mercoledì 2 settembre 2015

La sinistra oltre l’euro

Mi trovo in sintonia con i concetti espressi da Casarotto. Personalmente ho indugiato nell'europeismo per molto tempo, prima di accorgermi che è un feticcio che si basa su una specie di sillogismo: il mondo è globalizzato, il capitale è globale, anche i conflitti devono esprimersi in un ambito globale. 
Idea suggestiva e magari anche giusta, ma fallimentare e basata su presupposti metafisici. Sono convinto, per un impeto fideistico, che un mondo globale dove i particolarismi non siano un fattore di interdizione culturale, ma espressione di ricchezza, sarebbe più attraente e forse più in linea con una concezione evolutiva dei sistemi sociali, e sono altresì convinto che con i dovuti correttivi anche l'euro sarebbe compatibile con un'economia su scala europea. Vorrei anche dire che, almeno in teoria, andare verso un' unione dei popoli è meglio che rimanere piantati sullo stato nazione. In teoria. Il fatto è che il realizzarsi delle condizioni di una vera Unione Europea con una moneta comune sostenuta da una vera Banca Centrale, viste le resistenze del mercantilismo tedesco e dei paesi del nord, mi sembra altamente improbabile, e comunque prevederebbe tempi biblici, oltretutto in un panorama funestato dal fuoco di un conflitto insanabile. 
Non considero l'uscita dall'euro e il ripensamento dell'Europa cosa giusta di per sè, non voglio riprodurre un pensiero speculare all'europeismo, sono però convinto che sia un'opzione  irrinunciabile, alla luce dei disastri a cui stiamo assistendo. Disastri reali e certificati.  
Per giunta andare ad un tavolo di trattative dove c'è un'unica opzione in campo, è perlomeno bizzarro.


di Sergio Cesaratto da Micromega
 
Le posizioni che Stefano Fassina ha espresso nelle passate settimane su (a) l’insostenibilità dell’euro a fronte del venir meno delle speranze di un cambiamento delle politiche europee, e (b) il fallimento di una dimensione democratica europea sovranazionale e la necessità di ripristinare una sovranità democratica nazionale, segnano una novità assoluta nel panorama della sinistra italiana. Sinora per ritrovare posizioni simili, la cui elaborazione in questi anni è ascrivibile a una manciata di economisti di sinistra, si doveva andare a cercare nei meandri delle sinistre più estreme, oppure a destra. Esaminiamo i due punti.

L’Europa non cambia
Le radici dell’assenza di speranze di un cambiamento significativo delle politiche europee vanno rintracciate nella costituzione economica tedesca fondata dall’immediato dopoguerra sul neo-mercantilismo. L’asse di questa politica è consistito di politiche distributive e fiscali interne moderate, sì da tenere il tasso di inflazione inferiore quello dei partner/concorrenti, ai quali veniva lasciato il compito di espandere la propria domanda interna seguendo ricette keynesiane. Tutto questo nel quadro di sistemi di cambio fissi che hanno dominato, salvo la parentesi 1971-1978, il secondo dopoguerra, da Bretton Woods, attraverso lo SME, sino all’UME. Questo modello è stato scientemente messo a punto dal ministro delle finanze e poi cancelliere Erhard e dalla Bundesbank (allora Bank deutscher Länder) sin dal 1951. Tale modello ha perfettamente senso dal punto di vista della teoria economica eterodossa secondo cui le esportazioni nette sono un veicolo per realizzare i profitti. In termini semplici, se, da un lato, la moderazione dei salari diretti e indiretti consente il conseguimento di profitti relativamente elevati, dall’altro l’assorbimento domestico del sovrappiù controllato dai capitalisti è insufficiente per la realizzazione dei profitti. La strategia neo-mercantilista prevede di realizzare questi profitti attraverso adeguate esportazioni nette. Questo sono rese possibili dalla strategia sopra illustrata, a cui, naturalmente, si sono aggiunte le tradizionali capacità germaniche di formazione tecnica e innovazione. La società tedesca e i sindacati sono stati tradizionalmente coinvolti in questa strategia che comunque ha pagato in termini di benessere, sicurezza e ordine - i salari reali tedeschi pur costantemente all’inseguimento della crescita della produttività rimangono più alti relativamente al resto dell’Europa, in particolare per il nucleo forte della classe operaia tedesca concentrata nel settore esportatore. La Bundesbank ha svolto il ruolo di “cane da guardia” del modello.

La Germania non desidera dunque mutare tale modello nonostante esso sia tacciabile di manipolazione del cambio reale o di politica del beggar-thy-neighbour e sia fattore destabilizzante per le restanti economie. Le critiche alla Germania, in questi giorni da parte del segretario del Tesoro americano, non sono cosa nuova visto che cominciarono nei primi anni 1950 proseguendo sino alla famosa “teoria delle locomotive” di fine anni 1970.

Sovranità nazionale e conflitto democratico
Quello della sovranità è un punto assai delicato per la sinistra. Essa è infatti stata storicamente combattuta fra l’afflato internazionalista (“il proletariato non ha nazione”) basato sull’idea di una comunanza di fondo degli interessi delle masse popolari persino quando appartengano a paesi con diversi gradi di sviluppo, e l’esperienza storica per cui le masse popolari si sono nei fatti sempre battute per la realizzazione e difesa degli spazi di indipendenza nazionali, sicché esempi storici di “internazionalismo proletario” sembrano nei fatti assenti (se non forse in talune scelte dei paesi del socialismo reale, ma lì il giudizio è complesso). L’assenza totale di una solidarietà socialista e sindacale europea (al di là di proclami retorici, ininfluenti meeting e fantomatici Piani Marshall) ne è l’ulteriore conferma. Alla luce della storia, dunque, lo stato nazionale appare come l’imprescindibile playing field della dialettica democratica, e dunque del conflitto di classe. Questo non ha nulla a che vedere col nazionalismo di destra ed è compatibile con la pacifica e proficua cooperazione politica ed economica internazionale. Né questo ostacola un utile coordinamento internazionale dei movimenti contro questa Europa. Fassina in una lettera al Corriere parla di un “arretramento storico di un sogno”, forse si dovrebbe parlare di superamento di un abbaglio storico e della constatazione, amara forse, che di utopie si vive ma anche si muore.

Il superamento dell’euro non avverrà a freddo
Il superamento dell’euro non avverrà per l’uscita unilaterale e “a freddo” di uno o più paesi. Un superamento dell’euro, se avverrà, sarà il combinato disposto di una serie di eventi che culmineranno nel venir meno dei presupposti politici della moneta unica. Tale combinato disposto contiene una crescente insostenibilità sociale delle politiche di austerità; la palese assenza di prospettive di crescita in particolare in Italia; una risultante crisi di governabilità politica anche con l’emergere di forze anti-euro; una conseguente grave crisi di fiducia dei mercati finanziari. Se e quando questo combinato disposto entrerà in corto circuito, in quel momento la problematica del superamento dell’euro si porrà drammaticamente all’attenzione. In un certo senso più grave la crisi, maggiore sarà la probabilità di una soluzione rapida e consensuale, nel senso che l’ineluttabilità dell’esito toglierà spazio politico a ritorsioni politiche ed economiche internazionali da parte della Germania e suoi alleati.

L’azione politica di una rinnovata sinistra nel nostro paese dovrà accelerare tali processi denunciando l’insostenibilità per il nostro paese di un proseguimento delle attuali politiche europee. Essa dovrà naturalmente anche assumere il compito di prefigurare il durante e il dopo dei possibili drammatici passaggi relativi alla rottura dell’euro. Per questo c’è bisogno di un pensiero forte, l’opposto del mélange di pensiero politico ed economico debole, utopismo europeista e movimentismo che ha contraddistinto le poco convincenti recenti esperienze elettorali a sinistra. Il pericolo maggiore è rimanere stretti fra il localismo movimentista e l’utopismo, lasciando il terreno della sovranità nazionale alla destra. Questo è a mio avviso l’errore maggiore di ciò che si muove alla sinistra del PD. Di qui la novità positiva delle posizioni di Fassina.


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