L'intervento di Stefano Fassina a Parigi, festa dell'Humanitè
da stefanofassina.it
La
bruciante vicenda greca ha un significato politico generale. La mia
sensazione è che siamo qui oggi, a causa della capitolazione del governo
greco nella drammatica notte dello scorso 12 luglio a Bruxelles. Quella
notte, secondo la mia lettura degli eventi, ha segnato un punto di
svolta. Si è trattato di una logica conseguenza: il taboo
dell’irreversibilità dell’euro era stato apertamente violato. Il governo
tedesco aveva messo sul tavolo la proposta di Grexit, leggermente
ammorbidita dall’aggettivo “temporanea”. Non si è trattato solo di una
manovra tattica, ma di un’opzione strategica per affrontare le profonde
lacune e le contraddizioni della “costituzione” dell’Eurozona e
dell’agenda politica: alcuni giorni dopo, la possibilità di abbandonare
la moneta unica è stata presentata in un report del Comitato degli
Esperti Economici, il più importante comitato consultivo del governo
tedesco, come possibilità di risolvere le contraddizioni presenti nei
Trattati: l’impossibilità di un taglio del debito.
Che lezione possiamo trarre dalla vicenda greca? Alexis Tsipras, Syriza e
il popolo greco hanno l’innegabile merito storico di aver strappato il
velo della retorica europeista e dell’obiettività tecnica finalizzata a
mascherare le dinamiche in eurozona. Ora è possibile vedere la politica
di potere ed il conflitto sociale tra l’aristocrazia finanziaria e le
classi medie: la Germania, incapace di essere egemone, domina l’euro
zona e persegue un ordine economico funzionale al proprio interesse
nazionale e a quello della grande finanza.
Ci sono due punti da affrontare qui. Il primo: il mercantilismo
neo-liberista dettato da Berlino e ivi incentrato è insostenibile. La
svalutazione del lavoro in alternativa alla svalutazione della valuta
nazionale, come via principale per aggiustamenti “reali”, comporta una
cronica insufficienza di domanda aggregata, disoccupazione
persistentemente elevata, deflazione e esplosione dei debiti pubblici.
In un tale contesto, al di là dei confini dello stato-nazione dominante,
l’euro porta ad uno svuotamento della democrazia, trasformando la
politica in amministrazione per conto terzi e spettacolo.
Questo è il punto. Non è un punto economico ma politico. Il
significato di democrazia nel XXI secolo. Esiste un conflitto sempre più
evidente tra il rispetto dei Trattati e delle regole fiscali da una
parte e i principi di solidarietà e democrazia iscritti nelle nostre
costituzioni nazionali dall’altra. Fatemi essere estremamente chiaro su
questo: la moneta unica di per se stessa non è la causa della
svalutazione della democrazia ma ne è sicuramente un fattore
peggiorativo. L’euro, secondo l’ingenuo piano progressista, avrebbe
dovuto rappresentare una protezione contro la svalutazione del lavoro e
della democrazia, generata dalla globalizzazione economica SREGOLATA. In
realtà l’euro è stato realizzato come un mezzo per aiutare la grande
impresa ad indebolire i diritti dei lavoratori e a debilitare le
istituzioni dello stato sociale. Dobbiamo ammetterlo: l’euro è stato un
errore.
Questa rotta è reversibile? Questo è il secondo punto. È difficile
rispondere “si”. Sfortunatamente, le necessarie correzioni per rendere
l’euro sostenibile appaiono non percorribili per ragioni culturali,
storiche e politiche. La strada per completare l’unione politica al fine
di “democratizzare” la moneta comune richiede molto più di
un’operazione di ingegneria istituzionale calata dall’alto. Richiede un
livello di solidarietà economica tra i popoli europei che al momento
manca. Le opinioni pubbliche nazionali hanno punti di vista divergenti e
posizioni conflittuali, rese ancora più distanti dall’agenda dominante
in eurozona dopo il 2008.
Inoltre, dati gli attuali squilibri di potere tra Stati membri, tra
debitori e creditori, il proseguire lungo la rotta di una maggiore
integrazione politica è molto probabile che si risolverà in un
consolidamento delle attuali asimmetrie.
I primi due punti dell’analisi portano ad una verità sconfortante:
dobbiamo essere consapevoli che l’euro è stato un errore di prospettiva
politica. Dobbiamo ammettere che nella gabbia neo-liberista dell’euro,
la sinistra perde la propria funzione storica ed è morta come forza
impegnata a dare dignità e rilevanza politica al lavoro e ad perseguire
l’affermazione della cittadinanza sociale quale veicolo di democrazia
effettiva. L’ irrilevanza o la connivenza dei partiti della famiglia
socialista europea è manifesta. Senza il nostro Piano B, continuare ad
invocare, come si sta facendo, gli “Stati Uniti d’Europa” o una
“riscrittura pro-lavoro” dei Trattati è un esercizio virtuale che porta a
una continua perdita di credibilità politica.
Cosa dovrebbe essere fatto? Siamo ad un crocevia della storia. Da una
parte, il sentiero della continuità legata all’euro, che è accettazione
della fine della democrazia delle classi medie e dello stato sociale:
un equilibrio precario di sotto-occupazione e rabbia sociale, minacciato
da alti rischi di rotture nazionalistiche e xenofobe. Dall’altra, una
decisione condivisa, senza atti unilaterali, del nostro Piano B per
superare la moneta unica ed il connesso quadro istituzionale, e
soprattutto per aggiustare la accountability democratica della politica
monetaria: una soluzione reciprocamente benefica, nonostante il percorso
difficile ed incerto e il rischio di conseguenze pesanti almeno nel
periodo iniziale.
La strada della continuità è l’opzione esplicita delle “grand
coalition” a trazione conservatrice e esecutivi “socialisti” (in Francia
ed Italia per esempio). La strada della discontinuità può essere
l’unica per tentare di salvare l’unione europea, rivitalizzare le
democrazie delle classi medie e invertire il trend della svalutazione
del lavoro. Per rendere il Piano B un’opzione possibile ed un effettivo
asset negoziale, dobbiamo costruire un’ampia alleanza delle forze
progressiste in euro zona e in UE. Il tempo a disposizione è sempre di
meno.
—- O – O —-
The burning Greek tale has a general political value. My feeling is
that we are here today because of the capitulation of the Greek
Government in Brussels in the dramatic night of the Euro Summit held on
July 12th. That night marked, according to my reading of the event, a
turning point. It was a very consequential night: the taboo of the
irreversibility of the euro was openly violeted. The German government
tabled the proposal of Grexit, sligthly softened with the adjective
“temporary”. The proposal was not only a tactical manouvre. It was the
declaration of a strategic option to address the deep deficiencies and
contradiction of the eurozone’s “constituion” and policy agenda: few
days later, the possibility of exiting the single currency was presented
in the Report of the Council of Economic Experts, the high level
advisory body to the German government, as a way to solve the
contraddictions in the Treaties: the impossibility of debt haircut.
What lessons can we learn from the course of Greece? Alexis Tsipras,
Syriza and the Greek people have the undeniable historical merit of
having ripped away the veil of Europeanist rhetoric and technical
objectivity aimed at covering up the dynamics in the eurozone. We now
see the power politics and the social conflict between the financial
aristocracy and the middle classes: Germany, incapable of hegemony,
dominates the eurozone and pursues an economic order that is functional
to its national interest and to those of big finance.
There are two points to be faced here. The first: neo-liberal
mercantilism dictated by and centred on Berlin is unsustainable. The
devaluation of labour, in alternative to national currency devaluation,
as the main route to “real” adjustments results in a chronic
insufficiency of aggregate demand, persistently high unemployment,
deflation, and burgeoning public debt. In such a framework, beyond the
borders of the dominant nation-state, the euro leads to a hollowing out
of democracy, turning politics into administration on behalf of third
parties and entertainment.
Here is the point. It’s not an economic point. It’s a political
point. The meaning of democracy in the XXI century. There is a conflict,
which is more and more evident, between compliance with the Treaties
and the balance rules on one side and the solidarity and democracy
principles engraved in our national constitutions on the other. Let me
be crystal clear here: the single currency in itself is not the cause of
the devaluation of democracy but it’s certainly a worseing factor. The
euro, according to the naive progressive plan, should have been a
protection against devaluation of labour and of democracy, generated by
unfettered economic globalization. It actually has been implemented as a
way to help big business to dampen workers’ rights and debilitate the
welfare institutions. We should admit: the euro was a mistake.
Is this route reversible? This is the second point. It’s hard to
answer “yes”. Unfortunately, the necessary corrections to make the euro
sustainable appear to be unfeasible for cultural, historical and
political reasons. The road of completing the political union to
“democratize” the common currency requires much more than top-down
institutional engineering. It requires a degree of economic solidarity
among European peoples that is lacking at the moment. National public
opinions have opposing views and confliting positions, made even more
distant by the agenda dominating in the eurozone after 2008. Moreover,
given the current imbalances of power among countries, among debtors and
creditors, proceeding along the route of more political integration is
very likely to result into a consolidation of the current asymmetries.
The first two points of analysis lead to a unconfortable truth: We
need to acknowledge that the euro was a mistake of political
perspective. We need to admit that in the neo-liberal cage of the euro,
the left loses its historical function and is dead as a force committed
to the dignity and political relevance of labour and to social
citizenship as a vehicle of effective democracy. The irrelevance or the
connivance of the parties of the European socialist family are manifest.
Without our Plan B, continuing to invoke, as they do, the “United
States of Europe” or a “pro-labour rewrite” of the Treaties is a virtual
exercise leading to a continuing loss of political credibility.
What should be done? We are at a crossroads of history. On one hand,
the path of continuity bound to the euro, that is, acceptance of the end
of middle-class democracy and welfare States: a precarious balance of
underemployment and social anger, threatened by very high risks of
nationalistic and xenophobic rupture. On the other, a shared decision,
without unilateral acts, for our Plan B to move beyond the single
currency and the connected institutional framework, above all to fix the
democratic accountability of monetary policy: a mutual beneficial
solution, despite a difficult, uncertain path, with painful consequences
at least in the initial period.
The road of continuity is the explicit option of the “grand”
conservative-led coalitions and “socialist” executives (in France and
Italy for instance). The road of discontinuity may be the only one for
attempting to save the European Union, revitalize the middle-class
democracies and reverse the trend of the devaluation of labour. For
making a progressive Plan B a possibile option and an effective
negotiating asset, we must build a broad allance of progressive forces
in the eurozone and Eu. The time available is increasingly short.
domenica 13 settembre 2015
Per un Piano B possibile serve un’ampia alleanza di forze progressiste in UE. Stefano Fassina
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