da rifondazione.it
Rifondazione dovrebbe ascoltare la parole di persone come Dino Greco, Emiliano Brancaccio e Mimmo Porcaro e sbrigarsi ad assumere una linea chiara e coerente su euro ed Europa.
A mio modestissimo parere una forza politica come quella di rifondazione comunista ha come unica possibilità di rilancio dell'iniziativa politica, quella di rappresentare un ampio fronte politico-sociale che da sinistra si pone in posizione critica su euro ed Europa. Parlo di realtà come quelle che si riconoscono nel sindacalismo di Giorgio Cremaschi, dei vari partiti e movimenti sovranisti (malgrado il dileggio di certuni fra di loro vi sono persone serie e competententi), del Movimento Essere Sinistra, di cui non conosco la consistenza numerica, ma del quale conosco la serietà e l'impegno, e molte altre realtà locali che è persino difficile ricordare, realtà che prese isolatamente non hanno alcuna possibilità di emergere in un panorama mediatico dominato dal liberismo e dalle sue diverse declinazioni, ma che potrebbero raggiungere la fatidica massa critica una volta unite. Forse è utopia, forse queste realtà non hanno alcuna voglia di dialogare fra loro, ma vale comunque la pena di tentare.
Rifondazione può essere il fattore x in grado di coagulare realtà diverse e non comunicanti fra loro. Deve solo decidersi a sciogliere le sue ambiguità e smettere di dare retta agli europeisti senza sè e senza senno. Poi, una volta acquisito forza e credibilità potrà tornare a confrontarsi con loro. Se proprio non può farne a meno.
La Lega cerca – con preoccupante successo – di egemonizzare il
movimento antieuropeista su una linea di populismo reazionario,
xenofobo, di marca dichiaratamente lepenista.
Assistiamo persino al tentativo di capitalizzare a destra lo stesso
straordinario successo di Syriza nelle elezioni greche oscurandone
l’imprinting radicalmente anti-liberista.
Anche il M5S cavalca l’onda, sebbene con un profilo più basso e
confuso, esibendo come distintivo identitario la pura e semplice
propagandistica uscita dall’euro (il referendum).
L’agognato ritorno alla moneta nazionale non è tuttavia auspicato da
costoro per restaurare diritti espropriati (welfare, diritto del
lavoro), o per proteggere i salari, o per ostacolare il processo di
privatizzazione selvaggio, o per definire nuove regole per il commercio e
controllare la circolazione dei capitali, o per pubblicizzare banche e
asset nazionali.
Tutto il contrario.
Si tratta di un nazionalismo autarchico e reazionario che si sdraia su
un senso comune sempre più diffuso e sulla crescente disperazione di un
popolo che non sa più a che santo votarsi, per lucrarne un vantaggio
politico-elettorale a buon mercato.
E noi?
Noi comunisti nel congresso abbiamo detto: “disobbediamo ai trattati!”,
facciamo leva sulle contraddizioni del monetarismo Ue a trazione
tedesca, sottraiamoci al ricatto del moderno “Mago di Oz”, di un’Unione
europea che gioca con carte truccate.
Ma cosa vuol dire, in concreto, disobbedienza?
Come si declina questa linea, al centro ed in periferia, vale a dire
nelle regioni, nei comuni, nelle politiche di bilancio e fiscali?
Ancora: cosa vuol dire opporsi al patto di stabilità che impedisce persino ai comuni “virtuosi” di spendere risorse disponibili?
Ebbene, noi non l’abbiamo ancora detto, col risultato che la nostra
proposta rimane chiusa in quella parola, non si traduce in una politica e
in una mobilitazione.
Dunque “non morde”, “non si vede”, “non seduce”. E rimane in una “terra
di mezzo”, priva di realtà, vaso di coccio fra vasi di ferro.
L’analisi da cui dovrebbe in realtà prendere le mosse ogni scelta
politica razionale ed efficace non può accontentarsi di una critica
rivolta al liberismo “in generale” e ad un processo di unificazione
europea che non avrebbe portato a compimento il suo più ambizioso
progetto politico perché rimasta a metà del guado e perché diventata,
via via, preda degli spiriti animali del capitalismo. Per cui oggi si
tratterebbe di costringere il manovratore a venire a più equi patti,
introducendo qualche variante negli ingranaggi esistenti, qualche
artifizio economicistico, qualche espediente di tecnica monetaria capace
di mutarne l’indirizzo di fondo.
Per capire compiutamente di fronte a cosa ci troviamo non sarà
inutile partire…da noi, vale a dire dalla Costituzione italiana del’48.
Ebbene, la C.I. non accoglie né il modello dell’economia di mercato,
né il generale principio della libera concorrenza. Anzi: l’articolo 41
dice con chiarezza che la libertà d’azione dei soggetti economici
privati trova il suo limite nei “programmi” e nei “controlli” necessari
affinché tanto l’attività economica pubblica quanto quella privata
“possano essere indirizzate a fini sociali”.
Dunque, la C.I. – in termini di principio e prescrittivi – affida
alla legge (e dunque all’autorità pubblica) il disegno globale
dell’economia, esattamente per la ragione che Palmiro Togliatti espose
nel dibattito alla prima sottocommissione dell’Assemblea Costituente
(1947) intorno al tema delle “Relazioni economico-sociali” e a quello
che diventerà poi il Titolo III della Carta. E cioè che “il non
intervento dello Stato in una società capitalistica equivale ad un
intervento a favore della classe dominante”. Vale a dire “al
riconoscimento che chi è più forte economicamente può dettare le
condizioni di vita di chi è economicamente più debole”.
Ciò di cui si incarica la C.I. è di porre un limite cogente all’asimmetria di forza fra capitale e lavoro.
Ebbene, la decisione di sistema enunciata dall’ordinamento
comunitario è radicalmente opposta (antinomica, direbbe il filosofo)
rispetto a quella contenuta nella nostra Costituzione.
Perché i trattati sottoscritti a Maastricht nel 1992 e tutto quello che
ne è seguito mirano a costruire uno spazio economico senza frontiere
interne ispirato al “principio di un’economia di mercato aperta e in
libera concorrenza”.
Aderendovi e applicandone i dispositivi in via esecutiva il
parlamento italiano ha sovvertito la gerarchia delle fonti del diritto,
generando “norme distruttive ed eversive della stessa Costituzione”.
Non occorre essere fini costituzionalisti per capire che l’antinomia
fra le due architetture di sistema condurranno ben presto alla totale
liquidazione dell’articolo 41 della Costituzione, trasformandolo nel suo
rovescio.
L’esigenza di una nuova lettura della Costituzione nel senso del
primato del mercato non può non risolversi nello spostamento delle
finalità dell’intervento pubblico “dalla funzione programmatoria alla
funzione di rimozione degli ostacoli al funzionamento del mercato, nella
subordinazione dei fini sociali a quelli della remunerazione del
capitale (cioè del profitto).
Esattamente come nella teoria liberale classica, lo Stato ha la
funzione di assicurare e proteggere da ogni e qualsiasi turbativa la
proprietà e il modo capitalistico dell’accumulazione privata.
Così stando le cose, tutti i diritti sociali storicamente conquistati
dalle classi lavoratrici diventano, nella loro integralità – primo fra
tutti il diritto al lavoro – come altrettanti limiti all’esercizio
stesso del diritto di proprietà.
Il diritto alla tutela contro il licenziamento ingiustificato, a
condizioni di lavoro sane, sicure, dignitose, la protezione in caso di
perdita del posto di lavoro cessano di essere “giuridicamente
vincolanti”.
Si spiega così la vicenda ormai famosa della lettera che il presidente
entrante e quello uscente della Bce indirizzarono al governo italiano il
5 agosto 2011 (un vero memorandum) in cui si subordinava il sostegno ai
nostri titoli del debito all’adozione di varie misure fra cui, in
particolare, una riforma della contrattazione collettiva che permettesse
di “ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze
specifiche delle aziende” e “un’accurata revisione delle norme che
regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti (…) in grado di
facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori
più competitivi”.
Ogni diversa soluzione implicherebbe infatti un’interferenza
inammissibile rispetto all’obiettivo di “un’economia di mercato aperta e
in libera concorrenza” che è l’unico possibile assetto compatibile con
le finalità stabilite dall’articolo 3 del TUE.
In conclusione: mentre la nostra costituzione rifondeva le tradizioni
cattolica-comunista-socialista allo scopo di collocare lo Stato – e in
esso il lavoro – in una posizione di primazia, attribuendogli potestà
rilevantissime in ordine alle decisioni circa cosa, come e per chi
produrre, i trattati europei, secondo il dogma liberista, hanno inteso
costruire uno spazio retto dalla libera concorrenza.
La C.I. pretendeva di stabilire un proprio ordine entro il quale
costringere la libertà degli affari, l’Ue impone un ordine di libertà
per il compimento degli affari.
Il fatto è che l’Unione europea è prima di tutto la forma politica di
un rapporto sociale e, precisamente, di un rapporto sociale imperniato
sul dominio del capitale finanziario: l’architettura monetaria che esso
ha posto al suo fondamento (e che trova nell’euro non già un
sottoprodotto fenomenico, ma il proprio funzionale apparato strumentale)
serve appunto a stabilizzare il potere dell’oligarchia liberista che
governa l’Europa.
La complessa impalcatura monetarista si configura cioè come la
specifica risposta strategica del capitalismo continentale (a egemonia
tedesca) alla caduta del saggio di profitto e la condizione, dentro un
quadro politico-sociale in rapida mutazione reazionaria, per riplasmare
l’economia nella conservazione di rapporti capitalistici di produzione
fortemente compromessi dalla crisi.
L’ambizioso progetto è quello di liquidare in radice il welfare
novecentesco, ridurre strutturalmente i salari a livello di sussistenza,
consegnare alla marginalità le forme di aggregazione sociale e politica
di impronta classista, con l’obiettivo di rendere strutturale
l’estrazione di plusvalore assoluto dal lavoro vivo, condizione
necessaria in una fase storica in cui la composizione organica e la
stupefacente concentrazione del capitale hanno raggiunto un livello tale
da non riuscire ad offrire agli investimenti un adeguato rendimento.
Siamo cioè di fronte ad una vera e propria ristrutturazione della
formazione economico-sociale capitalistica (nell’accezione marxiana) che
coinvolge la struttura economica, cioè il modello di accumulazione, i
rapporti sociali e di proprietà, la sovrastruttura politica, i modelli
istituzionali ed elettorali e l’ideologia che tiene insieme l’impasto:
il modello di accumulazione: attraverso la costruzione di un
paradigma che produce e riproduce il capitale finanziario, parassitario e
speculativo;
i rapporti di proprietà: attraverso la spoliazione della proprietà
pubblica, la privatizzazione integrale, la messa a profitto di tutto ciò
che può assumere i caratteri della merce, la reductio ad unum delle 4
forme di proprietà previste dalla Costituzione repubblicana (statale,
privata, comunitaria, cooperativa);
la superstruttura politica e giuridica: attraverso la sterilizzazione
del parlamento e l’annichilimento della democrazia rappresentativa in
favore della concentrazione di tutto il potere negli esecutivi; lo
stravolgimento del modello elettorale in funzione maggioritaria,
bipartitica e in forma tendenzialmente presidenziale;
la superstruttura culturale e ideologica: sostenuta da un imponente
apparato mediatico, che ha sradicato nella coscienza di larghe masse
ogni anelito solidaristico per sostituirvi la concezione
individualistica e iper-competitiva della borghesia liberale classica.
L’Europa odierna è dunque tutto meno che uno spazio neutro, più efficace per la lotta nello stato nazionale.
Non è vero che lo spazio statuale più grande, quello europeo, sia il
modo migliore per sviluppare la controffensiva di classe al livello del
capitale; esso lo è solo quando consente alla classe dominata di
esprimere la propria autonomia politica. Quando il dominio di classe
assume forma nazionalistica si deve essere internazionalisti, europeisti
e in qualche caso autonomisti. Quando invece, come succede in Europa,
quel dominio passa proprio attraverso la distruzione dello stato
nazionale, si deve elaborare un nazionalismo democratico orientato verso
una nuova Europa confederale.
L’Europa non è un soggetto politico che aiuta il multipolarismo e
contiene l’espansione Usa, considerato che siamo alla vigilia della
sottoscrizione del devastante trattato di libero scambio transatlantico
che consegnerà alle multinazionali, ai più rapaci players economici
internazionali il potere – con tanto di legittimazione giuridica e
tribunali al seguito – di subordinare all’attesa di profitto ogni
aspetto delle legislazioni nazionali, mettendo la mordacchia ad intere
Costituzioni nazionali.
L’Europa non è neppure un’entità sovranazionale che riequilibra le legislazioni e prepara un assetto federativo.
La costruzione forzosa di un’unica area valutaria aumenta la
divaricazione fra i paesi perché impone una moneta unica ad economie del
tutto diverse. E perché questa moneta “incorpora” le “virtù” del marco:
deflazione, indipendenza della Bce e stabilità monetaria, i tre dogmi
su cui è costruito l’euro, le tre cause, o concause, della distruzione
dell’unità europea.
L’euro serve anche a rendere stabile la gerarchia fra nord e sud, fra paesi creditori e paesi debitori.
Il comportamento del creditore nord-europeo è solo apparentemente
illogico. Perché incaponirsi in politiche che riducendo la domanda dei
paesi debitori, riducono il mercato per i prodotti del nord, considerato
che il 70% delle esportazioni di quei paesi avvengono nell’area
europea?
Per due motivi: perché diminuire il salario dei lavoratori del sud, in
buona parte terzisti del nord, significa diminuire i prezzi dei prodotti
del nord stesso; e perché la generale deflazione del sud abbatte il
costo del patrimonio industriale ed immobiliare dei paesi colpiti. La
logica che guida queste scelte è una logica semi-coloniale, che punta a
costruire un sistema industriale ed un mercato del lavoro duali,
concentrando la proprietà nelle mani del nord e trasformando il sud in
un mare di mano d’opera a basso costo.
La logica dell’euro è la più cocente smentita di chi crede che l’Unione
europea sia terreno più favorevole per la lotta di classe.
L’Europa è oggi un meccanismo non democratizzabile perché distrugge
deliberatamente, con metodo, il solo soggetto che potrebbe
democratizzarla: il lavoro.
Non è forse superfluo ricordare la lettera a firma congiunta con cui
alla fine del 2011 Draghi e Trichet intimavano all’Italia di mettere
mano a pensioni, salari, diritti del lavoro e privatizzazioni e come
Napolitano abbia investito poi Mario Monti del ruolo di esecutore
testamentario di queste direttive; o il documento con cui J.P. Morgan,
nel maggio del 2012, ribadiva lo stesso concetto, con un “taglio”, per
così dire, più sistemico, dove ad essere messe all’indice erano le
costituzioni antifasciste troppo venate di socialismo; o – per tornare a
casa nostra – la determinazione con cui il compito demolitore del
giuslavorismo moderno è stato mirabilmente interpretato da Matteo Renzi.
Uno sguardo alla situazione della Grecia
Ha ragione Emiliano Brancaccio: le ricette della troika saranno
ricordate come uno dei più colossali inganni nella storia della politica
europea.
La Grecia le applica già da 4 anni con enormi (e crescenti) sacrifici per la popolazione.
Rispetto al 2010 la pressione fiscale è aumentata di 8 punti percentuali
rispetto al pil e la spesa pubblica è diminuita di quasi 4 punti,
corrispondenti ad un crollo di 30 mld;
i salari monetari sono caduti di 12 punti percentuali e il loro potere
d’acquisto è precipitato in media di 14 punti, con picchi negativi di
oltre 30 punti in alcuni comparti.
La Commissione europea ha sempre sostenuto che queste politiche non
avrebbero depresso l’economia. Ma le sue previsioni sull’andamento del
pil greco sono state totalmente smentite: per il 2011 la Commissione
previde un pil stazionario, che in realtà crollò di 7 punti; per il 2012
annunciò addirittura una crescita di un punto, e fu sconfessata da una
caduta di 6 punti e mezzo; nel 2013 la previsione fu di crescita zero, e
invece il pil greco precipitò di altri 4 punti.
Anche per il 2014 si registra uno scarto fra le rosee previsioni di Bruxelles e la realtà dei fatti ad Atene.
La verità, che ormai riconoscono a denti stretti persino al Fmi, è
che le ricette della Troika rappresentano la causa principale del crollo
della domanda e della conseguente distruzione di produzione e
occupazione avvenuta in Grecia: negli ultimi 5 anni, ben 800.000 posti
di lavoro in meno.
Né si può dire che tali ricette abbiano stabilizzato i bilanci: il
crollo della produzione ha implicato un esplosione del rapporto fra
debito pubblico e pil, aumentato in 5 anni di 30 punti percentuali.
“Questi soggetti – osserva ancora Brancaccio – stanno ottenendo
quello che volevano: perché dovrebbero mutare la loro posizione a
seguito di una vittoria di Tsipras? Al limite offriranno un’austerità
appena un po’ mitigata, un piatto avvelenato che – se accettato –
condannerebbe Syriza alla stessa agonia che ha ridotto ai minimi termini
il Pasok di Papandreu.”
Il rigetto di una parte del debito accumulato sarebbe una soluzione
logicamente razionale. Un problema, tuttavia, esiste: la disapplicazione
unilaterale del Memorandum, il ripudio anche solo di una parte del
debito indurrebbe la Bce a bloccare le erogazioni e determinerebbe una
nuova crisi di liquidità.
A quel punto la Grecia e il suo nuovo governo di sinistra sarebbero
costretti ad abbandonare l’euro per tornare a stampare moneta nazionale.
Ora, il Qe varato dalla Bce è stato rappresentato come il tentativo
di correggere – di fronte al generale scivolamento deflattivo – lo
sciovinismo economico rigorista di marca tedesca.
La Banca centrale si è sì decisa – sia pure in una forma edulcorata,
cioè scaricando la parte di gran lunga più cospicua dei rischi sulle
banche centrali dei paesi membri – a stampare moneta per l’acquisto
massiccio di titoli del debito nazionali. Peccato che gli acquisti di
titoli di Stato non avverranno – a differenza di quanto avvenuto negli
Usa e in Giappone – rastrellandoli sul mercato primario, direttamente
dagli organi emittenti, cioè dai ministeri del Tesoro dei singoli stati.
Gli acquisti saranno fatti sul mercato secondario, cioè dalle grandi
banche della zona euro. “Si tratta, quindi – come osserva Domenico Moro –
dello stesso meccanismo già deciso da Draghi nel 2011, e basato
sull’offerta di liquidità a tassi ridottissimi alle banche affinché
acquistassero titoli di Stato. Una mossa che non ha sortito alcun
effetto positivo sull’economia e sull’occupazione, che hanno continuato a
peggiorare. Infatti, la liquidità erogata dalla Bce non si tradusse in
prestiti alle famiglie dei salariati, agli artigiani e alle piccole
imprese, ma rimase nelle banche”.
“Ad avvantaggiarsene – continua Moro – furono le banche stesse che
guadagnarono sul differenziale tra i finanziamenti a tasso zero della
Bce e gli interessi pagati dallo Stato. Il risultato fu che i bilanci
delle banche, gravati dalle perdite della crisi del 2007-2008,
migliorarono notevolmente, grazie alla crescita degli utili.
Un meccanismo simile si verificherà anche questa volta. Di fatto,
l’operazione è a carico delle singole nazioni. Insomma, dove sta la
svolta, dov’è la solidarietà e l’azione finalmente combinata a livello
europeo?
Il rischio sovrano si è internalizzato ancora di più, con sollievo della Germania.
In terzo luogo, gli acquisti verranno effettuati non selettivamente, in
base alle difficoltà dei singoli Stati nel finanziare il proprio debito,
ma in modo proporzionale alle quote di capitale detenute dai singoli
stati nella Bce. Dunque, la Germania, che paga già interessi reali già
negativi sul suo debito, verrà “beneficiata” da questa operazione in
proporzione come la Grecia che paga alti tassi d’interesse”.
“Dunque – conclude Moro – l’obiettivo di Draghi non è quello di
rilanciare il Pil, cioè la produzione, e l’occupazione, ma di tenere
alti i profitti delle banche e delle grandi imprese soprattutto
multinazionali.
Il Qe ha come obiettivo il contrasto alla deflazione, perché questa
riduce i profitti o ne inibisce l’aumento, in quanto il calo dei prezzi
erode i margini operativi delle imprese. Una inflazione troppo forte
beneficia i debitori rispetto ai creditori e questo è eresia in un
ambiente capitalistico, soprattutto per le banche. Ma l’inflazione
troppo bassa o peggio la deflazione erodono i profitti. Inoltre, il Qe
ha già cominciato a svalutare l’euro rispetto al dollaro e altre valute,
facilitando le esportazioni che sono pressoché di esclusiva pertinenza
delle imprese di grandi dimensioni e multinazionali”.
Si tratta di segni piuttosto evidenti che l’ingranaggio è in crisi,
che le misure adottate non fanno che confermare il carattere organico
della crisi capitalistica e, ancora, che la diga eretta per scongiurarne
il cedimento rischia di rivelarsi alquanto fragile poiché la manovra
rimane pur sempre incardinata sull’impalcatura monetaria che ha prodotto
l’austerity e non è arduo prevedere che i suoi effetti si riveleranno
del tutto modesti.
Allora, tornando al tema iniziale, attenzione a spiegare che se si mette in discussione l’euro significa essere anti-europei;
attenzione a dire che la rivendicazione della sovranità popolare (che,
non dimentichiamolo, sta scritta nell’articolo 1 della Costituzione)
significa, “necessariamente”, portare acqua ai nazionalismi xenofobi e
fascistoidi;
attenzione a dire che chi vuole fare saltare questo ingranaggio
infernale non fa che “lavorare per il re di Prussia”, altrimenti si
corre il rischio che qualcuno il re di Prussia lo invochi davvero e
magari che lo scontro si concluda non con una restaurazione della
democrazia ma proprio con l’avvento dei populismi reazionari.
Del resto, non ci sono evidenze empiriche – come ci spiegano Emiliano
Brancaccio e Nadia Garbellini – che l’uscita dall’euro provocherebbe
una svalutazione delle proporzioni che si paventano e, soprattutto, che
lo scenario sarebbe in quel caso peggiore della drammatica deriva in
corso.
Lo dico perché il “diavolo” capitalista fa le pentole, ma non sempre
riesce a trovare i coperchi e fra non molto, potremmo trovarci di fronte
alla caduta dell’euro per…autocombustione…, cioè per autonoma decisione
del potere finanziario, una volta condotti a termine lo sventramento
del welfare, il processo di privatizzazione integrale, la riduzione a
simulacro della democrazia rappresentativa, l’annichilimento del potere
di contrasto del soggetto lavoro.
Il punto, allora, è cosa fare per impedire che si intraprenda questa
strada, proprio per l’incapacità delle classi dominanti di perseguire
una rotta diversa.
Allora tocca a noi dire in modo chiaro che all’uscita dall’euro dovrà corrispondere una nuova politica economica e sociale:
proteggendo i salari attraverso un rilancio delle lotte e del ruolo contrattuale dei sindacati;
reintegrando i diritti del lavoro espropriati dalla crociata anti-operaia in corso;
rilanciando l’indicizzazione delle retribuzioni al costo della vita;
ricostruendo un regime previdenziale che così com’è precluderà il diritto alla pensione a due generazioni di italiani;
riducendo su scala nazionale e in tutti i settori l’orario di lavoro;
varando nuove politiche fiscali che restituiscano progressività
all’imposta sul reddito e prevedendo una tassa strutturale sui grandi
patrimoni;
ponendo un tetto alle retribuzioni e alle pensioni;
nazionalizzando le banche e i principali asset industriali a partire dalla siderurgia;
ridefinendo le regole che disciplinano gli scambi commerciali e i movimenti di capitale.
Si tratta insomma di costruire le premesse per un’uscita da sinistra
dalla crisi e riscattare l’Europa dal giogo della finanza e dei
proprietari universali che stanno succhiando il sangue dei popoli.
Certo, per fare queste cose occorrono altri rapporti di forza, e si
può a buon titolo obiettare che siamo lontani dalla capacità di mettere
in campo una forza d’urto quale sarebbe necessaria, ma con questa
piattaforma potremo rivolgerci sul serio ai proletari di questo paese e
alle forze intellettuali non compromesse con la vulgata corrente, usando
argomenti, parole, programmi, proposte che nessun altro può, sa, vuole
utilizzare. Proposte che abbiano in sé la forza di rilanciare le lotte e
dare il senso di una mobilitazione nazionale, ma non nazionalista,
solidale, ma non corporativa, europeista, ma non prigioniera dei dogmi
del monetarismo liberista.
Ne abbiamo la forza? Nella situazione presente, no. Ma avere una linea chiara oppure non averla non è la stessa cosa.
Del resto, una posizione attendista produrrebbe tre effetti massimamente negativi:
consegnerebbe la protesta contro l’austerity alla demagogia
parafascista di Matteo Salvini, consentendo alla destra più reazionaria
di riscuotere la rappresentanza di ampi strati popolari e di ridurre la
dialettica politica italiana ad un duello fra la “nuova” Lega in
versione lepenista e il partito democratico organico al liberismo
europeo;
genererebbe, di fronte ad una deflagrazione dell’euro, la peggiore delle
condizioni, perché il ritorno alla moneta nazionale – senza adeguate
contromisure – rovescerebbe sui lavoratori, sui disoccupati, sugli
strati più deboli della popolazione uno tsunami sociale di proporzioni
devastanti;
contribuirebbe all’isolamento della Grecia di Syriza, che invece di
schiudere le porte di un’altra Europa si ritroverebbe sola, stritolata
fra le ganasce della tenaglia dei poteri forti europei.
lunedì 9 maggio 2016
Dino Greco sull’Euro
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