di Sebastiano Isaia da sinistrainrete
L’aspetto politicamente più intrigante di un personaggio
“impolitico” (ma si vedrà presto fino a che punto questo cliché potrà
reggere) come Donald Trump consiste, a parer mio, nella sua inclinazione
a esprimere opinioni e concetti senza badare troppo ai paludati canoni
della tradizionale mediazione politico-diplomatica. Il rude linguaggio
del nuovo Presidente americano esprime il brutale linguaggio degli
interessi, prim’ancora che le sue personali convinzioni sul mondo e su
quant’altro. Detto questo, occorre anche dire che molte delle recenti
dichiarazioni di Trump, che hanno messo in subbuglio l’establishment
politico dell’Unione Europea e della Cina, mentre hanno invece
rincuorato “l’amico Putin”, non esprimono un’assoluta originalità di
linea politica, neanche rispetto alla sostanza di molti aspetti della
politica estera – e in parte anche di quella interna: vedi la politica
di contenimento dell’immigrazione ai confini del Messico – praticata dal
progressista Premier uscente. Da anni Obama batte sul tasto dei costi
della politica di sicurezza dell’Alleanza Atlantica, ribadendo in ogni
occasione utile la necessità di riequilibrarli a vantaggio degli USA. Su
questo punto rinvio al mio post Gli Stati Uniti tra “isolazionismo” e “internazionalismo”.
La novità sta piuttosto nella franchezza del linguaggio politico
adoperato da Trump, franchezza che a sua volta segnala un’accelerazione
nelle tendenze politico-strategiche degli Stati Uniti, riscontrabile
nella seguente dichiarazione: «L’Alleanza Atlantica è obsoleta, perché è
stata concepita tanti e tanti anni fa». In sé questa posizione non ha
nulla di sconvolgente, e suona anzi quasi banale alla luce dei tanti e
importanti avvenimenti che si sono prodotti dal 1989 in poi; soprattutto
i geopolitici americani di orientamento “realista” sostengano dagli
anni Novanta la tesi del superamento definitivo dell’Alleanza Atlantica e
della necessità di “chiudere” il suo strumento militare: la NATO.
Ma
è la prima volta, mi pare, che questa tesi viene formulata a così alti
livelli, entrando a far parte, di fatto, del programma politico della
nuova Amministrazione. Da minaccia velata, lo scioglimento della vecchia
Alleanza Occidentale diventa moneta corrente nella politica estera
statunitense. In ogni caso già nel marzo del 2016 Trump aveva messo le
carte in tavola a proposito dell’Alleanza Atlantica: «La Nato? È una
buona cosa… se funzionasse anche senza di noi. Siamo seri. Gli sviluppi
in Ucraina hanno investito molti paesi della Nato, ma non gli Stati
Uniti. Eppure, se notate, stiamo facendo tutto noi. I nostri alleati
cosa hanno fatto? Perché non interviene la Germania? Perché tutti i
paesi confinanti con l’Ucraina non trattano con la Russia? Perché noi
siamo la nazione più forte? È vero. La Nato come concetto va bene, ma
all’atto pratico funziona solo se ci siamo noi dentro. Non ci aiuta
nessuno. […] Regaliamo centinaia di miliardi di dollari per sostenere
paesi che sono, in teoria, più ricchi di noi. O non lo sapete? Germania,
Arabia Saudita, Giappone, Corea del Sud. La Nato è stata istituita in
un momento diverso. È stata creata quando eravamo un paese più ricco.
Prendiamo denaro in prestito dai cinesi, lo capite? La Nato ci costa una
fortuna e sì, stiamo proteggendo l’Europa, ma stiamo spendendo un sacco
di soldi. Punterò alla ridistribuzione dei costi ed assicuro che gli
Stati Uniti non sopporteranno ancora il totale peso della difesa in
Europa. Non è giusto e non otteniamo nulla in cambio, così come il
nostro impegno in Corea del Sud». Più chiaro di così.
Non
raramente, anzi abbastanza frequentemente, nei momenti di svolta
geopolitica e di accelerazione nei processi economici che investono
quella che ancora oggi è la prima potenza imperialistica del pianeta, e
che tale rimarrà, con ogni probabilità, ancora per diverso tempo,
emergono nel panorama politico americano personaggi “stravaganti” o
comunque non omogenei alla tradizionale postura politica dei
repubblicani e dei democratici. Pensiamo a Ronald Reagan. Negli anni
Settanta la classe dominante americana era molto divisa al suo interno,
un po’ come accade oggi, e la debole Amministrazione Carter rispecchiò
bene questa situazione. Solo con l’ex attore, di mediocre talento
artistico ma molto versato sul piano della fascinazione popolare, la
leadership politica del Paese riuscì a trovare il bandolo dell’intrigata
matassa assecondando una ristrutturazione tecnologica delle imprese e
una “rivoluzione finanziaria” non più procrastinabili. Si parlò di
reaganismo – versione statunitense del thatcherismo. I nostalgici del
vecchio capitalismo di stampo keynesiano parlarono di “controrivoluzione
liberista”, palesando con ciò la miserabile idea di rivoluzione che
avevano in testa. L’Amministrazione Reagan implementò misure di economia
politica che all’inizio apparsero agli occhi di quasi tutti gli
analisti economici americani ed europei estremamente contraddittorie e
per questo destinate a un sicuro insuccesso. Sappiamo come è andata a
finire. Lo stesso Barack Obama più volte ha esternato la propria
ammirazione nei confronti della figura politica del leader americano che
seppe piegare definitivamente «l’Impero del Male», altrimenti chiamato
Unione Sovietica. Ma ritorniamo ai nostri giorni.
L’Unione
Europea, ha detto Trump, è stata creata per far concorrenza economica
agli Stati Uniti d’America, e per questo gli americani non hanno alcun
interesse a sostenerla. Il discorso, come si dice, non fa una grinza.
L’Unione Europea come tentativo di creare un polo imperialista europeo a
guida franco-tedesca in grado di confrontarsi con gli Stati Uniti, con
la Cina e con la Russia: è una tesi che può impressionare solo chi non
capisce nulla di processo storico-sociale mondiale. È dalla seconda metà
degli anni Settanta del secolo scorso che il contenzioso
economico-finanziario tra gli Stati Uniti e i suoi maggiori alleati
strategici (Germania e Giappone in primis) è diventato il più
importante fattore nella determinazione della politica estera americana.
Negli anni Ottanta gli USA hanno ricercato a tutti i costi la
superiorità militare nei confronti dell’Unione Sovietica non solo nel
tentativo, peraltro riuscito, di assestare ai russi il colpo del KO (ma,
com’è noto, un colosso cade ingloriosamente solo se ha i piedi
d’argilla), ma anche e soprattutto per surrogare con la potenza
politico-militare una superiorità economico-tecnologica che gli
americani non vantavano più nei confronti degli europei e dei
giapponesi. Ecco perché fino all’ultimo Reagan cercò di puntellare
politicamente Gorbaciov, ossia per non spezzare quel confronto bipolare
che aveva tenuto sotto scacco l’intero Vecchio Continente. Probabilmente
per gli americani sarebbe stato più utile un nemico “sovietico”
certamente indebolito e ridotto al rango di potenza regionale ma in
grado tuttavia di reggere l’antica funzione di spauracchio
antioccidentale, e quindi legittimare l’ordine mondiale scaturito dal
Secondo macello mondiale. Più che di scardinare quell’ordine, Washington
lavorava per aggiornarlo e “ristrutturarlo” alla luce dell’ascesa della
Germania e del Giappone al rango di potenze capitalistiche di prima
grandezza. Lo stesso Presidente francese Mitterrand parlò nei primi anni
Ottanta della necessità di una «nuova Yalta». Scriveva in quegli stessi
anni l’ex Presidente Richard Nixon su un saggio dedicato al confronto
USA-URSS: «Le nostre differenze rendono impossibile una pace perfetta e
ideale, ma i nostri interessi comuni rendono conseguibile una pace
pragmatica e vera». Allora il nemico numero uno del capitalismo a stelle
e strisce si chiamava, appunto, Giappone, contro la cui economia
Washington implementò diverse rappresaglie commerciali e monetarie. «In
Giappone non vengono rispettati gli standard di tutela dei diritti dei
lavoratori che noi invece garantiamo alle nostre maestranze, e ciò rende
disonesta la capacità competitiva del made in Japan»: così
scrivevano i “giornaloni” statunitensi nel pieno del conflitto economico
con il Sol Levante. È, questo, un ritornello propagandistico che alla
fine degli anni Novanta sarà impiegato, mutatis mutandis, nei confronti dell’«immorale capitalismo cinese».
Personalmente
condivido la tesi di chi sostiene che «il vero vincitore del ciclo
storico delle guerre mondiali [è] stata la Germania. «Quest’affermazione
può suonare paradossale; ha tuttavia il merito di sottolineare che
l’impiego di strumenti puramente economici può consentire il riassetto
della economia internazionale in modo addirittura più efficace del
ricorso alla forza militare» (Carlo Jean, Manuale di geopolitica).
Con «ciclo storico delle guerre mondiali» occorre intendere, secondo
Jean, il lungo periodo che va dalla Prima guerra mondiale alla fine
della cosiddetta Guerra Fredda, culminata agli inizi degli anni Novanta
nella Riunificazione Tedesca e nella dissoluzione dell’Unione Sovietica.
In
realtà l’Unione Europea è stata concepita dalla Francia e
dall’Inghilterra soprattutto per controllare e marcare da vicino la
potenza sistemica della Germania, e magari usarla all’occorrenza in
funzione antirussa e antiamericana. Come spesso accade la volontà
politica si deve arrendere al cospetto della forza dell’economia. Ancora
Trump: «Guardate l’Ue e vi ritrovate la Germania, è un grosso strumento
per la Germania. È la ragione per la quale credo che il Regno Unito
abbia fatto bene ad uscirne». La verità a volte può avere l’effetto
della benzina gettata sul fuoco. «In questo momento stiamo abbandonando
l’Europa e pianifichiamo un vertice biennale del Commonwealth.
Costruiremo una Gran Bretagna veramente mondiale»: è quanto ha
dichiarato la Premier britannica Theresa May circa il piano del governo
sulla Brexit. Oggi la “relazione speciale” angloamericana appare più
forte che mai e le ambiziose, ma non saprei dire quanto fondate, parole
della May la dicono lunga sul mutamento dello scenario nel cuore stesso
del Vecchio Continente. Come reagirà alle “provocazioni” e alle sfide la
“riluttante” Germania? E che dire della Cina!
Ecco cosa
dichiarava Trump, sempre nel marzo del 2016, sulla Cina: «Noi abbiamo il
potere commerciale sulla Cina. Non credo che inizieranno la terza
guerra mondiale, ma dobbiamo essere imprevedibili, rispetto a ciò che
siamo adesso, assolutamente scontati. Siamo totalmente prevedibili e
questo è male. Conosco molto bene la Cina, faccio affari con loro da
decenni. Hanno ambizioni incredibili e si sentono invincibili. Il fatto è
che noi abbiamo ricostruito la Cina, grazie ai nostri miliardi. Se non
fosse per noi, non avrebbero aeroporti, strade e ponti. La Cina va
affrontata sotto il punto di vista commerciale. Il libero scambio ci ha
rovinato. Loro portano ogni cosa nel nostro paese. Noi, invece, dobbiamo
pagare». Ecco come ha risposto ieri il Presidente cinese Xi Jinping
parlando al World Economic Forum di Davos: «La globalizzazione ha
certamente creato dei problemi, ma non si deve gettare il bambino con
l’acqua sporca. Nuotiamo tutti nello stesso oceano». Com’è noto, questo
oceano si chiama Capitalismo Mondiale. Concludo la citazione:
«Il protezionismo, il populismo e la de-globalizzazione sono in
crescita, e questo non va bene per una più stretta cooperazione
economica a livello globale».
Chiosa Alessandro Barbera su La Stampa:
«Dalle alpi svizzere arriva il nuovo alfiere della globalizzazione, il
presidente cinese Xi Jinping. Il messaggio del leader all’Europa è
chiaro: se volete il mercato, il mercato siamo noi. L’avreste mai
detto?» Se dico che io l’ho pure scritto, oltre che detto, commetto un
grave peccato di presunzione? Certo, se uno crede nella colossale balla
del «socialismo con caratteristiche cinese» può anche rimanere spiazzato
da certe affermazioni di Xi.
«Il leader comunista difende la
globalizzazione e il libero commercio»: è questo insomma il “mantra” che
oggi impazza su tutte le prime pagine dei quotidiani italiani e
mondiali. Scrive Federico Fubini sul Corriere della Sera:
«Corrono tempi particolari, quando il segretario del partito comunista
cinese parla a Davos come Tony Blair dieci anni fa o Bill Clinton
vent’anni fa. Stesse formule ben levigate sui benefici della
globalizzazione o i danni del protezionismo». Federico Rampini parla
invece di un «mondo capovolto»: il Paese fondato dal “comunista” (le
virgolette sono a cura di chi scrive) Mao oggi si propone al mondo come
il leader della globalizzazione e del libero mercato. Ma la
discontinuità tra la Cina di Mao e quella di Xi non ha una natura
ideologica, come crede Fubini, né essa segnala una radicale diversità di
carattere storico-sociale rispetto al regime maoista, essendo stato
esso fondato su un capitalismo di Stato che si trovò a dover fare i
conti con il pesante retaggio storico del Paese, segnato da un lungo
passato di colonia sfruttata e dalla più recente egemonia imperialistica
imperniata sul bipolarismo USA-URSS. Il merito storico e politico di
Mao fu quello di aver consegnato ai suoi eredi un Paese certamente
prostrato sul piano economico e molto lacerato su quello sociale e
politico, ma tuttavia un Paese ancora unito sul piano nazionale (anche
in virtù di pesantissime repressioni ai danni delle minoranze etniche
che vivono nell’area cinese) e pronto al decollo sulla scena mondiale.
Un successo, quello di Mao, interamente ottenuto sul terreno dello
sviluppo capitalistico e della costruzione di una potenza
imperialistica, non certo sul terreno della costruzione del «socialismo
con caratteristiche cinese», come blateravano ai “bei tempi” i maoisti
europei e come continuano a blaterare i non pochi sostenitori italioti
del «socialismo cinese». Sulla storia del maoismo rinvio a Tutto sotto il cielo – del Capitalismo e al post Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese.
Indubbiamente
la Cina e la Germania sono i due Paesi che oggi hanno più da temere
dalla politica estera di Trump, ed è per questo che i due Paesi sembrano
parlare lo stesso linguaggio. «Pechino e Bruxelles hanno in comune
molto più di quanto non possa accadere con la nuova amministrazione
americana», si leggeva qualche giorno fa su un editoriale del quotidiano
di Stato in inglese China Daily. Si scrive Bruxelles ma si legge, molto probabilmente, Berlino.
Scrive sul Foglio
Giuliano Ferrara, il quale continua a non voler salire sul carro del
vincitore, come invece si sono premurati a fare in molti, sia a “destra”
sia a “sinistra” (anche qui, nessuno sbigottimento da parte di chi
scrive, ma solo conferme): «Un celebre proverbio dice che devi pregare
Iddio perché non ti faccia vivere in tempi interessanti. Bisogna pregare
molto, molto, molto. Ma, a parte questo, che facciamo? Salire su quel
carro mi sembra non auspicabile e anche impossibile. Fermarlo non è così
semplice. […] La Merkel, considerata da Trump come una sfruttatrice
dell’Europa unita, una cui concedere una fiducia a termine, potrebbe
farcela ma non è certo». Sarà un anno interessante, purtroppo». Come si
dice dalle mie parti, questo è poco ma è sicuro.
Quel che
ci apprestiamo a vivere è dunque un tempo capovolto, insicuro,
imprevedibile, interessante; di certo la contesa interimperialistica si
fa sempre più aspra e disumana. E anche qui possiamo dire: questo sarà pure poco ma almeno è sicuro.
Una volta Keynes disse: «L’inevitabile non accade mai, l’inatteso
sempre»; speriamo che «l’inatteso» almeno per una volta militi a favore
delle classi subalterne e dell’umanità in genere. Di questi tempi mi
tocca confidare pure in Keynes, e ho detto tutto!
lunedì 30 gennaio 2017
Tempi imprevedibili e interessanti. La competizione interimperialistica ai tempi di Trump
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