'accumulazione
del capitale transnazionale nei territori occupati, e al contempo
mantenere il controllo sociale su una popolazione recalcitrante.
Seconda
cosa, l'economia israeliana si stava globalizzando tramite un
complesso militare-securitario ad alto contenuto tecnologico, la cui
importanza chiariremo subito.
La
compenetrazione tra il capitale israeliano e il capitale aziendale di
America del Nord, Europa, Asia eccetera, è diventata sempre più
profonda. Difatti, il capitale israeliano si è inestricabilmente
integrato nel circuito del capitale globale. Oslo ha accompagnato il
processo, agevolando l'attività dei capitalisti transnazionali
israeliani in tutto il Medio Oriente e oltre, in parte permettendo la
revoca dei boicottaggi verso Israele da parte dei regimi arabi
conservatori, in parte favorendo l'apertura di un negoziato per la
creazione di una Middle East Free Trade Area (MEFTA) che ha inserito
Israele nella rete economica regionale (inclusi, ad esempio, Egitto,
Turchia e Giordania) e ha integrato l'area ancora più profondamente
nel capitalismo globale.
Terza
cosa, intimamente connessa con le precedenti, negli anni 90 Israele
ha conosciuto un grande aumento di immigrazione transnazionale,
contando anche un milione circa di immigrati ebrei, che ha diminuito
il bisogno di manodopera palestinese, anche se le cose, nel XXI
Secolo, sarebbero cambiate. Fino alla metà degli anni 80, quando la
globalizzazione prese il volo, la relazione tra Israele e i
palestinesi rifletteva i caratteri del colonialismo classico, nel
quale la potenza coloniale sottrae ai colonizzati territorio e
risorse, per poi utilizzarli, i colonizzati, come forza lavoro. Ma
l'integrazione del Medio Oriente nell'economia e società globale,
sulle basi di una ristrutturazione economica neoliberista, che
includeva la stranota litania di misure (privatizzazioni,
liberalizzazione del commercio, austerità gestita dal Fondo
Monetario Internazionale e prestiti dalla Banca Mondiale),
quest'integrazione contribuì alla diffusione delle istanze di
democratizzazione da parte di lavoratori, movimenti sociali e
organizzazioni di base, il che portò alle intifada palestinesi, ai
movimenti dei lavoratori nel Nord Africa e a crescenti agitazioni
sociali – fino alle eclatanti sollevazioni arabe del 2011. Simili
ondate di resistenza costrinsero i governanti israeliani e i loro
sponsor statunitensi a reagire.
La
Globalizzazione Trasforma i Palestinesi in “Umanità in Esubero”
L'economia
israeliana, dalla sua integrazione nel capitalismo globale, ha
attraversato due fasi di ristrutturazione, come viene mostrato nello
studio Nitzan e Bichler, The
Global Political Economy of Israel.
La
prima, tra gli anni 80 e 90, ha visto la transizione da un'economia
tradizionale di tipo agricolo-manifatturiero a una basata su computer
e informatica (CIT), telecomunicazioni high-tech, tecnologia della
Rete, eccetera. Tel Aviv e Haifa sono diventate gli “avamposti
mediorientali” di Silicon Valley. A tutto il 2000, un buon 15% del
PIL israeliano e metà delle esportazioni derivavano dal settore
dell'alta tecnologia.
Israele
si è globalizzata proprio attraverso la militarizzazione tecnologica
della sua economia.
In
seguito, dal 2001 in poi, e specialmente in seguito allo scoppio
della bolla delle società dot-com e a una recessione globale,
seguita dagli eventi dell'11 settembre 2001 e dalla rapida
militarizzazione della politica mondiale, Israele ha conosciuto un
ulteriore spinta verso un “complesso globale di tecnologie
militari, securitarie, di intelligence, sorveglianza,
antiterrorismo.” Le aziende tecnologiche israeliane sono state
all'avanguardia nella cosiddetta industria della sicurezza interna.
In effetti, Israele si è globalizzata proprio attraverso la
militarizzazione tecnologica della sua economia. Le agenzie di
export israeliane stimano che nel 2007 ci fossero 350 aziende
transnazionali dedite alla sicurezza, all'intelligence e ai sistemi
di controllo sociale, aziende al centro della nuova politica
economica israeliana.
“Le
esportazioni di Israele in prodotti e servizi associati
all'antiterrorismo sono aumentate del 15% nel solo 2006, con in
prospettiva per il 2007 di un ulteriore aumento del 20%, per un
ammontare di 1,2 miliardi di dollari all'anno,” osserva Naomi Klein
nel suo studio Shock
Doctrine. “Le
esportazioni nel settore difesa hanno raggiunto nel 2006 un record di
3,4 miliardi di dollari (in confronto agli 1,6 del 1992), facendo di
Israele il quarto commerciante d'armi del mondo, superando anche il
Regno Unito. Israele ha molti più titoli tecnologici nel listino
Nasdaq di qualsiasi altro paese non statunitense, titoli in larga
parte legati alla sicurezza, e ha registrato negli USA più brevetti
tecnologici di Cina e India messe insieme. Il suo settore
tecnologico, per lo più nel campo della sicurezza, copre oggi il 60%
di tutte le esportazioni.”
L'accumulazione
militarizzata volta al controllo e contenimento degli oppressi e
degli esclusi, volta al mantenimento dell'accumulazione in tempi di
crisi, porta con sé tendenze politiche di tipo fascista, o, con
termini usati da alcuni di noi, a un “fascismo del XXI Secolo.”
In
altri termini, l'economia israeliana è giunta a trarre sostentamento
dalla violenza locale, regionale e globale, dai conflitti e le
disuguaglianze. Le sue aziende più importanti sono diventate
dipendenti dalla guerra e dal conflitto, in Palestina, in Medio
Oriente e nel mondo, e favoriscono questi conflitti utilizzando la
loro influenza sul sistema politico e sullo stato d'Israele. Si
tratta di un'accumulazione militarizzata che riguarda in egual modo
gli Stati Uniti e l'intera economia globale.
Viviamo
sempre di più in un'economia
di guerra globale, e alcuni paesi, come Stati Uniti e Israele,
sono componenti fondamentali di questo meccanismo. L'accumulazione
militarizzata volta al controllo e al contenimento degli oppressi e
degli esclusi, volta al mantenimento dell'accumulazione in tempi di
crisi, porta con sé tendenze politiche di tipo fascista, o, con
termini usati da alcuni di noi, a un “fascismo
del XXI Secolo.”
Fino
agli anni 90 la popolazione palestinese dei territori occupati
forniva a Israele forza lavoro a basso prezzo. Ma negli ultimi anni,
con gli incentivi per l'immigrazione ebraica da ogni parte del mondo
e il collasso dell'Unione Sovietica, si è verificato un notevole
aumento degli insediamenti ebraici, riguardante anche un milione di
ebrei ex-sovietici, spesso essi stessi messi in fuga dalla
ristrutturazione neoliberista post-sovietica. Inoltre, l'economia
israeliana ha cominciato ad attirare un'immigrazione transnazionale
dall'Africa, dall'Asia e altrove, dato che neoliberismo e crisi hanno
spinto milioni di persone fuori dai paesi del Terzo Mondo.
I
nuovi sistemi di mobilità e reclutamento del lavoro hanno permesso
ai gruppi dominanti di tutto il mondo di riorganizzare il mercato del
lavoro e ingaggiare lavoratori migranti privi di diritti e facili da
controllare.
È
un fenomeno globale, ma particolarmente appetibile per Israele,
perché gli permette di fare a meno della forza lavoro palestinese,
politicamente problematica. Oggi sono i più di 300.000 lavoratori
immigrati da Tailandia, Cina, Nepal e Sri Lanka a costituire la
maggior parte della forza lavoro impiegata nell'agricoltura
israeliana, allo stesso modo con cui vengono utilizzati gli immigrati
messicani o centro-americani nel settore agricolo statunitense, e
nelle medesime condizioni di precariato,
sfruttamento intensivo e discriminazione. Il razzismo che molti
israeliani manifestavano nei confronti dei palestinesi – prodotto
specifico della condizione coloniale – si è adesso mutata in una
crescente ostilità verso gli immigrati in generale, favorendo
l'evoluzione verso una società diffusamente razzista.
Dato
che l'immigrazione ha eliminato il bisogno da parte di Israele di
forza lavoro palestinese a basso prezzo, i palestinesi sono diventati
una popolazione marginalizzata, in eccedenza. “Prima dell'arrivo
dei rifugiati sovietici, Israele non avrebbe mai potuto recidere a
lungo i rapporti con la popolazione palestinese di Gaza o della West
Bank, perché la sua economia non sarebbe sopravvissuta senza di
loro, non più di quanto quella californiana reggerebbe senza
messicani,” come scrive Klein. “Circa 130.000 palestinesi
lasciavano le loro case di Gaza o della West Bank e si recavano in
Israele per costruire strade o fare gli spazzini, mentre altri
palestinesi, contadini e commercianti, riempivano i camion di merci
da vendere in Israele o in altre parti dei territori occupati.”
Dal
punto di vista dei settori dominanti del capitale militarizzato,
radicati nell'economia israeliana e internazionale, una simile
situazione non costituisce la tragica perdita di opportunità per la
risoluzione dei conflitti, ma piuttosto un'occasione d'oro per
espandere l'accumulazione capitalistica – di sviluppare un mercato
mondiale per armi e sistemi di sicurezza, tramite l'utilizzo
dell'occupazione e della popolazione palestinese soggetta come
terreno di prova e bersagli.
Non
c'è da meravigliarsi, perciò, che esattamente nel 1993 – l'anno
in cui gli accordi di Oslo sono stati firmati e attuati – Israele
abbia imposto la sua nuova politica, nota con il nome di “closure”
[chiusura], cioè il confinamento
dei palestinesi dentro i territori occupati, la pulizia etnica e
un forte incremento degli insediamenti coloniali. Nel 1993, l'anno
d'inizio della politica di “closure”, la percentuale pro capite
di Prodotto Nazionale Lordo dei territori occupati è diminuita del
30%. Arrivati al 2007, i tassi di povertà e disoccupazione
arrivavano al 70%. Dal 1993 al 2000 – gli anni in cui veniva
implementato un accordo “di pace” che avrebbe dovuto porre fine
all'occupazione israeliana e vedere la nascita di uno stato
palestinese – i coloni israeliani nella West Bank sono
raddoppiati, arrivando a quota 400.000, a quota mezzo milione nel
2009, e il numero continua a crescere. Il tasso di grave
malnutrizione a Gaza è simile a quello di alcune delle nazioni più
povere del mondo, con più di metà delle famiglie che consuma solo
un pasto al giorno. Mentre da una parte i palestinesi venivano
espulsi dall'economia israeliana, dall'altra parte la politica di
chiusura e di espansione dell'occupazione distruggeva la loro
economia.
Il
fallimento degli accordi di Oslo e la farsa di trattative “di pace”
che vanno avanti mentre l'occupazione israeliana non conosce soste,
potrebbe costituire un dilemma politico per le élite transnazionali
(e alcune loro controparti israeliane) desiderose di coltivare e
cooptare le élite palestinesi e altre entità capitalistiche.
Tuttavia, dal punto di vista dei settori dominanti del capitale
militarizzato, radicati nell'economia israeliana e internazionale,
una simile situazione non costituisce la tragica perdita di
opportunità per la risoluzione dei conflitti, ma piuttosto
un'occasione d'oro per espandere l'accumulazione capitalistica – di
sviluppare un mercato mondiale per armi e sistemi di sicurezza,
tramite l'utilizzo dell'occupazione e della popolazione palestinese
soggetta come terreno di prova e poligono di tiro.
Una
volta dissipata la cortina fumogena di ideologia e retorica, sono
questi i potenti interessi economici che sono giunti ad avere
un'influenza decisiva sulla politica statale di Israele. “La rapida
espansione di un'economia basata sull'alta tecnologia securitaria ha
generato tra gli israeliani più ricchi e potenti un forte desiderio
di accantonare la pace e intraprendere invece una 'guerra al terrore'
in continua espansione,” osservava Klein vari anni fa, “insieme a
una netta strategia volta a ridefinire il proprio conflitto con i
palestinesi, non come una battaglia contro un movimento nazionalista
con obbiettivi territoriali e sociali, ma come parte di una guerra
globale contro il terrorismo – cioè contro forze fanatiche e
irrazionali dedite solo alla distruzione.”
In
un editoriale del 2009 intitolato “Israel
Knows that Peace Just Doesn't Pay” [Israele Sa che la Pace
Proprio Non Paga], pubblicato su Haaretz,
autorevole quotidiano israeliano, Amira Hass – una delle poche,
coraggiose voci critiche nei media israeliani, osservava che
“l'industria della sicurezza costituisce un settore importante per
le esportazioni – armi, munizioni e migliorie che vengono testate
quotidianamente a Gaza e nella West Bank. (…) La protezione degli
insediamenti necessita di un continuo sviluppo di tecnologie di
sicurezza, sorveglianza e strutture di deterrenza quali recinzioni,
posti di blocco, video sorveglianza e droni.” Inoltre, “Nel mondo
industrializzato, si tratta delle tecnologie di massima eccellenza,
offerte a banche, industrie e quartieri di lusso che sorgono accanto
a baraccopoli ed enclave etniche dove la ribellione dev'essere
soppressa,”
La
Sociologia di Razzismo e Genocidio: da Ferguson ai Territori Occupati
La
sociologia delle relazioni etnico-razziali identifica tre generi
distinti di strutture razziste, vale a dire, di relazioni strutturali
tra gruppi dominanti e gruppi minoritari. Una è quella che prende
nome dalle “minoranze intermediarie” [middle men minorities]. In
questo tipo di struttura, il gruppo minoritario riveste un ruolo di
mediazione tra il gruppo dominante e gli altri gruppi subordinati.
Questa è l'esperienza storica dei commercianti cinesi d'oltremare
nel Sud Est Asiatico, dei libanesi e siriani nell'Africa Occidentale,
degli indiani in Africa Orientale, dei meticci in Sud Africa, e degli
ebrei in Europa. Quando le “minoranze intermediarie” perdono il
loro ruolo col mutamento della struttura, esse possono essere
assorbite nel nuovo ordine, oppure ritrovarsi nel ruolo di capri
espiatori, se non addirittura essere vittime di genocidio.
Il
sistema dominante ha bisogno della manodopera dei gruppi subordinati
– in pratica i loro corpi, la loro esistenza – anche se questi
gruppi subiscono una marginalizzazione sociale e culturale, e la
privazione dei diritti civili.
Storicamente,
a svolgere questo ruolo di “minoranza intermediaria” nell'Europa
feudale e protocapitalista erano gli ebrei. La struttura dell'Europa
feudale affidava agli ebrei determinati ruoli vitali per la
riproduzione della società feudale europea. Ciò includeva il
commercio a lunga distanza e il prestito di denaro. Simili attività
erano proibite dalla Chiesa Cattolica e non avevano un ruolo
prestabilito all'interno del rapporto servo-signore, cardine del
feudalesimo, eppure erano indispensabili al mantenimento del sistema.
Con lo sviluppo capitalistico di XIX e XX Secolo, le nuove classi
capitaliste si appropriarono delle funzioni commerciali e bancarie,
rendendo così il ruolo degli ebrei irrilevante per gli interessi
della nuova classe dominante. Come conseguenza, mentre il capitalismo
si sviluppava la pressione sugli ebrei d'Europa aumentava, finché si
giunse al genocidio, per via di una serie nefasta di condizioni: gli
ebrei che fanno da capro espiatorio per le privazioni causate dal
capitalismo, la perdita del loro indispensabile ruolo economico, la
crisi degli anni 30 e l'ideologia e i programmi dei nazisti.
Un
secondo genere di struttura razzista è quella che chiamiamo
“supersfruttamento/divisione [super-exploitation/disorganization]
della classe lavoratrice.” Ciò si verifica quando, all'interno di
un'economia o società che ha una classe di lavoratori stratificata
razzialmente o etnicamente, un gruppo oppresso che fa parte della
classe lavoratrice sfruttata si ritrova a occuparne il gradino più
basso. L'essenziale qui è che la manodopera di questo gruppo
subordinato – cioè corpi ed esistenze – è indispensabile al
sistema dominante perfino se esso subisce la marginalizzazione
sociale e la privazione dei diritti civili. Questa è stata
l'esperienza degli degli africani-americani negli Stati Uniti dopo lo
schiavismo, come quella degli irlandesi in Gran Bretagna, quella
attuale dei latinos negli Stati Uniti, degli indios maya in
Guatemala, degli africani durante l'apartheid in Sud Africa,
eccetera. Questi gruppi sono spesso subordinati socialmente,
culturalmente e politicamente, o de facto o de iure.
Essi rappresentano il settore supersfruttato e discriminato delle
classi popolari e lavoratrici divise etnicamente e razzialmente.
Questa è stata l'esperienza dei palestinesi nell'economia politica
israeliana fino ad anni recenti, e nel contesto unico di Israele e
Palestina nel XX Secolo.
È
la situazione in cui il sistema dominante ha bisogno delle risorse
del gruppo subordinato, ma non della sua forza lavoro – non ha
bisogno dei corpi dei suoi membri, della loro esistenza fisica.
Questa è la struttura razzista che ha maggior probabilità di
arrivare al genocidio.
L'ultima
struttura razzista comporta l'esclusione e l'appropriazione delle
risorse naturali. È la situazione in cui il sistema dominante ha
bisogno delle risorse del gruppo subordinato, ma non della sua forza
lavoro – non ha bisogno dei corpi dei suoi membri, della loro
esistenza fisica. Questa è la struttura razzista che ha maggior
probabilità di arrivare al genocidio. È quello che hanno subito i
Nativi Americani nell'America del Nord. I gruppi dominanti avevano
bisogno della terra dei nativi, ma non della loro forza lavoro o dei
loro corpi – dato che gli schiavi africani e gli immigrati europei
fornivano la manodopera necessaria al nuovo sistema – di
conseguenza i nativi subirono un genocidio. È stata anche
l'esperienza dei gruppi indigeni dell'Amazzonia – vaste riserve
minerali ed energetiche sono state scoperte nelle loro terre, ma i
loro corpi ostacolano letteralmente l'accesso a queste risorse da
parte del capitale transnazionale, e di questi corpi non c'è
bisogno, di conseguenza oggi in Amazzonia sono in atto spinte verso
il genocidio [there are today genocidal pressures in Amazonia].
Si
tratta della condizione recente degli africani-americani negli Stati
Uniti. Molti africani-americani sono caduti dalla condizione di
settore supersfruttato della classe lavoratrice a quella di
marginali, dato che i datori di lavoro sono passati dalla manodopera
dei neri a quella degli immigrati latinos, a loro volta divenuti
manodopera supersfruttata. Diventati strutturalmente marginali in
grande quantità, gli africani-americani subiscono un aggravamento
del processo di perdita dei diritti civili, la criminalizzazione, una
spuria “guerra alla droga,” l'incarcerazione di massa e un
terrorismo statale e poliziesco, visti dal sistema come mezzi
necessari per controllare una popolazione superflua e potenzialmente
ribelle.
I
sionisti e i difensori dello stato di Israele si mostrano mortalmente
offesi da ogni accostamento tra il nazismo e le azioni dello stato
israeliano, inclusa l'accusa di genocidio, in parte perché
l'Olocausto ebraico viene utilizzato dallo stato d'Israele e dal
progetto politico sionista come un meccanismo di legittimazione, di
modo che evocare simili analogie significa mettere in discussione il
discorso di legittimazione di Israele.
Oggi,
come con i nativi americani prima di loro – e a differenza dei
Sudafricani neri – i corpi dei palestinesi non servono più, sono
solo ostacoli sul percorso dello stato sionista, delle classi
dominanti, dei coloni e aspiranti tali, che hanno bisogno delle
risorse palestinesi, in particolare della terra, ma non dei
palestinesi. A onor del vero, anche se i lavoratori palestinesi
vengono gradualmente espulsi dall'economia israeliana, migliaia di
palestinesi della West Bank lavorano ancora in Israele. I russi e gli
altri immigrati ebrei che hanno rimpiazzato i lavoratori palestinesi
negli anni 90, negli anni successivi hanno continuato a contare sul
loro privilegio razziale per essere cooptati nella classe media
israeliana, dato che non volevano lavorare insieme agli arabi. Ma
mentre accadeva tutto questo, immigrati asiatici, africani (e in
genere del sud del mondo) hanno continuato ad arrivare in Israele.
Questo passaggio verso la condizione di “umanità in esubero” è
in uno stadio più avanzato per gli abitanti di Gaza, che rimangono
imprigionati e relegati in quel campo di concentramento che è ormai
diventata Gaza. I palestinesi di Gaza sembrano essere il primo gruppo
ad affrontare azioni genocide. I sionisti e i difensori dello stato
di Israele si mostrano mortalmente offesi da ogni accostamento tra il
nazismo e le azioni dello stato israeliano, inclusa l'accusa di
genocidio, in parte perché l'Olocausto ebraico viene utilizzato
dallo stato d'Israele e dal progetto politico sionista come un
meccanismo di legittimazione, di modo che evocare simili analogie
significa mettere in discussione il discorso di legittimazione di
Israele. Sottolinearlo è cruciale, perché quel discorso è giunto a
legittimare politiche di Israele, già in atto o allo stato di
proposta, che manifestano una sempre maggiore somiglianza con altri
storici esempi di genocidio.
Il
noto storico israeliano Benny Morris, professore all'Università Ben
Gurion del Negev, il quale si identifica fortemente con Israele, nel
2004 ha rilasciato una lunga
intervista ad Haaretz,
nella quale ha fatto riferimento al genocidio dei nativi americani
allo scopo di suggerire la possibilità che il genocidio sia
accettabile. Nell'intervista afferma che “perfino la grande
democrazia americana non si sarebbe potuta creare senza la
distruzione degli Indiani. Ci sono casi in cui il bene generale
ottenuto alla fine giustifica gli atti duri e crudeli che vengono
commessi nel corso della storia.” [ There are cases in which the
overall, final good justifies harsh and cruel acts that are committed
in the course of history] Egli poi prosegue reclamando la pulizia
etnica per i palestinesi, affermando che “bisogna pur costruire per
loro un qualche tipo di gabbia. So che suona orribile. È davvero
crudele. Ma non c'è altra scelta. Lì c'è un animale selvaggio che
bisogna rinchiudere, in un modo o nell'altro.”
Le
opinioni di Morris non sono generalmente accettate in Israele, men
che meno a livello internazionale, e ci sono molte divergenze,
contraddizioni e motivi di tensione tra Israele e le élite
transnazionali. Esiste anche un crescente movimento globale che
chiede il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni [boycott,
divestiment and sanctions] (BDS), per esercitare una pressione che
spinga le classi dominanti a raggiungere un compromesso in difesa dei
loro stessi interessi economici. I futuri sviluppi sono
imprevedibili. Che la pressione strutturale a favore di un genocidio
si materializzi davvero in un progetto del genere, questo dipenderà
dalla congiuntura storica dei momenti di crisi, da condizioni
politiche e ideologiche che rendano il genocidio una possibilità, e
da un soggetto statale con i mezzi e la volontà di metterlo in atto.
Un genocidio al rallentatore sembra già in corso a Gaza, dove, a
intervalli di qualche anno, ci sono già stati assedi israeliani
della durata di mesi, che hanno causato molte migliaia di morti,
decine di migliaia di feriti, centinaia di migliaia di sfollati e
un'intera popolazione privata del minimo necessario per vivere, con
uno stupefacente consenso del pubblico israeliano per queste
campagne. Le condizioni generali per l'avvio di un progetto di
genocidio sono lontane dall'essersi manifestate, ma di certo al
presente stanno lentamente emergendo [they are certainly percolating
at this time]. Sta alla comunità internazionale intraprendere una
lotta al fianco dei palestinesi e degli israeliani per bene [5] per
prevenire una simile eventualità.
Vorrei
ringraziare Yousef Baker e Maryam Griffin per i suggerimenti e i
commenti a una precedente stesura di quest'articolo.
William
I. Robinson è professore di Sociology, Global Studies and Latin
American Studies presso la University of California, Santa Barbara.
La sua opera più recente è Global
Capitalism and the Crisis of Humanity.
note
del traduttore
[1]
È una frase ricorrente in Levitico 20, come formula che conchiude il
decreto di messa a morte di chi maltratta i genitori, commette
adulterio, va a letto con la matrigna, con la nuora, con la zia, fa
sesso con animali, fa sesso con un uomo (se uomo), eccetera eccetera.
Le lesbiche non erano contemplate, perché vennero inventate molti
secoli dopo dalle femministe.
[2]
Trovo ammirevole il coup de maître logico-legale che permette
di operare una pulizia etnica “in accordance with international
law”.
[3]
Più precisamente, si tratta della
“Convenzione
per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio”
(New York, 9 dicembre 1948).
[4]
“Il
termine bantustan si riferisce ai territori del Sudafrica e della
Namibia assegnati alle etnie nere dal governo sudafricano nell'epoca
dell'apartheid. (...) Negli anni del regime dell'apartheid voluto dal
National Party allora al governo, le diverse etnie nere furono
costrette a trasferirsi nei bantustan loro assegnati, e le loro
possibilità di spostarsi sul territorio sudafricano furono
fortemente limitate. I bantustan erano ufficialmente regioni
autogovernate, ma di fatto erano dipendenti dall'autorità del
governo sudafricano bianco.” [Wikipedia]
[5]
Traduco così “decent”, che indica (più che il corrispettivo
italiano “decente”) ciò che è corretto, accettabile, in breve
ciò che raggiunge un minimo di rispettabilità.
Bel lavoro!
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