domenica 10 maggio 2015

L'era di Obama

di Piero Paglini* da Ubu Re

1. L’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti ha espresso consapevolezza che la strategia unilaterale di imposizione con la forza delle armi di un nuovo sistema mondiale gerarchico di stati a guida Usa, doveva essere ripensata.

 Sono convinto che chi non capisce questo non ha nessuna possibilità di capire cosa successo nel Novecento e cosa succederà nei primi decenni di questo secolo. In particolare non capirà che la politica di Obama è l’adattamento della strategia statunitense con  mezzi adattati a un quadro mondiale e interno cambiato.
Con Bush gli Usa hanno cercato di cogliere la finestra aperta dopo la caduta del Muro di Berlino per sviluppare una strategia che, affiancata alla globalizzazione,cercava di porre rimedio alla pluridecennale perdita di capacità di far sistema, cioè di coordinare il ciclo mondiale di accumulazione. Era una strategia top-down, studiata a partire da assunti imperiali di potenza, basata sulla convinzione che le aree conquistate si sarebbero presto normalizzate, un po’ come l’Italia e la Germania dopo il 1945.
Ma così non è stato.
L’Afghanistan e l’Iraq sono lungi dall’essere normalizzati. In aggiunta si sta denormalizzando il Pakistan, punto nevralgico dei rapporti tra Cina, India e Stati Uniti.
La Russia, dopo la cleptocrazia compradora (1) di Boris Yeltsin, che così tanto avev fatto sperare all’Occidente, si è ripresa con decisione sovrana sotto il pugno di ferro determinato di Vladimir Putin, che solo la mancanza di baffoni lo distingue da Stalin negli esercizi iconografici dei media occidentali.
La Cina possiede quasi tutti i mezzi di pagamento del mondo e con le sue esorbitanti  riserve valutarie, assieme alla sua forza atomica di dissuasione e alla sua potenza demografica, provoca non pochi mal di testa agli Usa e, di conseguenza, politiche incoerenti (2).
L’India, col suo miliardo e cento milioni di abitanti, è il terzo colosso che insiste in questo quadro prima asiatico e poi mondiale. Cerca di fare i propri interessi tenendo i piedi in varie staffe: stringe rapporti di cooperazione nucleare con gli Stati Uniti, ma prima ne va a parlare col suo gigantesco vicino cinese, il quale per ora ha risposto: “fatepure, staremo a vedere”.
E anche nel giardino di casa americano le cose non sono molto favorevoli. Il Brasile sta diventando un nuovo competitor, mentre i Paesi dell’Alternativa Bolivariana per le Americhe (Alba), Venezuela, Bolivia, Ecuador in sintonia con l’indomita Cuba, giocan a scacchi col prepotente vicino americano sfidandolo anche nelle relazioni internazionali. Dopo tentativi di rivoluzione colorata in Venezuela e Bolivia, la nuova Amministrazione democratica si è così rivolta ai vecchi metodi, ed ecco il golpe in Honduras da parte dei gorilla fascistoidi usciti dalla famigerata Scuola delle Americhe,
ammaestrati e sostenuti dall’entourage politico e affaristico di Hillary Clinton e consorte.
Un golpe che la sinistra italiana ha vergognosamente passato sotto silenzio quando non è stato addirittura visto, da certa stampa progressista, con simpatia.

2. E’ evidente quindi agli strateghi statunitensi che la finestra aperta con la caduta del Muro di Berlino si sta progressivamente chiudendo - e che non fosse amplissima lo sapevano sin da subito. La politica di Obama ha cercato di perdere meno terren possibile, di accorciare le linee e di aggiustare il tiro (ad esempio facendo più pressione
contro la Russia, come era stato promesso in campagna elettorale) e variare la tattica.
Questa pausa di riorganizzazione gli è valsa un vergognoso premio Nobel per la Pace e gridolini da groupies da parte della sinistra italiana. E ha fatto riemergere le diverse linee strategiche che si confrontano negli Usa. Il dott. Henry Kissinger, ad esempio, ha
sempre sostenuto che il tentativo di contenimento militare della Cina propugnato da altri conservatori come Robert Kaplan era controproducente, consigliando invece un suo contenimento economico: il ruolo emergente della Cina è spesso paragonato a quello della Germania imperiale all’inizio del XX secolo, derivando da ciò che un confronto strategico sia inevitabile e che gli Stati Uniti
farebbero meglio a prepararsi ad esso. Questo assunto è pericoloso ed errato. La Cina sceglie i propri obiettivi dopo uno studio molto accurato, con grande pazienza e aggiungendo sfumatura a sfumatura. Solo molto raramente la Cina si avventura realmente in uno scontro del tipo “chi vince piglia tutto”. E’ quindi imprudente sostituire nella nostra visione la Cina all’Unione Sovietica e applicare ad essa la politica di contenimento militare della Guerra Fredda. […] L’equazione strategica in Asia è totalmente differente. La politica Usa in Asia non si deve autoipnotizzare per via delle spese militari cinesi. L’Unione Sovietica era erede di una tradizione imperialista che, tra Pietro il Grande e la fine della II Guerra Mondiale, ha proiettato la Russia dalla regione di Mosca al centro dell’Europa. Lo stato cinese esiste nelle sue attuali dimensioni sostanzialmente da 2.000 anni. L’impero russo era governato tramite la forza;
l’impero cinese attraverso l’uniformità culturale sullo sfondo di una forza notevole. […] La sfida portata dalla Cina nel futuro a medio termine sarà molto probabilmente economica epolitica, non militare. […] Paradossalmente la miglior strategia per raggiungere obiettivi antiegemonici [in Asia, NdA] è quella di mantenere relazioni strette con tutti i principali Paesi dell’Asia, inclusa la Cina. In questo senso, il risorgere dell’Asia sarà un test per la competitività Usa nel mondo che sta ora emergendo, specialmente nei paesi asiatici. Lo scopo storico americano di opporsi ad ogni egemonia in Asia – presentato come uno scopo congiunto con la Cina nel Comunicato di Shanghai del 1972 – rimane valido. Deve essere tuttavia raggiunto innanzitutto con misure politiche ed economiche - ancorché spalleggiate dalla forza statunitense. In un confronto con la Cina, in grande maggioranza le nazioni faranno di tutto per non dover scegliere con chi stare. Parimenti, saranno maggiormente incentivate dalla
partecipazione in un sistema multilaterale assieme all’America che non dall’adozione di un nazionalismo asiatico escludente. Non vogliono essere viste come pezzi di un piano americano.
L’India, ad esempio, percepisce una comunanza di interessi persino maggiore con gli Stati Uniti per quanto riguarda l’opposizione al radicalismo islamico, alcuni aspetti della proliferazione nucleare e l’integrità della Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico. Ma non vede alcuna necessità di dare a questi comuni obiettivi un carattere ideologico o anticinese. Non trova per nulla incoerente aumentare drasticamente le proprie relazioni con gli Stati Uniti e proclamare una partnership strategica con la Cina (Kissinger, 2005)
Abbiamo riportato lungamente questa posizione perché da sola contiene molti elementi di quella che potrebbe essere in sostanza la politica di Barack Obama. Una politica pragmatica. Come da tradizione americana. Non a caso abbiamo visto il presidente repubblicano Bush seguire le indicazioni strategiche di un consigliere per la sicurezza democratico come Brzezinski, mentre il presidente democratico Obama sembra seguire almeno in parte le indicazioni strategiche, dettate anche da corposi interessi, di un ex Segretario di Stato repubblicano, come Kissinger. Ciò al netto degli scontri interni.

3. L’era Obama segnala un trapasso di fase della crisi conclamatasi nel 1971.
In molti si sono ingegnati a cercare di fornire spiegazioni ideologiche e agiografiche di questo fatto. Sostanzialmente ne usciva il quadro di un presidente Usa alle prese con una situazione intollerabile per il debito pubblico, per il deficit commerciale, per l’overdose da consumi basati sul debito e per uno Stato impegnato in guerre molto
rischiose militarmente, politicamente e finanziariamente.
Yes, he can. Se questo era il lascito delle due tenures di Bush, Obama è stato visto come colui che poteva raddrizzare la situazione con una politica riformista orientata all’equità e alla solidarietà sociale e al multilateralismo. Un nuovo Kennedy, per giunta nero e in più grande ammiratore di Gandhi. Can he do it?
Tanto per iniziare, Nixon era quacchero e i quaccheri sono obiettori integrali di coscienza. Eppure è passato alla storia come “Nixon boia” e questo paradosso è diventato un test per i sistemi di Intelligenza Artificiale. E Clinton? Clinton fu persino renitente alla leva e scappò in Canada per non essere mandato a combattere la guerradel Vietnam alla quale si opponeva attivamente. E poi? Poi divenne comandante in capo delle forze armate Usa, altro evento che fu salutato come strabiliante dalla nostra sinistra. Peccato che il suo Segretario di Stato ebbe a dire una volta in televisione che
mezzo milione di bambini iracheni morti erano un “prezzo giusto” (“The price is worth it”). Strabiliante, non c’è che dire. E il suo clan è probabilmente a capodell’opposizione più attiva dell’hard power contro il soft power di Obama.
E infine c’è sempre il modo di richiamare alla memoria del Presidente chi l’ha piazzato alla Casa Bianca e per conto di chi - e non è certo il Popolo (sembra che ilproiettile calibro 22 nel polmone sinistro di Reagan fosse uno di questi promemoria).
Insomma, l’elezione di Obama al di là di una certa importanza ideologica e culturale interna agli Usa, deve essere letta all’interno di un piano di riordino strategico che comunque non deve farci dimenticare che i presidenti democratici sono stati tanto guerrafondai quanto quelli repubblicani, se non di più. Il democratico Wilson portò il suo Paese nella Prima Guerra Mondiale, il democratico Roosevelt nella Seconda. Fu il democratico Truman a far sganciare le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Fu il democratico Kennedy a far attaccare Cuba alla Baia dei Porci (per poi svignarsela quando si mise male), fu sempre lui a iniziare l’intervento americano in Vietnam e fu il suo successore, il democratico Johnson, a inventarsi il cosiddetto “incidente del Golfo del Tonchino” e a trasformare quell’intervento nella spaventosa guerra che sappiamo (3).

4. Gli Stati Uniti hanno la democrazia che hanno, tutta basata su bandwagon miliardari dove le lobby potenti contano infinitamente di più di tutti i cittadini messi insieme, così come contano di più gli strateghi imperiali. Eppure sono convinto che a parte subjecti il popolo statunitense abbia cercato realmente un cambiamento. Tuttavia ciò non può giustificare il giubilo scomposto dei laeti di sinistra e di destra della nostra provincia.
La crisi libica è diventata una cartina di tornasole dell’interpretazione della strategia obamiana che sto qui avanzando. Al suo inizio si è assistito a un protagonismo forsennato della Francia mentre la Gran Bretagna scalpitava ma sembrava aspettare ordini precisi da oltre Atlantico. E’ sembrato che non si fosse in presenza di un intervento coordinato da una potenza dominante, ma interventi personalizzati. Il
contendere “Nato sì, Nato no” apriva interrogativi: era un semplice gioco delle parti o era la codifica della competizione interimperialistica all’interno stesso  di aggressioni imperialistiche?

Non abbiamo informazioni sufficienti per rispondere. L’unica certezza era la “tabella di marcia” imperiale spifferata dal generale Clark e un ragionamento logico che impediva di credere che gli Stati Uniti fossero realmente ai margini.
Nella crisi libica l’Italia si rivelava essere il ventre molle del quadro europeo, mentre la Francia si stava rivelando essere un prepotente scudiero che avanzava pretese ed onori oltre che un ruolo di protagonista in Africa. Una degenerazione dell’originario gaullismo. La Russia e la Cina sono rimaste spiazzate. Il risultato è stato un Paese massacrato e in preda al caos, come già lo sono l’Afghanistan e l’Iraq e come nei piani dovrebbe diventarlo la Siria, la cui sanguinosa crisi fa parte delle promesse pressioni verso la Russia..
Al posto dell’inglobamento imperiale organico il caos è diventato il “piano B”. Non più il governo dei Paesi target, ma il controllo di fortini sparsi in punti strategici: le capitali, gli snodi di comunicazione, i giacimenti di risorse naturali. Tutto attorno caos, dovuto a mancanza di risorse e a strategie contraddittorie e in disaccordo non solo tra le potenze aggredenti, ma anche al loro interno. Caos come effetto del procedimento pragmatico di prova ed errore che ha preso il posto della grand strategy di inizio millennio, che per altro aveva sortito effetti simili.
Interpretando invece il caos come una sconfitta, qualcuno pensa che una nuova era si aprirà per forza di cose per via della crisi economica e delle sue conseguenze sui rapporti di forza globali. E’ una versione che ha il solito difetto di traguardare tutto col solo metr dell’economia. In definitiva, gli Stati Uniti, non ce la farebbero più a mantenere questo ritmo di consumo e questo ritmo imperialistico perché la crisi, prima finanziaria e poi economica non glielo permetterebbe più.
Eppure dovrebbe essere evidente che il problema non sta qui. O per lo meno non è solo qui. Da più di quattro decadi gli Stati Uniti sono debitori del mondo in senso assoluto. E lo sono non per sbaglio o perché incoscienti iperconsumatori: non si può applicare a uno Stato la logica che si applica a una famiglia (anche se questa è la retorica dei nostri media, dei nostri intellettuali e dei nostri specialisti). Men che meno la si può applicare a una superpotenza. Come vedremo con precisione nella Sezione VIII, essere straordinari debitori e consumatori è stata una scelta strategica che ha permesso agli Usa di mantenere le redini del sistema dall’inizio della crisi a oggi. Per
intenderci, quindi, il problema non è tanto che la guerra in Iraq sia una three trillion o una six trillion dollar war; il problema è semmai se quei trilioni di dollari sono “spesi bene”, cioè se permettono agli Usa di rimanere il protagonista geo-politico-finanziario del mondo a dispetto dei finanziatori in ultima istanza della spesa stessa. Il metro da usare è una sorta di return on investment strategico.
Ad ogni modo questa crisi non lascerà gli assetti mondiali come sono adesso.
Insomma, come cantava Bob Dylan, «qualcosa sta accadendo qui. E lei non sa che cosa. Non è vero Mr. Jones?».
Invece è di vitale importanza esplorare cosa c’è di nuovo nella “nuova era”capitalistica nel suo complesso, cercando il più possibile di essere fedeli al metodo che Marx ci ha insegnato, ma senza incantarci come un disco rotto su vecchie musiche.

“Crisi” e “crolli”, “collassi” ed “estinzioni” (del capitalismo) 
1. L’ex sinistra ripete, con sempre più stanca convinzione, le frottole di un “New Deal”mondiale sotto la costellazione di Barack Obama. A complemento dell’attesa di questa sorta di revival degli anni Sessanta molti settori radicali rielaborano invece un certo numero di varianti della “teoria del crollo”. Si possono infatti leggere per ogni dove (anche da parte di una certa destra intellettuale o antisistema) titoli come “L’Apocalisse del capitalismo”, “Il crollo del capitalismo”, “La catastrofe si avvicina” o “L’estinzione del capitalismo”.
Joseph Ratzinger, più profetico come si confaceva a un futuro papa, già nel 1985 aveva scritto un saggio che prevedeva, oltre al crollo del comunismo, anche quello del capitalismo liberista ed è necessario notare che moltissimi di questi “crollismi” si riferiscono di fatto a questo “tipo” di capitalismo, che viene quasi sempre identificato col capitalismo tout-court, senza curarsi del fatto che il liberismo abbia occupato nella storia del capitalismo finora conosciuto lassi di tempo relativamente brevi e mai in forma pura.
In generale, tutte queste posizioni orbitano attorno all’etica e all’economia, ponendo l’accento ora sull’uno ora sull’altro di questi due punti focali, ribadendo con ciò la difficoltà di evitare la Scilla e la Cariddi del marxismo: l’utopismo umanistico e l’economicismo.
La sinistra anticapitalistica e radicale spesso sovrappone i due fuochi dell’ellisse nascondendo i due difetti dietro un’analisi che pretende di essere socio-politica. In altre parole si va in cerca di un aggiornamento dell’utopismo scientifico di Marx, senza però essere in grado di dedurlo tramite una reale astrazione determinata, bensì attraverso l’aggiornamento falsamente concreto, ma in realtà formale, di alcune categorie marxiane.
E’ un approccio che a nostro avviso non solo non permette nessun passo avanti ma, al contrario, sguarnisce ogni difesa sensata e ben fondata poiché, come vedremo, rischia spesso di adottare inconsapevolmente “il senso comune dell’avversario all’attacco”, per
usare un’antica ma felice espressione di Rossana Rossanda, con conseguenze teoriche e politiche non secondarie.
E’ allora importante affrontare subito nel suo complesso questo argomento, nei suoi punti teorici e politici più significativi.

2. Anche Engels era convinto che il capitalismo fosse agli sgoccioli, e la sua sintesi teorica del marxismo che unificava le leggi della sfera naturale e quelle (dialettiche) della sfera sociale, descriveva per l’appunto un percorso, ineluttabile nella sua materiale naturalità, verso il crollo e il superamento del capitalismo. A parte specifiche considerazioni di carattere filosofico, Engels era infatti a quei tempi testimone di una crisi, la Lunga Depressione che sembrava confermare palmarmente ipotesi come quella della caduta tendenziale del saggio di profitto.
Tuttavia la Lunga Depressione non era destinata a essere il momento finale del capitalismo, che non crollò nemmeno per il sottoconsumo, come presumeva Rosa Luxemburg, ma sfociò nel rilancio finanziario e imperialistico della belle époque, che a sua volta non era la “fase suprema del capitalismo” come affermava Lenin.
Paradossalmente, Lenin riuscì a fare la rivoluzione proprio perché mise tra parentesi - con una sorta di “epoché” fenomenologico-rivoluzionaria - il supposto decorso fatale del capitalismo, facendo entrare di prepotenza nel quadro la soggettività del Partito, rappresentante di quel “per sé”, quella coscienza proveniente dall’esterno del proletariato che secondo l’ortodossia marxista allora vigente avrebbe invece dovuto dischiudersi come una crisalide grazie a processi storici visti come processi naturali.

3. Per certi versi l’ipotesi della caduta - per via rivoluzionaria - di un capitalismo ormai gravato dal peso delle sue contraddizioni interne, concludeva il ciclo filosofico e politico soggettivo di Engels, iniziato con le rivoluzioni del 1848.
Se ciò imprimeva al successivo marxismo storico il marchio dell’epica e della tragedia filosofiche e politiche, ai nostri giorni, sotto il segno della farsa, canuti intellettuali e politici, assieme ai loro nuovi adepti, si immaginano la chiusura del cerchio pseudorivoluzionario iniziato col 1968, grazie a supposte “incurabili” crepe del sistema, conclamatesi in tutto il mondo quarant’anni dopo.

Non che la situazione non sia grave (lo è e ancor più lo sarà, per miliardi di persone) ma, come avrebbe detto Ennio Flaiano, non è seria. Ovvero, non è affrontata in modo serio.
La poca serietà si vede innanzitutto nel fenomeno paradossale che abbiamo sottolineato in apertura: mentre soli pochi anni fa il cosiddetto movimento “no-global” con centinaia e centinaia di migliaia di partecipanti contestava nelle piazze l’imperialismo statunitense all’attacco col suo codazzo dei G8, oggi c’è una incapacità nolontà di distinguere teoricamente e politicamente tra rivolte popolari e scontri pianificati e fagocitati da agenzie di intelligence sostenute da organizzazioni “umanitarie”, e di posizionarli adeguatamente tra le scosse che caratterizzano le spinte telluriche che stanno ridefinendo gli assetti planetari. La “primavera araba” lo ha testimoniato alla perfezione.
Di fronte all’incrinarsi del sistema a dominanza-egemonia Usa e al delinearsi all’orizzonte, in modo sempre più preciso, di suoi competitor, il “movimento” o tace o viene preso da sacri furori “internazionalisti”. L’imperialismo Usa viene al più descritto
semplicemente come una forma di unilateralismo, dimenticandosi silenziosamente che fosse indicato da Che Guevara come il nemico giurato (con ciò svuotando un’esperienza storica e sancendo definitivamente la riduzione dell’eroe argentino a icona di consumo) e non ci si perita di rinfacciare ai competitor di essere, per l’appunto, dei competitor e quindi un po’ troppo propensi a contrapporre la propria potenza a quella della nazione dominante.

4. Evidentemente all’ombra della Nato non vivevano solo gli interessi economici,  finanziari, politici e ideologici dei ceti dominanti. Prendevano corpo anche le pulsioni comunisteggianti, socialisteggianti e moralistiche di chi, in buona fede oppure opportunisticamente, pretendeva di volere dar voce ai diritti dei dominati e su quell’ombra imperiale disegnava forma e contenuti della propria teoria e della propria prassi politica, virandoli in negativo attraverso collaudati, ancorché poco efficaci, schemi interpretativi. Ma ora il ritiro della marea montante statunitense, pur lento, sta iniziando a far emergere i profili di nuove terre, con grande sgomento dei cartografi di sinistra. Di fronte a domini della conoscenza con su scritto “Hic sunt leones”, si volta la testa dall’altra parte per non perdere rassicuranti certezze teoriche, esistenziali e
identitarie, oppure - ciò che è lo stesso - si applicano storici modelli astratti (o più che altro la loro vulgata) a determinazioni concrete nuove e ancora da esplorare, col rischio di esportare teoria non meno che democrazia (2).
5. Ammesso che la maggioranza di chi scendeva in piazza contro la globalizzazione e le guerre di Bush fosse mossa da una hegeliana coscienza infelice e non dal “demone meridiano”, la malinconia, a causa della quale, come diceva Alberto Magno, quelli che ne sono preda multa phantasmata inveniunt, irritano ancor di più le carenze, la pigrizia mentale e l’inerzia di chi per ruolo, posizione e capacità aveva la possibilità di elaborare nuove idee e nuove prospettive e non lo ha fatto consegnandosi alle narrazioni dell’avversario all’attacco.
Oh sicuro, sarebbe stato più comodo che un impero acefalo si fosse diffuso nel mondo. Non sarebbero apparse nuove terre: ma sarebbero rimaste tutte livellate, sommerse dalla marea. Non sarebbero nati nuovi problemi. Drammatici problemi. 

Perché invece dobbiamo riconoscere e affrontare questi problemi? Un dovere morale? Un dovere intellettuale? Un dovere sociale? Non lo sappiamo.
Le scarpe della teoria sono rotte, eppur bisogna andare.
Forse per non sentirsi dire: “Perché qualcosa sta accadendo qui. E lei non sa che cosa.”

Note
 

1) La parola "compradora" può essere adottata per indicare la circostanza in cui la classe dirigente e i rappresentanti politici tendono a usare la loro posizione per consentire a forze straniere uno sfruttamento della nazione sotto il profilo politico, economico, culturale (nota ubu ).

2) L’enorme eco pubblica che negli Usa hanno avuto gli incidenti in Tibet, è in parte ascrivibile al buon lavoro di agenzie di “mestatori non-violenti” (cfr. Nota 45) ma in parte anche alla ricettività dell’ordinary people che percepisce un incombente pericolo giallo responsabile, tra le altre cose, della perdita di milioni di posti di lavoro (senza nemmeno pensare che lo stesso fenomeno, in proporzioni più drammatiche, sta avvenendo in Cina). Il governo Usa è stretto allora tra due fuochi: il desiderio di non contrariare i capitalisti, che non vogliono bastoni tra le ruote nei loro affari con la Cina, e quello di non inimicarsi gli elettori e di ricordare alla Cina
che è sempre un paese sotto osservazione.

3)In questo caso Johnson rappresentava probabilmente l’ala hard e Kennedy quella soft dello schieramento democratico.

*Tratto dal libro: "il cuore della terra"

1 commento:

  1. L'ho guardato con il cellulare e forse la sorpresa mi è sfuggita.

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