Finalmente, mentre i Revelli e le Altre Europe perseverano in un pensiero dereistico, personalità come Gallino, pensatore che trae la forza delle sue argomentazioni da una visione razionale della realtà e da un mentodo basato su una seria analisi dei dati, fanno due più due e sottoscrivono democraticamente i conti della serva che si vede defraudata da questa Europa, dalla sua austerità e dal suo euro
di Luciano Gallino, da Micromega
L’Italia
ha due buoni motivi per uscire dall’euro, un tema di cui si parla ormai
in tutta Europa (Germania compresa). Il primo è che, sovrapponendosi
alle debolezze strutturali della nostra economia, l’euro si è rivelato
una camicia di forza idonea solo a comprimere i salari, peggiorare le
condizioni di lavoro, tagliare la spesa per la protezione sociale,
soffocare la ricerca, gli investimenti e l’innovazione tecnologica e,
alla fine, rendere impossibile qualsiasi politica progressista.
Risultato:
otto anni di recessione, che hanno provocato la perdita di quasi 300
miliardi di Pil al 2014 rispetto alle previsioni del 2007; 25% di
produzione industriale in meno, un mercato del lavoro di cui è difficile
dire quale sia l’aspetto peggiore fra tre milioni di disoccupati,
tre-quattro di precari e due o tre di occupati in nero. Grazie ai quali
l’Italia detiene il primato dell’economia sommersa tra i Paesi
sviluppati, pari al 27% del Pil e circa 200 miliardi di redditi non
dichiarati. I costi economici e sociali dell’euro superano i vantaggi.
Il
secondo motivo per uscire dall’euro è l’eccessivo ammontare del debito
pubblico, il che rende di fatto impossibile per l’Italia far fronte agli
oneri previsti dal cosiddetto Fiscal compact e a una delle clausole
fondamentali dell’Unione economica e monetaria. Il Fiscal compact
prevede infatti che in vent’anni dal 2016 il rapporto debito/ Pil, che
si aggira oggi sul 138%, dovrebbe scendere al 60, limite obbligatorio
per far parte dell’eurozona. In tale periodo detto rapporto dovrebbe
quindi scendere di 78 punti, cioè 3,9 l’anno. In termini assoluti si
dovrebbe passare dal rapporto 2200/1580 miliardi di oggi a 948/1580 nel
2035 (da convertire nel rispettivo valore del ventesimo anno).
Vi
sono solo due modi di raggiungere tale risultato, e infinite
combinazioni intermedie che però non lo cambiano: o il Pil cresce di
oltre il 5% l’anno per un ventennio, o il debito pubblico scende di
oltre 3 punti percentuali l’anno. Tenuto conto che le ipotesi più
ottimistiche di crescita del Pil per i prossimi anni si collocano tra
l’1 e il 2% l’anno, e che il servizio del debito — 95 miliardi nel 2015 —
continuerà a ingoiare decine di miliardi l’anno, ambedue le ipotesi non
sono concepibili.
In altre parole è impossibile che l’Italia
riesca a rispettare il Fiscal compact. L’Italia si ritrova così nella
condizione degli Stati membri della Ue che attendono di entrare
nell’eurozona perché debbono soddisfare alcune clausole previste dal
trattato sull’Unione economica e monetaria. Come dire che l’Italia è
tecnicamente già fuori dall’eurozona, poiché non è in condizione di
soddisfare a una delle clausole chiave: un rapporto debito pubblico/Pil
non superiore al 60%. Tale situazione dovrebbe essere invocata per
recedere dall’eurozona.
Non sono necessari sfracelli per arrivare
a tanto. Basta far ricorso all’articolo 50 del Trattatto sull’Unione
europea, comprendente le modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona il
1° gennaio 2009. Esso stabilisce che “ogni Stato membro può decidere,
conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione
(paragrafo 1)”. Il paragrafo 2 precisa quali vie il procedimento di
recesso deve seguire. Lo Stato che decide di recedere notifica
l’intenzione al Consiglio europeo. L’Unione negozia e conclude un
accordo sulle modalità del recesso. L’accordo è concluso dal Consiglio a
nome dell’Unione.
Dalla lettura dell’art. 50 si possono trarre
alcune considerazioni: a) la recessione avviene dopo un negoziato; b) il
negoziato è condotto sotto l’autorità del Consiglio europeo, organo
politico; c) è dato presumere che quando uno Stato notifica l’intenzione
di recedere, determinate misure tecniche, tipo un blocco temporaneo
all’esportazione di capitali dallo Stato recedente, siano già state
predisposte in modo riservato.
Mentre l’art. 50 ha posto fine
all’idea che la partecipazione all’Unione sia per sempre irrevocabile
per vie legali, qualche dubbio sussiste sulla possibilità di recedere
dalla Uem — la veste giuridica dell’euro — senza uscire dalla Ue, poiché
l’articolo in questione menziona soltanto questa. Peraltro la
letteratura giuridica ha ormai sciolto ogni dubbio: poiché il trattato
sulla Uem è soltanto una parte della struttura giuridica della Ue —
esistono Stati membri della Ue ma non dell’eurozona — è arduo negare il
principio per cui uno Stato membro possa recedere dalla Uem ma non dalla
Ue. Per cui il negoziato per l’uscita dall’euro dovrebbe aprirsi con la
dichiarazione di voler restare nella Ue. I costi per la recessione
dalla Ue sarebbero superiori ai costi di una sola uscita dall’eurozona.
Uno Stato che uscisse oggi dall’Ue si troverebbe dinanzi ad altri 27
Stati, ciascuno dei quali potrebbe imporgli ogni sorta di restrizioni al
commercio, oneri doganali, aumenti del prezzo di beni e servizi.
L’impossibilità di accedere ai mercati Ue costringerebbe uno Stato ad
affrontare costi di entità paurosa.
Resta da chiedersi dove stia
il governo capace di condurre un negoziato per la recessione dell’Italia
dall’eurozona in base all’art. 50 del Trattato sulla Ue. L’attuale,
come quasi tutti i precedenti, è un esecutore dei dettati di Bruxelles,
Francoforte, Berlino. Chiedergli di aprire un negoziato per uscire
dall’euro non ha senso. Si può coltivare una speranza. Che si arrivi a
nuove elezioni, dove ciò che significa recedere dall’euro in termini di
ritorno della politica a temi quali la piena occupazione, la politica
industriale, la difesa dello stato sociale, una società meno disuguale,
sia al centro del programma elettorale di qualche emergente formazione
politica. Prima di cedere alla disperazione, bisogna pur credere di
poter fare qualcosa.
mercoledì 23 settembre 2015
Gallino: Perché l'Italia può e deve uscire dall’euro
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