di Toni Negri da UniNomade
(la conferenza che pubblichiamo è stata tenuta alla Maison de l’Amerique Latine, a Parigi, il 27 maggio 2015)
Il discorso di Laclau rappresenta per me una variante neo-kantiana di
quello che si potrebbe definire socialismo post-sovietico. Già ai tempi
della Seconda Internazionale il neo-kantismo funzionò come approccio
critico nei confronti del marxismo: il marxismo non fu considerato come
il nemico, ma quell’approccio critico aveva tentato di assoggettarlo e,
in certo modo, di neutralizzarlo. L’attacco fu portato contro il
realismo politico e l’ontologia della lotta di classe. La mediazione
epistemologica consistette, allora, a questo uso e a questo abuso del
trascendentalismo kantiano. Mutatis mutandis, tale mi sembra
anche, se ci si pone in epoca post-sovietica, la linea di pensiero di
Laclau, considerata nel suo movimento. Sia chiaro – qui non si discute
di revisionismo in generale, talora utile, talora indigesto. Si discute
dello sforzo teorico e politico di Laclau in età post-sovietica a
confronto con la contemporaneità.
Partiamo da un primo punto. La moltitudine caratterizza le società
contemporanee – ci dice Laclau – ma la moltitudine non conosce
determinazioni ontologiche e tantomeno – oggi – regole che possano
presiedere alla propria composizione. Solo dall’esterno (pur
rispettandone la natura) sarà possibile ricomporre la moltitudine.
L’operazione è quella kantiana dell’intelletto che si confronta con la
“cosa in sé”, inconoscibile altrimenti che col suggello della “forma”.
L’operazione è quella della sintesi trascendentale.
È possibile e desiderabile che eterogenee soggettività sociali
organizzino se stesse spontaneamente o debbono piuttosto essere
organizzate? La domanda è consueta e sta alla base del criticismo. A
questa questione Laclau risponde che oggi non c’è alcun attore sociale per sé,
“classe universale” (com’era definita marxianamente la classe operaia),
e neppure un soggetto semplicemente prodotto dalla spontaneità sociale,
da una self-organization che potrebbe pretendere egemonia. Ora,
il marxismo classico aveva operato una semplificazione della lotta
sociale di classe sotto il capitalismo e aveva costruito un soggetto, un
attore di emancipazione, nel quale l’autonomia e la centralità
coincidevano. Ma nella contemporaneità è appunto questo terreno che si è
decomposto – si è invece imposto un terreno fatto di eterogeneità: solo
una costruzione politica può ormai muoversi in questo spazio di non
omogeneità sociale (quando si intenda per “omogeneità” qualcosa che si
dovrebbe presupporre oppure quando ci si limiti alla constatazione di
ciò che esiste: in ogni caso quell’omogeneità è scomparsa). Ecco quello
che la teoria laclauiana dell’egemonia si propone di affrontare. Essa
non nega che vi siano momenti di autonomie auto-organizzate né forti
soggettività che sorgono sulla scena storica: scopre fra queste figure
soggettive una “tensione” – e comunque pensa che esse vadano “messe in
tensione”. Laclau considera questa tensione “costitutiva”. È
l’immaginazione trascendentale in azione. Laclau – mi sembra – consideri
che il contesto politico si presenti come un Giano a due facce e pone
la tensione fra queste due facce come se si trattasse di spazio e di
luogo, come tessuto e trama, che ogni costruzione di potere deve
percorrere e trascendere, risolvere e determinare. Così nasce
l’egemonia/potere.
Secondo punto. Deve essere chiaro che l’immanenza, l’autonomia e la
pluralità costitutive della moltitudine non solo sono incapaci di
costruire potere ma rappresentano degli impedimenti al formarsi di ogni
scena politica. Perciò, prosegue Laclau, se la società fosse interamente
eterogenea, l’azione politica richiederebbe che le singolarità fossero
capaci di avviare sul piano di immanenza un processo di “articolazione”
al fine di strutturare quella tensione sulla quale ho brevemente
insistito, e per definire, tra le singolarità, delle relazioni
politiche. Ma ne sono capaci?
La risposta di Laclau è negativa. Questa negazione rinvia ad un
motore trascendentale. L’articolazione è dunque posta, senza possibile
alternativa, su un terreno formale, ben comprendendo che “forma” non
significa, in questo caso, “qualcosa di vuoto” ma piuttosto “involucro
costitutivo”. Laclau insiste sul fatto che affinché sia possibile
un’articolazione della moltitudine deve emergere una qualche istanza
egemonica al di sopra del semplice piano di immanenza – un’istanza
egemonica che sia in grado di dirigere il processo e che funga da centro
di identificazione di tutte le singolarità. “Non c’è egemonia senza la
costruzione di una identità popolare a partire dalla pluralità delle
domande democratiche”.
Se il contesto sociale è configurato da una moltitudine disomogenea,
occorre stabilire una forza di articolazione fra le differenti parti di
questa disomogeneità per garantire la loro integrazione. L’insistenza
sull’auto-organizzazione o il rinvio a soggetti precostituiti non devono
eliminare né dimenticare la necessità di creare temi comuni e linguaggi
omogeneizzanti che circolino attraverso le differenti organizzazioni
locali. Tale articolazione/mediazione non può in nessun caso ripetere il
vecchio modello delle “forti” organizzazioni tradizionali (partiti,
chiese, corporazioni ecc.). Questa articolazione/mediazione deve
piuttosto essere avvicinata attraverso la nozione di “significante
vuoto”. Ma abbiamo appena precisato che “significante vuoto” non
significa qui vuote forme di unità dogmaticamente legate a qualche
preciso significato, significa piuttosto “involucro costitutivo”. Non
siamo più sul kantiano terreno dell’estetica o dell’analitica ma su
quello dell’immaginazione trascendentale.
C’è un momento infatti nel quale Laclau, con un diverso approccio,
quasi un nuovo tempo musicale, ripropone il tema del significante
“fluttuante” e “vuoto” a fronte dell’eterogeneità del sociale in termini
assai potenti – direi, se non fosse una forzatura, ontologicamente
produttivi. Quando infatti Laclau affronta il tema dell’“articolazione”
di diverse lotte sociali, questo momento (già in Egemonia e strategia socialista,
nel 1985) rappresenta un modello di “antagonismo costitutivo” – quasi
un doppio potere “debole” che, sorgendo attraverso conflitto e
disgregazione, su una frontiera “radicale”, costituisce insieme una
sintesi di vecchi diritti di sovranità e di diritti democratici di
autogoverno. Lo hanno ben sottolineato Mezzadra e Neilson in Confini e Frontiere
(Il Mulino, 2014). Si deve ammettere che avvicinandosi all’idea di una
dialettica di contropoteri confliggenti, Laclau interpretava allora un
primo passaggio, meglio, un primo apparire di un sentire comune dei
militanti socialisti, implicati in una crisi della sinistra, a partire
degli anni ’70, e che si rifiutavano di vederla precipitare con ritmo
inarrestabile. In quella condizione, appurata l’insufficienza di
strumenti dialettici, bisognava ricostruire “un popolo”, produrne
l’unità – questo sarà riconosciuto da Laclau come l’atto politico “per
antonomasia”. Nell’85 ci si chiede dunque, con grande forza e sollevando
un largo consenso, se l’apertura del sociale al politico sia, piuttosto
che una “struttura discorsiva”, una “pratica di articolazione” che
costituisce e organizza le relazioni sociali. Ma questo punto di vista
sarà di lì a poco rovesciato. Cito Laclau: “Nelle società industriali
avanzate si individua una asimmetria fondamentale tra una proliferazione
crescente delle differenze – un surplus di significato del “sociale” – e
le difficoltà incontrate da qualsiasi discorso che tenti di fissare
queste differenze come momenti di una stabile struttura di
articolazione”. Bisogna allora allontanarsi dalla stessa nozione di
società come “totalità autodefinita” in cui il sociale fissa se stesso.
Vanno piuttosto identificati “punti nodali” che producano sensi e
direzioni parziali e consentano a queste o a quelle formazioni del
sociale di prendere forma. Si tratterà dunque, sempre di più, di
rifiutare ogni soluzione dialettica posta da concetti come “mediazione” o
“determinazione”. “La politica emerge come problema delle condizioni
trascendentali del gioco fra articolazioni ed equivalenze che si
costituiscono nel sociale. L’identità delle forze in lotta è soggetta a
mutamenti costanti ed esige un incessante processo di ridefinizione”.
L’equilibrio
di quest’articolazione è tuttavia difficile da determinare. Esso è
esposto a due pericoli. Chiamerei il primo “deriva della domanda”, o
meglio la deriva dell’inconclusività dell’incontro delle equivalenze. Si
veda, vent’anni dopo Egemonia, La ragione populista, del 2005. Qui il discorso di nuovo comincia da un’immersione nel sociale, costruendosi attorno agli stimoli, ai conatus moltitudinari
che spingono verso il politico. Ora, scrive allora Laclau, “la più
piccola unità da cui partiremo corrisponde alla categoria di domanda
sociale”. Naturalmente, questa domanda, se da un lato spinge verso
l’approfondimento delle logiche di formazione dell’identità, dall’altro
apre all’antagonismo. Il problema allora diviene: come trasformare la
competizione, l’antagonismo dislocato e in continua proliferazione, in
un antagonismo visibile e dualistico? La “catena di equivalenze” non si
risolve invece qui in una proliferazione di cui non si intende la
conclusione? Lo stesso Laclau sembra prenderne coscienza: “la
specificità dell’equivalenza è la distruzione di significato attraverso
la sua stessa proliferazione”. Questo indefinito delle potenze
dell’immanenza rischia di impedire (e comunque minaccia) la costruzione
trascendentale del significante.
La seconda difficoltà è direttamente legata al consolidamento
definitivo dell’equilibrio tale e quale si presenta nel concetto di
“egemonia”.
Una piccola parentesi a questo proposito. Il concetto di egemonia in
Laclau si costruisce con riferimento a Gramsci. Ma le cose non sono così
semplici. Peter D. Thomas nota che Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, in Hegemony and Socialist Strategy del
1985, sostituiscono il dispositivo politico dell’egemonia – così
com’era definito dalla tradizione leninista – con un concetto discorsivo
– del tutto formale. Siamo, secondo Thomas, in una fase della
riflessione teorica dell’“eurocomunismo” che si sviluppa nella forma di
un gramscismo “molle” e che segna il passaggio ad una politica
radical-democratica post-marxista. Che si sia d’accordo o no con il
punto di vista di Peter D. Thomas, bisogna in ogni caso, mi sembra,
ricordare qui che il pensiero di Gramsci muove da una posizione marxista
e leninista nella quale la dittatura si presenta non come comando
totalitario ma, appunto, come egemonia, cioè come costruzione organica
di un potere costituente rivoluzionario. Non si può negare che il
riferimento gramsciano di Laclau sia, in proposito, piuttosto debole –
più ricerca retorica di una supposta eredità che come vera filiazione
ontologica. Il concetto di egemonia in Gramsci (dalla pratica torinese
dei Consigli fino alla teoria del nuovo Principe) si costruisce sulla
lotta di classe, mantiene una “solidità” materialista e produce un
dispositivo di potere dei lavoratori in senso comunista. Non può in
nessun caso, il concetto di egemonia gramsciano, essere reinterpretato
nelle modalità teorizzate da Norberto Bobbio – cioè come prodotto
sovrastrutturale della “società civile”, dove società civile sia
concetto preso nell’accezione hegeliana.
Inoltre, ciò che risulta qui strano è come in Laclau il concetto di
egemonia – al quale già la potenza gramsciana è tolta – possa essere
riferito alle politiche del Partito comunista togliattiano: su questo
punto, l’equilibrio fra autonomia di base dei movimenti e Partito, come
significante talora “fluttuante” – ma certamente mai “vuoto” – poteva
ancora orientarsi a sinistra perché il Partito era ancorato alle
politiche sovietiche. In tal modo, l’asse delle ascisse egemonia/società
e quello delle ordinate destra/sinistra potevano essere tenute in
equilibrio proprio per l’impossibilità del “significante” di farsi Stato
– Yalta lo impediva. Ripeto: in Togliatti, nel comunismo italiano, il
“nazional-popolare” ha potuto essere interpretato a sinistra (con i
limiti di azione opposti alla lotta di classe che comunque ne
conseguivano) solo perché il Partito comunista non poteva accedere al
potere e fino a quando non si è trasformato in maniera tale da potervi
accedere. Qui, paradossalmente, il concetto di egemonia diviene concetto
di “centralità” politica.
Insomma: figura e funzione dell’egemonia in Laclau ci sembrano
equivoche: piuttosto di analizzare come funziona il capitalismo,
stabiliscono come noi vorremmo che funzionasse una società politica che
non conosce il capitalismo – o lo confondono con una necessità. Credo
che si potrebbe dire la medesima cosa per “popolo”: breccia nel blocco
egemonico che Laclau chiama “significante vuoto”, il popolo rappresenta
l’occupazione da parte di un gruppo capace di determinare una nuova
universalità – ma questo non è del tutto chiaro. Sembra piuttosto che,
da un lato, il popolo sia una deriva provocata dalla lotta di diverse
frazioni e che, dall’altro, finisca per rappresentarsi come una nuova
cristallizzazione di identità politiche.
Ne viene dunque che, nella filosofia di Laclau, il significante vuoto
rappresenta un’astrazione strutturalista che perde di vista un fatto
altrimenti centrale: che cioè il cosiddetto vuoto è prodotto di un
“esodo” e non di una modificazione strutturale (lo nota bene Bruno Cava,
un militante brasiliano che ha ben studiato Laclau). “Se c’è una cosa
oggi del tutto evidente, quando si considerino le attuali forme della
politica, è il distacco del “popolo” dalle funzioni di partecipazione
cui è stato consegnato dal diritto pubblico moderno. Il significante
vuoto si svuota ancora di più, nella situazione attuale – non morde la
moltitudine ma è fagocitato dai poteri forti che non hanno più nulla a
che fare con il popolo, la nazione, e tutte le belle parole della
politica della modernità. Quanto ai movimenti, essi vivono nella
consistenza di una “universalità concreta” che ha la funzione di
suturare e di articolare i significanti: ma la potenza risiede nella
moltitudine, che è concetto di classe”.
Altra conseguenza. È per me chiaro che il pensiero di Laclau si situa
in una sorta di era post-ideologica, dove la lotta di classe cede il
suo luogo centrale a diverse e molteplici identità (che lo possono
investire secondo varie declinazioni). Ma mi sembra che questo pensiero
non possa portare a nulla di preciso, meglio, che esso conduca a un
esito nullo quando lo si faccia agire nel contesto delle coordinate alle
quali abbiamo fatto sopra riferimento: un asse d’ascisse
egemonia/società e un asse di ordinate destra/sinistra. Questa mutazione
che de-ontologizza i soggetti, in questo sistema di coordinate,
potrebbe benissimo reggersi su singolarità che collaborano in maniera
trasversale e costruire così, su un piano macchinico (per dirla con
Deleuze-Guattari), delle macchine da guerra sociali variegate. “Macchine
da guerra” che non sarebbero in nessun caso effetti dell’urgenza di
consolidare i contorni di un’“egemonia” o di una “nazione”. La mutazione
può dunque rappresentarsi qui come un’illusione. Dobbiamo di nuovo
chiederci se il “significante vuoto”, sottoposto a queste tensioni,
oltre ad esser ridotto ad una figura “centrista” dell’organizzazione del
potere, non subisca un’altra deriva: quella di immobilizzare il
processo politico perché il suo dinamismo, spostato verso il centro, è
ormai incapace di produrre potenza. La sintesi trascendentale, in questo
caso, è completamente privata di movimento.
Eccoci così giunti ad un ultimo punto cruciale: la concretizzazione storicamente determinata della forma trascendentale.
Il significante vuoto opera sul terreno nazionale. Per Laclau, non
può esser accettato un discorso cosmopolitico, neppure come orizzonte.
Il potere ha bisogno, per potere avere una reale consistenza, dopo aver
eliminato ogni altro punto fermo, dell’identità nazionale. Anche nella
globalizzazione, quando il potere dello Stato-nazione declina, il
concetto di Stato-nazione non può essere tuttavia abbandonato.
Abbandonarlo non significa solo mettersi su un terreno poco realistico
ma addirittura pericoloso. Senza l’unità nazionale l’espansione
orizzontale della protesta sociale e la verticalità di un rapporto al
sistema politico sarebbero impossibili. E, insiste Laclau, l’esperienza
dell’America Latina negli anni ’90-2000 dimostra ampiamente questa
condizione.
Al contrario, sembra a noi che il movimento progressista che ha
scosso l’America Latina nel ventennio a cavallo dei due secoli sia stato
fortemente impegnato nel superamento, “verso l’esterno”, di un ambito
nazionale sul quale, uno ad uno, i singoli Stati erano stati piegati
sotto il dominio nordamericano e dalle sue valenze imperialiste; “verso
l’interno” dell’America Latina, allo stesso modo l’orizzontalità dei
movimenti si è provata su larga scala, talvolta anticipando, altre volte
seguendo un nuovo spirito continentale che ha animato taluni governi
popolari ed ha loro permesso di superare ogni sciovinismo – reazionario
nella tradizione latino-americana come in quella europea. Ma il
nazionalismo di Laclau, bisogna pur riconoscerlo, non riesce ad
assopirsi. Risale all’inizio del suo lavoro. In Politics and Ideology in Marxist Theory
del 1977, contro Althusser, già egli sostiene che la classe operaia ha
una irriducibile specificità nazionale. Ed esalta l’esperienza del
peronismo che “ha avuto un innegabile successo nel costituire un
linguaggio democratico-popolare unificato a livello nazionale”.
Non bastasse, proprio con questa opzione nazionalista, secondo Stuart
Hall la posizione discorsiva di Laclau corre di nuovo il rischio di
perdere ogni riferimento alla pratica materiale ed alle condizioni
storiche della lotta di classe: esse sono per così dire neutralizzate
nella loro potenza dal riferimento al contesto nazionale. Non si può
considerare la società come un campo discorsivo totalmente aperto e su
questo fissare l’egemonia politica in un orizzonte nazional-popolare:
questa operazione non può che produrre un assalto a Fort Apache da parte
delle altre forze sociali in gioco – come d’altra parte fu in
Argentina. Conseguenza: lo schema laclauiano mostra anche qui di potersi
reggere solo come figura “centrista” di governo. Essa non può fare a
meno di offrirsi – come di fatto avviene – ad un positivismo della
sovranità esercitato da un’autorità centralmente efficace. È ancora una
trascendenza formale quella che, in effetti, materialmente pone il
potere e lo giustifica.
Si potrà tuttavia notare che man mano, nell’ultimo Laclau, la
trascendenza del comando cesserà di rappresentarsi in termini
rigidamente nazionali e nel nome di un centralismo statale troppo
ingombrante. Si intravede qui persino un certo allontanamento da quella
concezione originariamente hobbesiana che vedeva il potere formare il
popolo. E tuttavia subito sorge un paradosso: se infatti la
trascendenza del comando, la tentazione hobbesiana si attenua – perché
esisteranno sempre, nella contemporaneità, irregolarità crescenti del
potere nelle relazioni sociali –, pure questa “impossibile trascendenza”
di nuovo si concretizza nell’opera di Laclau, non cercata ma trovata,
non costruita ma imposta dalla meccanica stessa del trascendentalismo.
In luogo della sintesi della moltitudine, l’approccio trascendentale
vedrà sempre più compattarsi, nell’emergenza del “popolo”, un
significante “pieno” – a fondare il politico. Passaggio dal criticismo
ad una concezione decisamente consegnata all’idealismo oggettivo?
Quel che si può concludere è che, se Laclau mostra in maniera
brillante che il popolo non è una formazione spontanea o naturale ma è
costituito da meccanismi rappresentativi che traducono la pluralità e
l’eterogeneità delle singolarità in unità; e se questa unità, tramite
l’identificazione con un leader, un gruppo dominante e in certi casi con
un ideale, diviene realtà, questa visione sembra malgrado tutto
tributaria di un’idea “aristocratica”, piuttosto che democratica, che
ripete le declinazioni più profonde e continue della storia moderna
dello Stato. Forse qui c’è davvero la conferma di un passaggio dal
criticismo all’idealismo oggettivo. La centralità, per Laclau, della
funzione degli intellettuali e della comunicazione nell’organizzazione
politica è significativa di questa deviazione. Qui è completamente
superato il gramsciano concetto di “intellettuale organico” mentre si
assume la funzione autonoma dell’intellettuale come forza ausiliare
nella costruzione dell’egemonia – o della leadership? È esattamente
quello che Laclau ha rifiutato di fare in tutta la sua vita di militante
democratico e socialista – gliene va dato caloroso riconoscimento. E
allora perché quest’unità dell’“autonomia del politico” e della
leadership intellettuale?
Per concludere. Questo mio corpo a corpo con il pensiero di Laclau si
è spesso ripetuto negli ultimi vent’anni. Lo dico francamente, come a
lui lo dissi direttamente: credo che il suo pensiero, la sua stessa
concezione del populismo, siano il prodotto di una riflessione, più che
sul potere, sul concetto di transizione, e del potere nella transizione
fra epoche diverse della sua organizzazione. Il populismo di Laclau è
l’invenzione di una forma mobile di mediazione, della e nella
transizione dei regimi politici – soprattutto, ma non solo, di quelli
sudamericani. Una forma che io continuo a considerare debole, non
concettualmente ma per la realtà che registra, perché quel “vuoto” che
essa assume come problema, spesso non è un vuoto da riempire ma un
baratro nel quale si rischia di precipitare. E questa debolezza è
accentuata in Laclau dal fatto che, rifiutando di aprirsi ad
un’inchiesta ontologica e quindi di dar senso all’emergenza del nuovo, e
pur ammettendo che la governance di una transizione non possa
che essere costituente, questa costituenza incerta finisce
paradossalmente per ripetere modelli della modernità. In particolare,
rifiuta ogni tensione emancipatrice. Accettando di porsi dentro la
tensione fra spontaneità e organizzazione ma cancellando le dimensioni
materiali della lotta di classe, Laclau finisce col riprendere alcuni
aspetti assai problematici del diritto pubblico europeo. Per esempio:
aggredendo da par suo il tema dei movimenti sociali, Carl Schmitt ne
definisce la figura attraverso il riconoscimento che essi costituiscano
la trama della composizione popolare dello Stato – riconoscimento dall’alto verso il basso
che politicizza la società al fine della costruzione di un’identità
nazionale. Oppure, per altro verso, la definizione schmittiana del luogo
della rappresentanza politica come “presenza di un’assenza”, assenza da
riempire se si vuole che lo Stato esista, presenza da svuotare se si
vuole che lo Stato sia sopra le parti, super partes. Fino a che
punto il “significante vuoto” ripete il modello schmittiano di
rappresentanza? Ma queste che sottolineiamo sono interferenze improprie –
sicuramente, per Laclau, semplici strumenti recuperabili dall’archivio
del diritto pubblico europeo. Perché – ecco infine la mia opinione –
l’importanza, meglio, la grandezza del pensiero di Laclau non consiste
tanto nel risolvere la questione del significante politico vuoto o, al
contrario (visto da destra), nel rifiuto di affidarsi alla lotta di
classe ed al conflitto sociale per riempirlo. Consiste piuttosto
nell’aver vissuto dall’interno quel problema. Quella cosa fluttuante che
egli scorgeva dinnanzi a sé – quel truc, quel machin –
non era il vecchio modello di Stato – lo Stato moderno – ma una cosa
nuova. C’è una tensione costituente che si stende, agisce, sul terreno
della crisi dello Stato democratico della modernità. Non si tratta di
scoprire quello Stato che abbiamo fin qui subito ma di costruirne un
altro. Inventare un nuovo significante per una transizione radicalmente
democratica. Qui il criticismo si esalta nel suo significato originario –
non come asse di costruzione trascendentale dello Stato ma come
investimento problematico sulla sua crisi.
Mi si lasci, quasi una piccola appendice, qui concludere su alcuni
brutali stravolgimenti dell’insegnamento di Laclau. Quando, ad esempio,
si impone un cappello ai movimenti reali non come se il cappello ma
solo la sua misura facesse problema: come spesso avviene nell’attuale
dibattito spagnolo. O quando, in nome di Laclau, si riprende – per
purificare la sporca vitalità dei movimenti – l’immagine del vecchio
Partito comunista italiano come modello di ascolto e direzione della
parola del popolo – come sempre più spesso avviene oggi un po’ ovunque
nella sinistra europea e sudamericana. E in mille altri casi, anche fra
le storture che gli sono imposte, significanti la straordinaria vitalità
del pensiero di Ernesto.
domenica 13 settembre 2015
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