domenica 13 settembre 2015

Cosa fanno il sabato pomeriggio gli ateniesi

Non possiamo resuscitare i tempi andati, è un illusione. La mistica dei tempi andati inoltre tende a nascondere le tragedie e le iniquità che in quei tempi si consumavano. Possiamo però immaginare un futuro diverso da quello di polli d'allevamento e rivendicare un ozio produttivo

di Francesca Fornario da minima&moralia


Ad Atene ci sono venuta per vedere la crisi l’effetto che fa.
Ci sono venuta pensando di fare un viaggio in un futuro distopico, con le code ai bancomat (che non ho visto) e i negozi chiusi. Che sì, li ho visti, ma quello che mi ha fatto più impressione è il negozio di Zara. Chiuso – tenetevi forte – il sabato pomeriggio. Chiuso il sabato pomeriggio e la domenica come tutti i negozi, ad Atene, chiusi anche il lunedì e il mercoledì pomeriggio. Non per la crisi: è così per legge. E il viaggio nel futuro distopico si è trasformato in un viaggio nel passato, quando la domenica, a Roma, percorrevi in bicicletta le vie del centro senza sentire la voce di Madonna che canta la stessa canzone in cinquanta negozi, gli stessi – i negozi e la canzone – che trovi a Madrid, a Londra, a New York (prima o poi lo faccio. Prima o poi la fermo un’italiana che esce carica di buste dall’H&M di Covent Garden e le chiedo No, davvero, tu adesso mi spieghi perché. Che oltretutto su Ryan Air non te le fanno imbarcare e ti tocca viaggiare con tre felpe una sopra all’altra, le stesse che avresti potuto comprare a Roma).
Cosa fanno il sabato pomeriggio gli ateniesi?
Il sabato pomerigio, inerpicandosi per le strette vie pedonali di Exarchia, del Thisseio, di Psirri, tra i marciapiedi sfondati e le case sbreccate che friggono al sole a pochi passi dalla saracinesca abbassata di Zara, gli ateniesi di tutte le età affollano le strade e le piazze, seduti ai tavolini delle infinite taverne a conduzione familiare e delle ouzerie che servono spiedini di agnello e insalata di patate di giorno e di notte. Seduti, anche per bere il caffè. Ad Atene non è che te lo puoi bere al bancone o portare via, il caffè, in quei bicchieroni di plastica con il coperchio che si vedono nelle serie americane.
Suppongo che l’usanza abbia a che fare con la cultura del paese che ha inventato la logica. Aristotele contro Starbucks: «Ehi, ma dove corri con quel bicchiere pieno fino all’orlo di caffè bollente?! Ti cade! Perché corri? Ci pensi mai? Beh, pensaci adesso. Siediti, e bevi a piccoli sorsi.»
Ti portano anche l’acqua nei bar di Atene, tutti i bar e ristoranti di Atene. Gratis. Nei bicchieri di vetro con il ghiaccio. Prima ancora di chiederti che cosa vuoi ordinare (se vuoi ordinare). Presumono che tu abbia sete, o che la sete prima o poi ti assalga, mentre te ne stai seduto al sole. Gli ateniesi siedono ai tavolini delle osterie in coppia, in famiglia, o anche da soli. Cosa fanno, da soli? Per lo più leggono. C’è una libreria per ogni isolato, ad Atene, nei quartieri “degradati” di quel centro non abbastanza vicino all’Acropoli per essere frequentato dai turisti. Una libreria di libri nuovi o usati, tra una taverna che organizza le serate di stand up comedy, un teatro di quartiere e un cinema all’aperto. Ogni volta che mi imbatto in una libreria faccio mentalmente il conto di quelle che ho visto chiudere a Roma, negli anni della prosperità. Prima hanno chiuso le librerie indipendenti per lasciare il posto alle grandi catene. Poi, hanno chiuso anche le grandi catene, perché, se il libraio non ti conosce, tanto vale farsi consigliare un libro da Amazon.
Mi aspettavo un’infilata di negozi chiusi, ad Atene, non di librerie aperte anche ad Agosto. Librerie e negozi di musica. Ve li ricordate, i negozi di musica? Quando i dischi si pagavano, e con una certa soddisfazione. Oggi è più soddisfacente pagare le felpe e i caffè a portar via che ti macchiano le felpe che pazienza, te le ricompri, tanto con i saldi costano 9.99 euro e un momento, un momento: Come diavolo fanno a guadagnarci se le felpe prodotte in Cina te le vendono a 9.99 euro?! Siediti, e pensaci.
Qui ad Atene è pieno di negozi che vendono cd nuovi e usati. Li vendono o li scambiano. A Exarchia ne ho trovato uno che scambiava anche le cassette. E no, a giudicare dall’anziano proprietario che parla solo in greco ma in italiano sa dire «Mina!» non è un vezzo hipster, è che qui c’è chi non si è mai comprato un lettore cd perché ha quello delle cassette ancora funzionante. Immagino che funzioni ancora anche il mio, perso in chissà quale trasloco. Cercavo un album di The Boy, alter ego elettronico dell’attore e filmaker Alexander Voulgaris, classe 1981. La scena musicale greca – forse anche grazie al fatto che qui si vedono ancora i dischi – è popolata di band post rock (Your Hand in Mine, in omaggio a un brano degli Explosion in the sky), dream pop (Monsier Minimal) di cantautori satirici (Maraveyas Ilegal) e cantautrici indie (Irene Skylakaki). Perché qui si ascolta molta buona musica, non solo il Rebetiko e non certo il Sirtaki dei ristoranti turistici affollati di turisti che pensano che il Sirtaki sia una danza popolare della tradizione greca mentre è stata composta solo nel 1964 da Mikis Theodorakis, come colonna sonora del film Zorba il greco, quello con Anthony Quinn che balla a piedi nudi sulla spiaggia di Starvos.
Ad Atene, tra i negozi che resistono alla crisi, ci sono quelli di strumenti musicali. C’è sempre musica nei locali, nelle decine e decine di taverne, caffè, ristoranti dei quartieri popolari dove gli ateniesi si fermano a bere e a mangiare, si fermano a leggere, si fermano e basta e anche io mi fremo e talvolta mi affaccio soltanto per soddisfare una curiosità: voglio vedere se mi riesce di trovarne uno con la televisione accesa. Risultato: nessuno! Né ho mai sentito il suono della tv provenire da una finestra aperta. Penso a quando da noi i giornali profetizzavano la vittoria del “Sì” al referendum perché le tv greche, in mano ai pochi greci che guadagnano dalla stabilità borse, facevano propaganda per il sì.
In questo sterminato paesone di case basse appoggiate alle colline che si estendono per quaranta chilometri quadrati e ospitano 655mila abitanti (ma sono quattro milioni, un greco su tre, quelli che vivono nell’area urbana della cosiddetta “Grande Atene”, che include anche il Pireo) ci sono – ancora – negozi di abiti “Made in Grecia”. Li disegnano qui, spesso ispirandosi alle geometrie dei pepli delle “Korai” – le fanciulle della scultura arcaica – o ai ricami bizantini d’oro e di porpora che hanno rivoluzionato le linee severe della moda greca e romana. Pensavo mi sarebbe toccato insistere per avere lo scontrino e invece nei negozi te lo fanno sempre, come nei ristoranti e nei bar. Tutti esibiscono il cartello con scritto che Il cliente non è tenuto a pagare se l’esercente non consegna lo scontrino. L’evasione che colpisce la Grecia non pare essere quella dei piccoli commercianti, dunque, almeno ad Atene.
E ci sono ancora le mercerie, qui ad Atene. E i calzolai, i fabbri: il genere di negozi – e mestieri – che da noi stanno scomparendo, soffocati dalla concorrenza dei centri commerciali e dagli affitti troppo cari. Sorgono uno accanto all’altro: cinque mercerie, tre calzolai, due pellettieri. Da noi sono rimasti i nomi: Via dei Giubbonari, Via dei Baulari, via dei Cestari. Se però vuoi un cesto, te lo compri all’Ikea: il cestaio ora è un operaio in qualche fabbrica, se gli è andata bene.
Ha aperto anche qui ad Atene l’Ikea, come le altre multinazionali, e anche qui sta accadendo quello che è successo da noi. Il processo da tutti auspicato che ha reso le città identiche – tranne che per gli edifici delle “Archistar”: musei e auditorium che però potrebbero scambiarsi di posto da una città all’altra provocando lo stesso alienante straniamento rispetto al contesto dove insistono – e che qui subirà un’accelerazione con le riforme e con le privatizzazioni. Con meno vincoli per costruire e meno vincoli per licenziare, converrà investire, speculare, tirare su palazzi di venti piani al posto delle casette di due. A quel punto i negozi diventeranno appetibili, gli affitti insostenibili, e gli abitanti a basso reddito delle case del centro saranno costretti a trasferirsi in periferia, come già sta accadendo nel distretto post-industriale di Gazi, colonizzato dagli artisti e dagli architetti, e in quello, ancora misero ma in piena “gentrification”, di Metaxourgeio, costruito sull’antico cimitero degli ateniesi. In periferia apriranno i negozi di vinili che chiuderanno in centro. E in centro apriranno le banche al posto dei negozi di dischi e i take-away delle grandi catene al posto delle ouzerie con i tavolini all’aperto, che tanto bisogna allungare l’orario di lavoro e mangiare in fretta in pausa pranzo un panino che ha lo stesso sapore ad Atene e a New York per produrre di più e mettersi al passo con i paesi che dettano il passo.
Correre, correre! Così non ti resta il tempo di sederti in un caffè di Exarchia a leggere Marco Craviolatti che nel suo “E la borsa e la vita” (Eds) scrive che oggi lavoriamo più di un contadino del 1200 e di più di un minatore del 1700.
O di leggere l’ex presidente dell’Uruguai Pepe Mujica che ti spiega che lui non compra quasi mai niente, perché ogni volta che compra qualcosa non lo paga con il suo salario, lo paga con il suo tempo: il tempo in cui ha lavorato. E allora non compra quasi mai niente, perché non trova mai niente di più prezioso del suo tempo (José “Pepe” Mujica, la Felicità al Potere, a cura di Cristina Guarnieri e Massimo Sgroi, Eir).
Così non ti resta il tempo di passeggiare a piedi lungo i marciapiedi maleodoranti e alle saracinesche abbassate coperte di scritte e di pensare al decoro urbano – il decoro urbano! L’unico totem che da noi sembra in grado di suscitare qualche passione politica – e chiederti se è più indecoroso non igienizzare le strade per mancanza di fondi o comprare, nei negozi che aprono al posto delle librerie, le felpe che costano poco perché sono prodotte da lavoratori sottopagati e non tutelati che lavorano anche dieci ore al giorno e poi lamentarsi se abbiamo una disoccupazione giovanile del 44,2 per cento. Anzi, non lamentarsi nemmeno, tanto 9.99 euro per la felpa li rimedi e poi il problema della disoccupazione lo risolviamo agevolando i licenziamenti, no? Che è come dire che il problema della denutrizione lo risolvi mangiando di meno, farebbe notare Aristotele.
Per conto mio, sentite cosa ho letto, seduta al tavolino del caffè Floral, ad Exarchia, mentre sorseggiavo il mio espresso freddo: «La Grande depressione continuava, quindi la stazione e le vie adiacenti pullulavano di senzatetto, proprio come oggi. Le cronache erano piene di storie di operai licenziati, fattorie che andavano in malora, banche che fallivano, esattamente come oggi. Tutto quel che è cambiato è, a mio avviso, che, grazie alla televisione, riusciamo a tenerla nascosta, una Grande Depressione. Può anche darsi che si tenga nascosta una Terza Guerra Mondiale». Così parla il protagonista di Barbablù, 1987, uno dei rari romanzi di Kurt Vonnegut dove la fantascienza non c’entra ma che profetizza comunque un futuro: questo qui.
Ad Atene ci sono venuta per vedere la crisi l’effetto che fa. Torno a casa pensando che, anche se la televisione racconta il contrario, quelli in crisi siamo noi. Noi che ci siamo fatti fregare il tempo libero e l’ozio senza accorgerci che venivamo derubati. Che abbiamo accettato di buon grado non più di lavorare per vivere ma di vivere per lavorare, e consumare quel che ci invitano a consumare. E che però non abbiamo perso la capacità di indignarci. Perbacco! Ci indigniamo per le scritte sui muri e le buche per strada.
Contemplo la maestosità delle rovine dell’Acropoli, le colonne dei templi eretti per glorificare gli immortali Zeus, Apollo, Atena. Templi costruiti da generazioni di schiavi, per volontà di generazioni di ricchi signori. Mi viene da osservare che a duemila anni di distanza non trovi più un seguace di Zeus a pagarlo oro. Sono spariti! Nessuno, nemmeno il più fesso e svitato degli esseri umani crede più all’onnipotente Zeus, a Dioniso o a Poseidone. Sarebbe lieto di saperlo Anassagora, esiliato dall’Atene di Pericle – culla della democrazia – perché predicava che gli astri fossero pietre, e non divinità.
Tutte quelle imponenti colonne doriche, i fregi scolpiti nel marmo pentelico venato d’i giallo, i capretti sgozzati e le guerre combattute per compiacere gli dei! Era un’illusione: Poseidone era una bufala.
Mi domando che cosa penseranno tra duemila anni dell’austerity, dello spread, del capitalismo finanziario, di noi che ci crediamo e che, per alimentarlo, ci sacrifichiamo. Infilo gli auricolari e faccio partire The Boy, l’ateniese che qui canta in inglese la sua Cult of Smile. Incidentalmente, l’unico culto che pratico. E lo lascio sibilare, sulle sue chitarre elettriche dissonanti: «Jesus try to fuck meee…» ignorando le notifiche di Twitter.

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