domenica 13 settembre 2015

Per un Piano B possibile serve un’ampia alleanza di forze progressiste in UE. Stefano Fassina

L'intervento di Stefano Fassina a Parigi, festa dell'Humanitè
 
da stefanofassina.it


La bruciante vicenda greca ha un significato politico generale. La mia sensazione è che siamo qui oggi, a causa della capitolazione del governo greco nella drammatica notte dello scorso 12 luglio a Bruxelles. Quella notte, secondo la mia lettura degli eventi, ha segnato un punto di svolta. Si è trattato di una logica conseguenza: il taboo dell’irreversibilità dell’euro era stato apertamente violato. Il governo tedesco aveva messo sul tavolo la proposta di Grexit, leggermente ammorbidita dall’aggettivo “temporanea”. Non si è trattato solo di una manovra tattica, ma di un’opzione strategica per affrontare le profonde lacune e le contraddizioni della “costituzione” dell’Eurozona e dell’agenda politica: alcuni giorni dopo, la possibilità di abbandonare la moneta unica è stata presentata in un report del Comitato degli Esperti Economici, il più importante comitato consultivo del governo tedesco, come possibilità di risolvere le contraddizioni presenti nei Trattati: l’impossibilità di un taglio del debito.
Che lezione possiamo trarre dalla vicenda greca? Alexis Tsipras, Syriza e il popolo greco hanno l’innegabile merito storico di aver strappato il velo della retorica europeista e dell’obiettività tecnica finalizzata a mascherare le dinamiche in eurozona. Ora è possibile vedere la politica di potere ed il conflitto sociale tra l’aristocrazia finanziaria e le classi medie: la Germania, incapace di essere egemone, domina l’euro zona e persegue un ordine economico funzionale al proprio interesse nazionale e a quello della grande finanza.

Ci sono due punti da affrontare qui. Il primo: il mercantilismo neo-liberista dettato da Berlino e ivi incentrato è insostenibile. La svalutazione del lavoro in alternativa alla svalutazione della valuta nazionale, come via principale per aggiustamenti “reali”, comporta una cronica insufficienza di domanda aggregata, disoccupazione persistentemente elevata, deflazione e esplosione dei debiti pubblici. In un tale contesto, al di là dei confini dello stato-nazione dominante, l’euro porta ad uno svuotamento della democrazia, trasformando la politica in amministrazione per conto terzi e spettacolo.
Questo è il punto. Non è un punto economico ma politico. Il significato di democrazia nel XXI secolo. Esiste un conflitto sempre più evidente tra il rispetto dei Trattati e delle regole fiscali da una parte e i principi di solidarietà e democrazia iscritti nelle nostre costituzioni nazionali dall’altra. Fatemi essere estremamente chiaro su questo: la moneta unica di per se stessa non è la causa della svalutazione della democrazia ma ne è sicuramente un fattore peggiorativo. L’euro, secondo l’ingenuo piano progressista, avrebbe dovuto rappresentare una protezione contro la svalutazione del lavoro e della democrazia, generata dalla globalizzazione economica SREGOLATA. In realtà l’euro è stato realizzato come un mezzo per aiutare la grande impresa ad indebolire i diritti dei lavoratori e a debilitare le istituzioni dello stato sociale. Dobbiamo ammetterlo: l’euro è stato un errore.
Questa rotta è reversibile? Questo è il secondo punto. È difficile rispondere “si”. Sfortunatamente,  le necessarie correzioni per rendere l’euro sostenibile appaiono non percorribili per ragioni culturali, storiche e politiche. La strada per completare l’unione politica al fine di “democratizzare” la moneta comune richiede molto più di un’operazione di ingegneria istituzionale calata dall’alto. Richiede un livello di solidarietà economica tra i popoli europei che al momento manca. Le opinioni pubbliche nazionali hanno punti di vista divergenti e posizioni conflittuali, rese ancora più distanti dall’agenda dominante in eurozona dopo il 2008.
Inoltre, dati gli attuali squilibri di potere tra Stati membri, tra debitori e creditori, il proseguire lungo la rotta di una maggiore integrazione politica è molto probabile che si risolverà in un consolidamento delle attuali asimmetrie.

I primi due punti dell’analisi portano ad una verità sconfortante: dobbiamo essere consapevoli che l’euro è stato un errore di prospettiva politica. Dobbiamo ammettere che nella gabbia neo-liberista dell’euro, la sinistra perde la propria funzione storica ed è morta come forza impegnata a dare dignità e rilevanza politica al lavoro e ad perseguire l’affermazione della cittadinanza sociale quale veicolo di democrazia effettiva. L’ irrilevanza o la connivenza dei partiti della famiglia socialista europea è manifesta. Senza il nostro Piano B, continuare ad invocare, come si sta facendo, gli “Stati Uniti d’Europa” o una “riscrittura pro-lavoro” dei Trattati è un esercizio virtuale che porta a una continua perdita di credibilità politica.
Cosa dovrebbe essere fatto? Siamo ad un crocevia della storia. Da una parte, il sentiero della continuità legata all’euro, che è accettazione della fine della democrazia delle classi medie e dello stato sociale: un equilibrio precario di sotto-occupazione e rabbia sociale, minacciato da alti rischi di rotture nazionalistiche e xenofobe. Dall’altra, una decisione condivisa, senza atti unilaterali, del nostro Piano B per superare la moneta unica ed il connesso quadro istituzionale, e soprattutto per aggiustare la accountability democratica della politica monetaria: una soluzione reciprocamente benefica, nonostante il percorso difficile ed incerto e il rischio di conseguenze pesanti almeno nel periodo iniziale.
La strada della continuità è l’opzione esplicita delle “grand coalition” a trazione conservatrice e esecutivi “socialisti” (in Francia ed Italia per esempio). La strada della discontinuità può essere l’unica per tentare di salvare l’unione europea, rivitalizzare le democrazie delle classi medie e invertire il trend della svalutazione del lavoro. Per rendere il Piano B un’opzione possibile ed un effettivo asset negoziale, dobbiamo costruire un’ampia alleanza delle forze progressiste in euro zona e in UE. Il tempo a disposizione è sempre di meno.
—- O – O —-
The burning Greek tale has a general political value. My feeling is that we are here today because of the capitulation of the Greek Government in Brussels in the dramatic night of the Euro Summit held on July 12th. That night marked, according to my reading of the event, a turning point. It was a very consequential night: the taboo of the irreversibility of the euro was openly violeted. The German government tabled the proposal of Grexit, sligthly softened with the adjective “temporary”. The proposal was not only a tactical manouvre. It was the declaration of a strategic option to address the deep deficiencies and contradiction of the eurozone’s “constituion” and policy agenda: few days later, the possibility of exiting the single currency was presented in the Report of the Council of Economic Experts, the high level advisory body to the German government, as a way to solve the contraddictions in the Treaties: the impossibility of debt haircut.
What lessons can we learn from the course of Greece? Alexis Tsipras, Syriza and the Greek people have the undeniable historical merit of having ripped away the veil of Europeanist rhetoric and technical objectivity aimed at covering up the dynamics in the eurozone. We now see the power politics and the social conflict between the financial aristocracy and the middle classes: Germany, incapable of hegemony, dominates the eurozone and pursues an economic order that is functional to its national interest and to those of big finance.
There are two points to be faced here. The first: neo-liberal mercantilism dictated by and centred on Berlin is unsustainable. The devaluation of labour, in alternative to national currency devaluation, as the main route to “real” adjustments results in a chronic insufficiency of aggregate demand, persistently high unemployment, deflation, and burgeoning public debt. In such a framework, beyond the borders of the dominant nation-state, the euro leads to a hollowing out of democracy, turning politics into administration on behalf of third parties and entertainment.
Here is the point. It’s not an economic point. It’s a political point. The meaning of democracy in the XXI century. There is a conflict, which is more and more evident, between compliance with the Treaties and the balance rules on one side and the solidarity and democracy principles engraved in our national constitutions on the other. Let me be crystal clear here: the single currency in itself is not the cause of the devaluation of democracy but it’s certainly a worseing factor. The euro, according to the naive progressive plan, should have been a protection against devaluation of labour and of democracy, generated by unfettered economic globalization. It actually has been implemented as a way to help big business to dampen workers’ rights and debilitate the welfare institutions. We should admit: the euro was a mistake.
Is this route reversible? This is the second point. It’s hard to answer “yes”. Unfortunately, the necessary corrections to make the euro sustainable appear to be unfeasible for cultural, historical and political reasons. The road of completing the political union to “democratize” the common currency requires much more than top-down institutional engineering. It requires a degree of economic solidarity among European peoples that is lacking at the moment. National public opinions have opposing views and confliting positions, made even more distant by the agenda dominating in the eurozone after 2008. Moreover, given the current imbalances of power among countries, among debtors and creditors, proceeding along the route of more political integration is very likely to result into a consolidation of the current asymmetries.
The first two points of analysis lead to a unconfortable truth: We need to acknowledge that the euro was a mistake of political perspective. We need to admit that in the neo-liberal cage of the euro, the left loses its historical function and is dead as a force committed to the dignity and political relevance of labour and to social citizenship as a vehicle of effective democracy. The irrelevance or the connivance of the parties of the European socialist family are manifest. Without our Plan B, continuing to invoke, as they do, the “United States of Europe” or a “pro-labour rewrite” of the Treaties is a virtual exercise leading to a continuing loss of political credibility.
What should be done? We are at a crossroads of history. On one hand, the path of continuity bound to the euro, that is, acceptance of the end of middle-class democracy and welfare States: a precarious balance of underemployment and social anger, threatened by very high risks of nationalistic and xenophobic rupture. On the other, a shared decision, without unilateral acts, for our Plan B to move beyond the single currency and the connected institutional framework, above all to fix the democratic accountability of monetary policy: a mutual beneficial solution, despite a difficult, uncertain path, with painful consequences at least in the initial period.
The road of continuity is the explicit option of the “grand” conservative-led coalitions and “socialist” executives (in France and Italy for instance). The road of discontinuity may be the only one for attempting to save the European Union, revitalize the middle-class democracies and reverse the trend of the devaluation of labour. For making a progressive Plan B a possibile option and an effective negotiating asset, we must build a broad allance of progressive forces in the eurozone and Eu. The time available is increasingly short.

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