Quel che resta di Toni Negri (Non si muove foglia che il capitale non voglia).
da Dacci Oggi il nostro Pane Quotidiano
da Sebastiano Isaia via Ubu Re
Secondo Toni Negri, teorico
dell’Impero, della Moltitudine e della crisi della marxiana legge del valore,
«Parlare di Stato-nazione e di imperialismo senza periodizzarne la
figura e la durata diviene molto pericoloso – quasi reazionario».
Nientedimeno! Francamente non comprendo in che consista esattamente
quel pericolo. Certo, se ci riferiamo a qualcuno che maneggia quei
concetti in modo apologetico il «quasi» non ha ragion d’essere,
e il pericolo che ci si para dinanzi possiamo fronteggiarlo con efficacia.
In realtà la punta della critica negriana è rivolta contro la sinistra
statalista, nostalgica del vecchio Capitalismo di Stato e sostenitrice di
politiche neokeynesiane. E su questo punto egli mi trova del tutto in
sintonia, e non da oggi.
Ma il tipo di critica che il bravo
intellettuale scaglia contro chi vede «nella figura e nella presenza dello
Stato-nazione la condizione essenziale dell’agire politico» non è aliena
da ambiguità, e lascia immaginare una sua certa vicinanza, sebbene polemica e
sofferta, a coloro che la sostengono, quasi fossero «compagni
che sbagliano». Personalmente li ritengo funzionari del dominio sociale
capitalistico alla stessa stregua dei cosiddetti «liberisti selvaggi»,
con l’aggravante, rispetto ai secondi, di aver non poco lordato la
terminologia che ai tempi di Marx e di Lenin alludeva alla possibilità della
rivoluzione sociale e dell’emancipazione universale.
Negri sostiene che «lo Stato-Nazione è
in crisi». Bella scoperta! Nel Capitalismo avanzato lo Stato nazionale
vive una condizione di crisi permanente, perché i sempre più
rapidi mutamenti sociali innescati dal processo di produzione del valore
stressano sempre di nuovo il politico, costretto a inseguire i mutamenti
economici, tecnologici, psicologici, esistenziali nell’accezione più
ampia e radicale del concetto, nel tentativo di smussarne le asperità, e
di ricondurli, per quanto possibile, a un principio unitario. Sorto
storicamente sulla base dello Stato nazionale, il Capitale ha avuto fin dal
principio un carattere sovranazionale che gli deriva dalla sua
smisurata necessità di trasformare l’intero pianeta e
l’intera esistenza degli individui in occasioni di profitto.
Già nei primi
scritti di Marx è chiaramente annunciata quella tendenza aggressiva
ed espansiva del Capitale che agli occhi della «moltitudine» del
XXI secolo appare in forma talmente dispiegata, da essere considerata come
un fenomeno naturale e banale. Anche per questo il pensiero
critico-radicale trova così tanta difficoltà ad affermarsi presso le «larghe
masse»: la prossimità del Dominio lo rende quasi invisibile ai loro occhi,
almeno nella sua interezza, nella sua reale dimensione. Ma più che di
prossimità, dovremmo piuttosto parlare di intimità, di più: di
consustanzialità. Infatti, sempre più il Dominio ci crea «a sua propria
immagine e somiglianza»,
come il buon Dio dell’Antico Testamento.
La violenta espansione geografica ed
esistenziale (corpi “umani” compresi, ovviamente) delle esigenze
economiche marchiate dal Capitale ci dà, a mio avviso, il
corretto concetto di imperialismo e di globalizzazione. Due modi diversi di
chiamare lo stesso processo sociale. Noi avvertiamo come «crisi
dello Stato-Nazione» il suo continuo processo di adattamento a una
società in continua trasformazione, quantitativa e
qualitativa, a cagione della natura «rivoluzionaria», nell’accezione
marxiana del concetto, del Capitalismo. Questo permanente stato di
precarietà, o di «liquidità», per civettare con la sociologia alla
moda, si acuisce nelle fasi di repentina accelerazione della tendenza
«globalizzante». Non c’è dubbio che il ventennio che ci sta alle spalle
abbia rappresentato un momento di accelerazione, che ha radicalmente
cambiato la dislocazione del Potere (economico e politico) su scala
mondiale.
Scrive Marx: «Con la concorrenza
universale [la grande industria] costrinse tutti gli individui alla
tensione estrema delle loro energie. Essa distrusse il più possibile
l’ideologia, la religione, la morale, ecc. e quanto ciò non le fu possibile ne fece
flagranti menzogne. Essa produsse per la prima volta la storia
mondiale, in quanto fece dipendere dal mondo intero ogni nazione
civilizzata, e in essa ciascun individuo, per la soddisfazione dei suoi bisogni,
e in quanto annullò l’allora esistente carattere esclusivo delle
singole nazioni». La creazione del mercato mondiale da parte della grande
industria, caratterizzata dalla sussunzione reale della capacità
lavorativa sotto il dominio aggressivo ed espansivo del Capitale, crea la
storia mondiale, nel cui seno esistono ed agiscono anche i Paesi non ancora
giunti alla maturità capitalistica o addirittura ancora fermi a strutture
sociali precapitalistiche. È, questo, lo spazio rigato dalla «legge dello
sviluppo ineguale»
e dallo scontro sistemico tra le moderne potenze
imperialistiche.
«In generale [la grande industria] creò dappertutto gli
stessi rapporti tra le classi della società e in tal modo distrusse
l’individualità particolare delle singole nazionalità. E, infine, mentre la
borghesia di ciascuna nazione conserva ancora interessi particolari, la grande
industria creò una classe che ha il medesimo interesse in tutte le nazioni
e per la quale la nazionalità è già annullata, una classe che è realmente
liberata da tutto il vecchio mondo e in pari tempo si oppone ad esso».
Qui è posta per la prima volta la fondamentale «contraddizione
dialettica» tra il carattere universale e mondiale del Capitale, e la sua
ristretta base storico-sociale d’origine: la Nazione. Questa dialettica di
universalità e particolarità sta alla base delle relazioni internazionali e della
crisi permanete della Sovranità politica sopra delineata.
La base del «vecchio imperialismo»
era costituita dall’incessante ricerca da parte del Capitale di
profitti sempre più pingui e rapidi (non di rado attraverso le forme più
disparate di speculazione), di materie prime, di forza-lavoro a basso costo e
di mercati «di sbocco». Una voracità talmente violenta e
insaziabile da trascinare nelle spire imperialistiche lo Stato, la cui
potenza d’altra parte riposava interamente sulla capacità
industriale, e quindi finanziaria, scientifica, organizzativa, culturale, in una sola
parola sistemica, del Paese. Come notò J.A. Hobson nella sua giustamente
celebre opera del 1902, l’imperialismo «implica l’uso
della macchina di governo da parte degli interessi privati, principalmente
capitalistici, per assicurare loro vantaggi economici fuori del proprio
paese». Sempre all’acume critico dello studioso inglese dobbiamo la
documentata relazione tra investimenti esteri e imperialismo
politico (militarismo incluso): «Le statistiche degli investimenti
all’estero gettano una chiara luce sulle forze economiche che dominano la nostra
politica [...] non è esagerato dire che la politica estera moderna
della Gran Bretagna si è concretizzata in una lotta per
accaparrarsi profittevoli mercati d’investimento».
C’è una pagina
di quell’importante studio, dedicata agli gnomi della finanza del suo tempo,
che sembra scritta oggi: «Come speculatori o finanzieri essi
costituiscono il più grave fattore specifico dell’economia dell’imperialismo.
Creare nuovi debiti pubblici, lanciare nuove società, provocare notevoli
fluttuazioni del valore dei titoli sono tre condizioni necessarie per svolgere
la loro profittevole attività. Ciascuna di queste condizioni li spinge
verso la politica,
e li getta dalla parte dell’imperialismo».
È forse mutata la base del «nuovo
imperialismo», al punto da determinarne il tramonto, o quantomeno
la sua trasformazione nell’Impero concettualizzato da
Negri? A me non pare proprio, e soprattutto quanto ci capita di
osservare negli ultimi anni mi suggerisce l’idea che lungi dall’essersi
indebolita, la radice sociale dell’imperialismo si è piuttosto
rafforzata enormemente. Concetti quali «post imperialismo» e «post
Capitalismo» non hanno alcun senso e testimoniano l’incapacità, di chi li
teorizza, di afferrare l’essenza della vigente formazione storico-sociale, la
quale vive necessariamente una permanente condizione transeunte: il
cambiamento, per essa, non è un’eccezione, ma la regola. Di più:
un imperativo categorico.
La società capitalistica è sempre
«post», «oltre», «smisurata»: deve esserlo, con assoluta e “demoniaca”
necessità. Si tratta di mettere a nudo il momento di continuità che
persiste nel processo e che realizza la continua trasformazione della
Società-Mondo dominata dal rapporto sociale capitalistico. Sul piano della
politica mondiale Negri compie la stessa operazione “astrattiva”,
ideologica più che metafisica, che ormai da quarant’anni caratterizza la sua
analisi della politica nazionale in rapporto al processo di valorizzazione
del capitale. Egli osserva talmente da vicino le tendenze
storiche, da precipitarvi dentro, diventando una cosa sola con il suo
oggetto. La sua analisi risulta in questo modo priva di quelle mediazioni
concettuali necessarie a cogliere la reale dimensione e la reale
natura della tendenza, il suo rapporto con i processi reali che a
volte la contraddicono, a volte la confermano, in una incessante
dialettica.
Ed è proprio questa mediazione reale e concettuale il punto
nodale da cui muovere, la realtà concreta in un’accezione non
volgarmente empirica. Per dirla in breve e più chiaramente,
Negri non coglie in tutta la sua portata e radicalità lo scontro
sistemico tra le potenze imperialistiche e tra le macro aree capitalistiche
(Europa, America, Asia). Proprio oggi gli avvinazzati del «sogno europeo»
scoprono con sgomento che, come ha scritto poche settimane fa il Wall
Street Journal, «dietro la solidarietà europea si nascondevano
gli interessi delle nazioni europee».
Tutti parlano e scrivono di
«ritorno dei particolarismi nazionali», di «ritorno della
politica di potenza» anche in Europa, soprattutto in riferimento al nuovo
ruolo egemonico della Germania e all’operazione franco-inglese in
Libia. Per non parlare delle scosse telluriche che si registrano con sempre
più frequenza e maggiore intensità nella «faglia del
Pacifico», dove orbitano le più grandi potenze capitalistiche del pianeta.
Nessun «ritorno»: è la storia del Capitalismo che continua, una storia
sempre «vecchia» eppure sempre «nuova», perché i rapporti di forza
interimperialistici mutano sempre di nuovo, in intima relazione con i
processi di ascesa e di declino economico delle Nazioni e delle macro
aree geoeconomiche.
L’ideologia antiamericana di matrice
stalinista e maoista, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale
e fino a qualche anno fa, impedì a gran parte dei “marxisti”
occidentali di vedere, dietro l’esibita compattezza dell’Alleanza
imperialistica centrata sugli Stati Uniti, i conflitti di natura economica, politica
e strategica tra i diversi Paesi “fratelli”, con tutto ciò che ne
seguì sul piano della loro – cattiva – prassi politica «antimperialista». Il
rapporto tra Stati Uniti e alleati veniva da essi ricondotto nel risibile
schemino di Padrone e «servi sciocchi», con ciò misconoscendo la
reale dialettica che ha plasmato quel rapporto, peraltro oggi sempre più
sfilacciato, debole e contraddittorio.
Pur non essendo un volgare
antiamericano, Negri è concettualmente assai vicino a quel tipo di
impostazione dei problemi internazionali: la figura dell’Impero, infatti, gli
preclude di cogliere la ricca e complessa dialettica che struttura la politica
internazionale degli Stati, peraltro da egli concepiti come entità in via di
estinzione. «Oggi noi viviamo certo un interregno, fra la fine della
modernità e l’apertura della postmodernità, fra l’estinzione
dello Stato-nazione e la fondazione dell’Impero. Mille contraddizioni
attraversano questo periodo e nessuno può opporre Stato-nazione e
Impero come se si trattasse di figure opposte per natura.
Nell’interregno, il capitale gioca piuttosto la compenetrazione di queste due figure e
talora si illude sull’evoluzione dell’una nell’altra: la dialettica
per il capitale funziona sempre, e così all’affermazione dello Stato-nazione segue la negazione dell’interregno, poi la sua
necessaria sublimazione nell’Impero».
A mio avviso la realtà mostra una dialettica
assai diversa, e il concetto di Impero è, a mio avviso, destinato a
fare la stessa fine del Superimperialismo teorizzato negli anni
Venti da intellettuali di diverse tendenze politiche e culturali. Da buon «materialista dialettico»,
Negri fonda la sua teoria dell’estinzione dello Stato-Nazione,
«sublimato nell’Impero», sulla prassi economica del Capitalismo del
XXI secolo, ossia de «postCapitalismo», di un Capitalismo
che, a quanto pare, è andato «oltre Marx». «La legge del valore
(e dunque del plusvalore), considerata secondo la definizione
elementare che ne dà Marx, è divenuta inefficace salvo, forse, in
settori marginali dello sviluppo. Lo sfruttamento si configura come
espropriazione dei valori della cooperazione e della circolazione
produttiva, come appropriazione capitalista dell’eccedenza innovatrice del lavoro immateriale nell’organizzazione sociale del
lavoro, come captazione del comune».
Suona bene, non c’è che dire. Ma si
tratta, appunto, di suoni, che alludono bensì a una realtà concreta,
come del resto i sogni e qualsivoglia costruzione intellettuale
per quanto fantasiosa; senza però riuscire mai a toccarla. Voglio
prenderla, per così dire, alla larga, con ciò testimoniando la coerenza di pensiero
di Negri, il quale batte il chiodo, invero storto e spuntato, del
superamento della marxiana legge del valore da molti lustri.
In un suo breve saggio del 1974, Crisi
dello Stato-piano, Negri cita un importante passo di Marx: «Nella
misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza
reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di
lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti degli agenti che vengono
messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta – questa
loro powerful effectiveness – non è minimamente in rapporto al tempo di
lavoro immediato che costa alla produzione, ma dipende invece dallo
stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia o
dall’applicazione di questa scienza
alla produzione».
Qui Marx delinea il fondamentale
concetto di lavoro sociale astratto, mediante il quale spiega il
passaggio del Capitalismo dalla precedente fase manifatturiera
(«sussunzione formale del lavoro sotto il Capitale») alla sua piena maturità,
con l’introduzione di criteri e di mezzi altamente razionali (scientifici)
e tecnologicamente avanzati nel processo di creazione del valore –
perché le merci, bisogna sempre ricordarlo, sono meri contenitori di
valore che attende di essere realizzato sul mercato. A questa
altezza dello sviluppo capitalistico il prezzo della merce non dipende dal
lavoro peculiare che l’ha immediatamente prodotta, ma dalla media
sociale dei singoli e particolari lavori che in altre
fabbriche e in altre parti del mondo producono quel tipo di «crisalide di
valore», quel valore di scambio che agogna il «salto mortale» della
compra-vendita
per manifestarsi come denaro.
È appunto il lavoro sociale
astratto la base oggettiva che rende possibile l’esistenza del denaro in
quanto «equivalente universale», la cui enigmatica natura è fonte di
continue aberrazioni feticistiche. Ed è a questa altezza che prende corpo il
fenomeno per cui il Capitale più produttivo, quello a più alta
«composizione organica», ossia incardinato su una base
tecnologico-scientifica assai sviluppata, drena una parte del plusvalore smunto alla
capacità lavorativa sfruttata da un Capitale relativamente meno produttivo,
a più bassa «composizione organica». Il Capitale a più alta
«composizione organica» sfrutta dunque anche il concorrente
relativamente più arretrato sul piano della strumentazione tecnica e
dell’organizzazione del lavoro. Detto di passata, storicamente la formazione del
moderno Sistema Finanziario è radicata nel processo qui appena
abbozzato: infatti, l’alta produttività del lavoro
1) ha liberato risorse
finanziarie in precedenza vincolate direttamente alla sfera produttiva;
2)
ha costretto le imprese a ricorrere sempre più spesso ai capitali messi a
disposizione dalla Finanza – la tecnologia e la scienza, come sappiamo,
hanno un elevato costo –, rafforzandone la potenza di fuoco
(l’allusione all’imperialismo è voluta) e la tendenza
all’autonomizzazione (base materiale di ogni feticismo passato, presente e futuro);
3) la sfera finanziaria si è presto dimostrata una sorta di attrazione
fatale per i capitali desiderosi di grassi e facili profitti.
Come Marx ha
dimostrato nel Terzo libro del Capitale, l’alta composizione
tecnologica dell’impresa industriale ha sul saggio del profitto, ossia sul
rendimento del capitale investito nella produzione, effetti assai
contraddittori sul processo di accumulazione, e non di rado tali da spingere il
Capitale a battere le vie dell’imperialismo (investimenti
diretti e indiretti all’estero) e della speculazione finanziaria. Ma non
spingiamoci oltre.
Se diamo a questa complessa dialettica
capitalistica una dimensione
mondiale, come ci obbliga a fare la
realtà, illuminiamo da un’essenziale – radicale –
prospettiva la prassi e il concetto di imperialismo. Ecco perché l’odierna
bagarre intorno al debito sovrano, al Welfare, al mercato del lavoro, alla
spesa pubblica improduttiva e via discorrendo è connessa intimamente
a quella prassi e a quel concetto. Infatti, si tratta di rendere
più produttivo il Sistema-Paese nel suo complesso, con tutte le conseguenze
sociali e politiche che necessariamente ne derivano.
Che
l’accumulazione capitalistica che io chiamo – con scarsa originalità, lo
riconosco – primaria o originaria, ossia quella afferente al settore
industriale (agricoltura compresa, ovviamente), stia alla base della
cornucopia finanziaria che tante teste metafisiche ha fatto girare; come del
cosiddetto Welfare allargato, è stato dimostrato sul piano empirico
dalla crisi economica, la quale da sempre ha avuto la funzione di
accendere un potente fascio di luce sulla notte dove tutte le vacche sembrano
nere. La svalutazione universale di tutti i valori, che la crisi realizza,
oltre a costituire il processo di risanamento che rimette in carreggiata
il treno dell’accumulazione, rappresenta un’eccezionale occasione
di crescita teorica e politica, per chi riesce a coglierla.
Ma vediamo adesso il commento di Negri
alla precedente citazione
marxiana: «Se dunque lo scambio di
forza lavoro non è più qualcosa che avvenga – con determinazioni
quantitative e con specifiche qualità – all’interno del processo di
capitale, se invece un interscambio di attività, determinate da bisogni e
scopi sociali, è il presupposto stesso della produzione sociale e la socialità
è la base della produzione, se infine il lavoro del singolo è posto
fin dal principio come lavoro sociale, il prodotto stesso del lavoro
complessivo non può essere rappresentato come valore di scambio.
[...] Lavorare è già una partecipazione immediata al mondo della
ricchezza. [...] Il contenuto di massa del progetto
dell’organizzazione operaia, nella misura stessa in cui si estende all’intera figura
del lavoro astratto, si determina attorno al programma
dell’appropriazione sociale diretta della ricchezza sociale prodotta».
Negri ha sempre amato vedere realizzate
le tendenze che alludono alla possibilità del Comunismo hic et
nunc, nell’ambito dello stesso Capitalismo, e questo peraltro
comprensibile desiderio, che spiega il successo della sua infondata posizione
in non ristrette cerchie di giovani politicizzati, gli impedisce di
comprendere che quelle stesse tendenze oggettive si risolvono, hic et
nunc, in un continuo processo di radicamento e di espansione del dominio
sociale capitalistico.
La mia tesi è che, invece, non esiste alcun
«Comune», perché tutto quello che esiste sotto il vasto cielo della
società capitalistica mondiale (o «globale») appartiene con Diritto –
ossia con forza, con violenza – al Capitale, privato o pubblico che sia.
Il Capitale non si appropria arbitrariamente «il Comune», non lo
«privatizza», ma estende piuttosto continuamente la sua capacità di
trasformare uomini e cose in altrettante occasioni di profitto, e
può farlo perché l’intero spazio sociale gli appartiene, è una sua
creatura, una sua naturale riserva di caccia. Il lavoro (quello «materiale»
e quello «immateriale», quello produttivo di plusvalore originario e
quello produttivo di solo profitto, nelle sue diverse figure), la scienza,
la tecnologia, l’arte, la cultura e la stessa natura hanno, nel nostro tempo,
un’essenza necessariamente capitalistica, cioè a dire al contempo
essi esprimono
e riproducono sempre di nuovo
il rapporto sociale
dominante in questa epoca storica.
La crisi economica ha dimostrato come
alla base del Sistema Finanziario Internazionale
(speculazione compresa) e della Finanza Sovrana (quella che rende possibile il
Welfare e tutte le prassi finanziate dallo Stato attraverso il
drenaggio fiscale), ci sia la
produzione del plusvalore estorto ai
lavoratori sfruttati nella cosiddetta «economia reale». Proprio «l’analisi
marxiana della rendita fondiaria e le pagine sull’estrazione di
plusvalore nell’industria dei trasporti» cui rimanda Negri, spiegano perché solo
nel processo di produzione industriale si ha la generazione del
plusvalore originario, o primario, il quale sta alla base di ogni forma di
plusvalore derivato o secondario, chiamato da Marx profitto, rendita,
interesse, e così via.
Ciò spiega perché, tra l’altro, tutti gli
strati sociali che a diverso titolo campano di plusvalore hanno interesse a che il
salario dei lavoratori industriali sia e rimanga basso e la loro produttività
cresca continuamente. Sta qui, per un verso il vero limite
storico insuperabile del Capitale, la cui smisurata e insaziabile fame di
profitti deve misurarsi con quella miserabile base di valore, occultata in
tempi di vacche grasse dalla Chimera speculativa e che la crisi,
mandando per aria il gigantesco castello fatto di valori fittizi, mette
a nudo; e per altro verso la maledizione del lavoro salariato.
Ancora nel XXI secolo la marxiana legge
del valore, lungi dall’essere stata superata o messa ai
margini dal processo di creazione della ricchezza sociale nella sua forma
capitalistica, costituisce, a mio avviso, il solido punto di partenza –
non necessariamente di arrivo – di chi voglia elaborare un punto di vista
critico sulla vigente società.
Cambiando il moltissimo che c’è da
cambiare, il tentativo negriano di vedere limiti oggettivi insuperabili
nel processo di sviluppo del Capitalismo mi ricorda Rosa Luxemburg,
la quale, nel tentativo di dimostrare l’infondatezza della
politica riformista dei vari Bernstein, s’inventò la teoria secondo la quale
il Capitalismo, per sopravvivere, ha bisogno di aree non capitalistiche
nelle quali realizzare il plusvalore prodotto nelle metropoli dell’Impero. Appena il pianeta fosse caduto interamente nelle spire del
Capitalismo, il catastrofico crollo di quest’ultimo si sarebbe realizzato
con assoluta necessità, per l’impossibilità di realizzare il
plusvalore. L’ottimismo riformista, dunque, non aveva alcun fondamento.
Cosa assai significativa, la Luxemburg attribuì a Marx l’errore
capitale di ritenere sempre possibile la realizzazione del
plusvalore nell’ambito dei paesi capitalisticamente avanzati (vedi
L’accumulazione del capitale), più diverse e fondamentali magagne nella
spiegazione dell’accumulazione capitalistica.
Anche per Rosa i
marxisti sarebbero dovuti andare «oltre Marx». E non ci vedo nulla di male, in
questa perorazione, anzi! A patto che mi si offra una teoria
superiore! Per una puntuale critica dell’Accumulazione luxemburghiana
rimando a Il crollo del
Capitalismo di Henrik Grossmann. Gran parte degli errori teorici di
Negri si spiegano con il suo tentativo di colpire quello che negli
anni Settanta egli definiva «il movimento operaio ufficiale» (il PCI
di Togliatti-Longo-Berlinguer e la CGIL di Lama), concepito,
erroneamente, come espressione della vecchia composizione di classe,
fordista e keynesiana, superata dal Capitalismo «postmoderno», e non come
movimento politico-sociale borghese tout court. La teorizzazione
della «Moltitudine» di oggi ha molto a che fare con la teorizzazione
dell’«operaio sociale» di ieri.
Che cosa resta di Negri dopo l’avvento
della crisi capitalistica mondiale? Le sue suggestioni teoretiche e,
soprattutto, i suoi fondamentali errori teorici e politici. Solo se si afferra la dialettica del
processo capitalistico nel suo reale movimento, senza proiettarvi sopra i
nostri desideri, è possibile fare il punto politico e sociale della
situazione, per elaborare una teoria-prassi all’altezza dei tempi, i quali,
occorre riconoscerlo, attestano la tragica impotenza delle classi subalterne in
ogni latitudine del pianeta.
Non è coltivando l’«ottimismo della
rivoluzione», che crea l’illusione di «Moltitudini» sempre all’attacco,
sempre sul punto di afferrare il potere (o quantomeno di «appropriarsi
direttamente della ricchezza sociale prodotta»), che il pensiero critico
può sperare di intercettare la dialettica del reale, ossia la tensione
sempre crescente tra attualità e possibilità, presente e futuro.
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