Non possiamo resuscitare i tempi andati, è un illusione. La mistica dei tempi andati inoltre tende a nascondere le tragedie e le iniquità che in quei tempi si consumavano. Possiamo però immaginare un futuro diverso da quello di polli d'allevamento e rivendicare un ozio produttivo
di Francesca Fornario da minima&moralia
Ad Atene ci sono venuta per vedere la crisi l’effetto che fa.
Ci sono venuta pensando di fare un viaggio in un futuro distopico,
con le code ai bancomat (che non ho visto) e i negozi chiusi. Che sì, li
ho visti, ma quello che mi ha fatto più impressione è il negozio di
Zara. Chiuso – tenetevi forte – il sabato pomeriggio. Chiuso il sabato
pomeriggio e la domenica come tutti i negozi, ad Atene, chiusi anche il
lunedì e il mercoledì pomeriggio. Non per la crisi: è così per legge. E
il viaggio nel futuro distopico si è trasformato in un viaggio nel
passato, quando la domenica, a Roma, percorrevi in bicicletta le vie del
centro senza sentire la voce di Madonna che canta la stessa canzone in
cinquanta negozi, gli stessi – i negozi e la canzone – che trovi a
Madrid, a Londra, a New York (prima o poi lo faccio. Prima o poi la
fermo un’italiana che esce carica di buste dall’H&M di Covent Garden
e le chiedo No, davvero, tu adesso mi spieghi perché. Che oltretutto su
Ryan Air non te le fanno imbarcare e ti tocca viaggiare con tre felpe
una sopra all’altra, le stesse che avresti potuto comprare a Roma).
Cosa fanno il sabato pomeriggio gli ateniesi?
Il sabato pomerigio, inerpicandosi per le strette vie pedonali di
Exarchia, del Thisseio, di Psirri, tra i marciapiedi sfondati e le case
sbreccate che friggono al sole a pochi passi dalla saracinesca abbassata
di Zara, gli ateniesi di tutte le età affollano le strade e le piazze,
seduti ai tavolini delle infinite taverne a conduzione familiare e delle
ouzerie che servono spiedini di agnello e insalata di patate di giorno e
di notte. Seduti, anche per bere il caffè. Ad Atene non è che te lo
puoi bere al bancone o portare via, il caffè, in quei bicchieroni di
plastica con il coperchio che si vedono nelle serie americane.
Suppongo che l’usanza abbia a che fare con la cultura del paese che
ha inventato la logica. Aristotele contro Starbucks: «Ehi, ma dove corri
con quel bicchiere pieno fino all’orlo di caffè bollente?! Ti cade!
Perché corri? Ci pensi mai? Beh, pensaci adesso. Siediti, e bevi a
piccoli sorsi.»
Ti portano anche l’acqua nei bar di Atene, tutti i bar e ristoranti
di Atene. Gratis. Nei bicchieri di vetro con il ghiaccio. Prima ancora
di chiederti che cosa vuoi ordinare (se vuoi ordinare). Presumono che tu
abbia sete, o che la sete prima o poi ti assalga, mentre te ne stai
seduto al sole. Gli ateniesi siedono ai tavolini delle osterie in
coppia, in famiglia, o anche da soli. Cosa fanno, da soli? Per lo più
leggono. C’è una libreria per ogni isolato, ad Atene, nei quartieri
“degradati” di quel centro non abbastanza vicino all’Acropoli per essere
frequentato dai turisti. Una libreria di libri nuovi o usati, tra una
taverna che organizza le serate di stand up comedy, un teatro di
quartiere e un cinema all’aperto. Ogni volta che mi imbatto in una
libreria faccio mentalmente il conto di quelle che ho visto chiudere a
Roma, negli anni della prosperità. Prima hanno chiuso le librerie
indipendenti per lasciare il posto alle grandi catene. Poi, hanno chiuso
anche le grandi catene, perché, se il libraio non ti conosce, tanto
vale farsi consigliare un libro da Amazon.
Mi aspettavo un’infilata di negozi chiusi, ad Atene, non di librerie
aperte anche ad Agosto. Librerie e negozi di musica. Ve li ricordate, i
negozi di musica? Quando i dischi si pagavano, e con una certa
soddisfazione. Oggi è più soddisfacente pagare le felpe e i caffè a
portar via che ti macchiano le felpe che pazienza, te le ricompri, tanto
con i saldi costano 9.99 euro e un momento, un momento: Come diavolo
fanno a guadagnarci se le felpe prodotte in Cina te le vendono a 9.99
euro?! Siediti, e pensaci.
Qui ad Atene è pieno di negozi che vendono cd nuovi e usati. Li
vendono o li scambiano. A Exarchia ne ho trovato uno che scambiava anche
le cassette. E no, a giudicare dall’anziano proprietario che parla solo
in greco ma in italiano sa dire «Mina!» non è un vezzo hipster, è che
qui c’è chi non si è mai comprato un lettore cd perché ha quello delle
cassette ancora funzionante. Immagino che funzioni ancora anche il mio,
perso in chissà quale trasloco. Cercavo un album di The Boy, alter ego
elettronico dell’attore e filmaker Alexander Voulgaris, classe 1981. La
scena musicale greca – forse anche grazie al fatto che qui si vedono
ancora i dischi – è popolata di band post rock (Your Hand in Mine, in
omaggio a un brano degli Explosion in the sky), dream pop (Monsier
Minimal) di cantautori satirici (Maraveyas Ilegal) e cantautrici indie
(Irene Skylakaki). Perché qui si ascolta molta buona musica, non solo il
Rebetiko e non certo il Sirtaki dei ristoranti turistici affollati di
turisti che pensano che il Sirtaki sia una danza popolare della
tradizione greca mentre è stata composta solo nel 1964 da Mikis
Theodorakis, come colonna sonora del film Zorba il greco, quello con Anthony Quinn che balla a piedi nudi sulla spiaggia di Starvos.
Ad Atene, tra i negozi che resistono alla crisi, ci sono quelli di
strumenti musicali. C’è sempre musica nei locali, nelle decine e decine
di taverne, caffè, ristoranti dei quartieri popolari dove gli ateniesi
si fermano a bere e a mangiare, si fermano a leggere, si fermano e basta
e anche io mi fremo e talvolta mi affaccio soltanto per soddisfare una
curiosità: voglio vedere se mi riesce di trovarne uno con la televisione
accesa. Risultato: nessuno! Né ho mai sentito il suono della tv
provenire da una finestra aperta. Penso a quando da noi i giornali
profetizzavano la vittoria del “Sì” al referendum perché le tv greche,
in mano ai pochi greci che guadagnano dalla stabilità borse, facevano
propaganda per il sì.
In questo sterminato paesone di case basse appoggiate alle colline
che si estendono per quaranta chilometri quadrati e ospitano 655mila
abitanti (ma sono quattro milioni, un greco su tre, quelli che vivono
nell’area urbana della cosiddetta “Grande Atene”, che include anche il
Pireo) ci sono – ancora – negozi di abiti “Made in Grecia”. Li disegnano
qui, spesso ispirandosi alle geometrie dei pepli delle “Korai” – le
fanciulle della scultura arcaica – o ai ricami bizantini d’oro e di
porpora che hanno rivoluzionato le linee severe della moda greca e
romana. Pensavo mi sarebbe toccato insistere per avere lo scontrino e
invece nei negozi te lo fanno sempre, come nei ristoranti e nei bar.
Tutti esibiscono il cartello con scritto che Il cliente non è tenuto a
pagare se l’esercente non consegna lo scontrino. L’evasione che colpisce
la Grecia non pare essere quella dei piccoli commercianti, dunque,
almeno ad Atene.
E ci sono ancora le mercerie, qui ad Atene. E i calzolai, i fabbri:
il genere di negozi – e mestieri – che da noi stanno scomparendo,
soffocati dalla concorrenza dei centri commerciali e dagli affitti
troppo cari. Sorgono uno accanto all’altro: cinque mercerie, tre
calzolai, due pellettieri. Da noi sono rimasti i nomi: Via dei
Giubbonari, Via dei Baulari, via dei Cestari. Se però vuoi un cesto, te
lo compri all’Ikea: il cestaio ora è un operaio in qualche fabbrica, se
gli è andata bene.
Ha aperto anche qui ad Atene l’Ikea, come le altre multinazionali, e
anche qui sta accadendo quello che è successo da noi. Il processo da
tutti auspicato che ha reso le città identiche – tranne che per gli
edifici delle “Archistar”: musei e auditorium che però potrebbero
scambiarsi di posto da una città all’altra provocando lo stesso
alienante straniamento rispetto al contesto dove insistono – e che qui
subirà un’accelerazione con le riforme e con le privatizzazioni. Con
meno vincoli per costruire e meno vincoli per licenziare, converrà
investire, speculare, tirare su palazzi di venti piani al posto delle
casette di due. A quel punto i negozi diventeranno appetibili, gli
affitti insostenibili, e gli abitanti a basso reddito delle case del
centro saranno costretti a trasferirsi in periferia, come già sta
accadendo nel distretto post-industriale di Gazi, colonizzato dagli
artisti e dagli architetti, e in quello, ancora misero ma in piena
“gentrification”, di Metaxourgeio, costruito sull’antico cimitero degli
ateniesi. In periferia apriranno i negozi di vinili che chiuderanno in
centro. E in centro apriranno le banche al posto dei negozi di dischi e i
take-away delle grandi catene al posto delle ouzerie con i tavolini
all’aperto, che tanto bisogna allungare l’orario di lavoro e mangiare in
fretta in pausa pranzo un panino che ha lo stesso sapore ad Atene e a
New York per produrre di più e mettersi al passo con i paesi che dettano
il passo.
Correre, correre! Così non ti resta il tempo di sederti in un caffè
di Exarchia a leggere Marco Craviolatti che nel suo “E la borsa e la
vita” (Eds) scrive che oggi lavoriamo più di un contadino del 1200 e di
più di un minatore del 1700.
O di leggere l’ex presidente dell’Uruguai Pepe Mujica che ti spiega
che lui non compra quasi mai niente, perché ogni volta che compra
qualcosa non lo paga con il suo salario, lo paga con il suo tempo: il
tempo in cui ha lavorato. E allora non compra quasi mai niente, perché
non trova mai niente di più prezioso del suo tempo (José “Pepe” Mujica,
la Felicità al Potere, a cura di Cristina Guarnieri e Massimo Sgroi,
Eir).
Così non ti resta il tempo di passeggiare a piedi lungo i marciapiedi
maleodoranti e alle saracinesche abbassate coperte di scritte e di
pensare al decoro urbano – il decoro urbano! L’unico totem che da noi
sembra in grado di suscitare qualche passione politica – e chiederti se è
più indecoroso non igienizzare le strade per mancanza di fondi o
comprare, nei negozi che aprono al posto delle librerie, le felpe che
costano poco perché sono prodotte da lavoratori sottopagati e non
tutelati che lavorano anche dieci ore al giorno e poi lamentarsi se
abbiamo una disoccupazione giovanile del 44,2 per cento. Anzi, non
lamentarsi nemmeno, tanto 9.99 euro per la felpa li rimedi e poi il
problema della disoccupazione lo risolviamo agevolando i licenziamenti,
no? Che è come dire che il problema della denutrizione lo risolvi
mangiando di meno, farebbe notare Aristotele.
Per conto mio, sentite cosa ho letto, seduta al tavolino del caffè
Floral, ad Exarchia, mentre sorseggiavo il mio espresso freddo: «La
Grande depressione continuava, quindi la stazione e le vie adiacenti
pullulavano di senzatetto, proprio come oggi. Le cronache erano piene di
storie di operai licenziati, fattorie che andavano in malora, banche
che fallivano, esattamente come oggi. Tutto quel che è cambiato è, a mio
avviso, che, grazie alla televisione, riusciamo a tenerla nascosta, una
Grande Depressione. Può anche darsi che si tenga nascosta una Terza
Guerra Mondiale». Così parla il protagonista di Barbablù, 1987, uno dei
rari romanzi di Kurt Vonnegut dove la fantascienza non c’entra ma che
profetizza comunque un futuro: questo qui.
Ad Atene ci sono venuta per vedere la crisi l’effetto che fa. Torno a
casa pensando che, anche se la televisione racconta il contrario,
quelli in crisi siamo noi. Noi che ci siamo fatti fregare il tempo
libero e l’ozio senza accorgerci che venivamo derubati. Che abbiamo
accettato di buon grado non più di lavorare per vivere ma di vivere per
lavorare, e consumare quel che ci invitano a consumare. E che però non
abbiamo perso la capacità di indignarci. Perbacco! Ci indigniamo per le
scritte sui muri e le buche per strada.
Contemplo la maestosità delle rovine dell’Acropoli, le colonne dei
templi eretti per glorificare gli immortali Zeus, Apollo, Atena. Templi
costruiti da generazioni di schiavi, per volontà di generazioni di
ricchi signori. Mi viene da osservare che a duemila anni di distanza non
trovi più un seguace di Zeus a pagarlo oro. Sono spariti! Nessuno,
nemmeno il più fesso e svitato degli esseri umani crede più
all’onnipotente Zeus, a Dioniso o a Poseidone. Sarebbe lieto di saperlo
Anassagora, esiliato dall’Atene di Pericle – culla della democrazia –
perché predicava che gli astri fossero pietre, e non divinità.
Tutte quelle imponenti colonne doriche, i fregi scolpiti nel marmo
pentelico venato d’i giallo, i capretti sgozzati e le guerre combattute
per compiacere gli dei! Era un’illusione: Poseidone era una bufala.
Mi domando che cosa penseranno tra duemila anni dell’austerity, dello
spread, del capitalismo finanziario, di noi che ci crediamo e che, per
alimentarlo, ci sacrifichiamo. Infilo gli auricolari e faccio partire
The Boy, l’ateniese che qui canta in inglese la sua Cult of Smile.
Incidentalmente, l’unico culto che pratico. E lo lascio sibilare, sulle
sue chitarre elettriche dissonanti: «Jesus try to fuck meee…» ignorando
le notifiche di Twitter.
domenica 13 settembre 2015
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Il racconto truccato del conflitto previdenziale
di Matteo Bortolon da Il Manifesto Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...
-
di Domenico D'Amico Repetita iuvant , ho pensato di fronte al libro di Michel Floquet ( Triste America , Neri Pozza 2016, pagg. 2...
-
di Jon Schwarz (da A Tiny Revolution ) traduzione per Doppiocieco di Domenico D'Amico Una delle cose grandiose dell'essere america...
Nessun commento:
Posta un commento