da sinistrainrete.info
A. Lo Fiego intervista Emiliano Brancaccio
Mentre il governo minimizza e ci racconta che il peggio è
passato, ci avviciniamo ad un autunno di licenziamenti, chiusure di siti
produttivi, crollo del reddito operaio, aumento vertiginoso della
disoccupazione. Quale scenario economico e sociale si sta delineando?
Nel
prossimo futuro potremo anche registrare qualche euforico sussulto dei
prezzi di borsa, e magari anche della produzione. Ma al di là degli
scossoni temporanei, c’è motivo di ritenere che la crescita futura della
produzione e del reddito sarà in generale più lenta e più fiacca che in
passato. Il tracollo della finanza americana rappresenta infatti un
dato strutturale, di portata storica, e quindi difficilmente gli Stati
Uniti potranno nuovamente proporsi come locomotiva globale, come “spugna
assorbente” delle eccedenze produttive degli altri paesi. Il problema è
che al momento non sembra sussistere nel mondo un credibile
sostituto
della “spugna” americana. La situazione per certi versi somiglia al
periodo tra le due guerre mondiali, quando la Gran Bretagna venne
spodestata dal ruolo di leader monetario del mondo e gli Stati Uniti
erano ancora riluttanti a sostituirla. Oggi come allora l’assenza di una
leadership monetaria rappresenta un rebus di difficile soluzione, uno
dei tipici problemi di coordinamento di fronte ai quali il meccanismo
della riproduzione capitalistica entra in crisi. Ciò significa che
probabilmente andiamo incontro a una fase caratterizzata da una domanda
globale debole, e quindi da una crescita della produzione troppo bassa
per indurre le imprese a riassumere i lavoratori licenziati a seguito
della recessione. Inoltre, quando la crescita della domanda e della
produzione risulta debole, è facile che si verifichi anche
disoccupazione tecnologica: cioè aumenta la probabilità che i lavoratori
licenziati a causa di mutamenti tecnici e organizzativi non vengano più
riassorbiti dal sistema. Per questi motivi, in media e soprattutto nei
paesi occidentali potremmo trovarci di fronte ad un periodo non breve di
aumento della disoccupazione.
Quali potrebbero essere gli sbocchi politici immediati dell’attuale recessione?
Non
mi sembra realistico scommettere sulla possibilità che le grandi
potenze economiche si siedano presto attorno a un tavolo per costruire
assieme una nuova “spugna” del mondo, in grado di sostituire quella
americana. Ritengo più probabile che per un po’ di tempo ogni paese
cercherà una soluzione “interna” al problema della caduta del commercio
mondiale. A questo proposito, finora ha prevalso una strategia più o
meno surrettizia di “salto al collo del vicino”. Molti paesi cioè hanno
praticato politiche di ulteriore contenimento dei salari e di aumento
dei sussidi alle imprese, allo scopo di rendere più competitive le
produzioni nazionali e magari di conquistare quote di mercato altrui.
Questo tipo di comportamento, coordinato e conflittuale, può anche dare
i suoi frutti nel breve periodo, ma a lungo andare non fa altro che
aggravare la crisi globale. Alcuni paesi potrebbero allora tentare di
sganciarsi da questa spirale recessiva mondiale per puntare su uno
sviluppo più autonomo, maggiormente fondato sulla domanda interna, e
quindi meno dipendente dalle esportazioni.
I paesi che sceglieranno di puntare sulla domanda interna diventeranno protezionisti?
E’
ovvio che se un paese decide di espandere la domanda interna dovrà poi
introdurre degli accorgimenti per far sì che la maggior parte di quella
espansione si rivolga alla produzione nazionale, anziché a quella
estera. Nel mondo qualche segnale in tal senso già ce l’abbiamo.
Ma
noi come dovremmo giudicare questa tendenza? In polemica con te, Marco
Revelli ha sostenuto che il protezionismo potrebbe rivelarsi
l’anticamera per nuove tentazioni nazionaliste e guerrafondaie…
Non
è il solo. Su Liberazione o sul manifesto capita spesso di trovare
“protezionismo” e “fascismo” appaiati, quasi che fossero la stessa cosa.
Ma queste sono banalizzazioni pericolose. Trovo che a sinistra sia
alquanto diffuso un tremendo equivoco attorno al dilemma tra apertura
globale e protezionismo. Probabilmente le incomprensioni nascono dal
fatto che molti intellettuali commettono l’errore di considerare
l’attuale internazionalismo del capitale come una sorta di erede moderno
del vecchio internazionalismo del movimento operaio. Ma la realtà è che
si tratta di fenomeni in totale contrasto tra loro. L’internazionalismo
del capitale sta ad indicare il grande processo di globalizzazione al
quale abbiamo assistito nell’ultimo trentennio, che è consistito nella
crescente apertura dei mercati ai movimenti internazionali di capitali,
di merci e in parte anche di lavoratori. L’internazionalismo operaio
promuoveva invece la solidarietà e la fratellanza tra i lavoratori dei
diversi paesi, e quindi si basava principalmente sul ripudio della
guerra, economica e soprattutto militare. E’ chiaro che siamo di fronte a
concetti antagonistici: l’internazionalismo del capitale infatti
inasprisce la competizione tra i lavoratori dei vari paesi, e quindi può
facilmente compromettere la solidarietà tra di essi. Lo stesso Marx,
che protezionista non era, ironizzò sulle tesi di chi confondeva libero
scambio, pace e fraternità sostenendo che «chiamare fraternità
universale lo sfruttamento a livello cosmopolitico è un’idea che avrebbe
potuto nascere solo nella mente della borghesia». Trovo quindi errato
l’atteggiamento di chi a sinistra difende più o meno consciamente questo
tipo di internazionalismo, e magari si esprime contro l’eventualità che
si vada verso una fase di minore apertura dei mercati.
Stai
dicendo che l’eventuale avvio di una fase protezionista potrebbe
rappresentare una occasione politica per il movimento dei lavoratori?
Non
voglio dire che i lavoratori dovrebbero considerare il protezionismo
come una infallibile soluzione per i loro mali. Alla luce della
esperienza novecentesca sappiamo che una relativa chiusura del mercato
interno può esser declinata in vari modi, non tutti necessariamente
auspicabili: in alcuni casi può rientrare tra le strategie di
aggressione intercapitalistiche che sono tipiche dei tempi di crisi, e
può quindi essere accompagnata da una ulteriore azione repressiva sul
lavoro; in altri casi può invece ridurre il peso del cosiddetto “vincolo
esterno”, e può dunque favorire lo sviluppo delle rivendicazioni
sociali. In effetti abbiamo evidenze storiche dell’uno e dell’altro
segno. E’ chiaro però che se a sinistra persiste una lettura ingenua
della questione dell’apertura o meno dei mercati, difficilmente una
eventuale fase di “de-globalizzazione” potrà essere sfruttata a
vantaggio degli interessi del lavoro. Sotto questo aspetto l’analisi di
Revelli, e di molti altri, mi sembra idealistica, e quindi non in grado
di riconoscere i diversi possibili esiti della torsione storica in atto.
In
Italia un vero dibattito su questi temi, e più in generale
sull’indirizzo di politica economica del paese, stenta ad affiorare.
L’attenzione sembra più che altro rivolta ai costumi sessuali del
premier, e magari lo si lascia indisturbato a smantellare il settore
pubblico e a smontare pezzo per pezzo la Costituzione. Quanto è concreto
secondo te in questo momento, in Italia, il pericolo di una deriva
“post”- democratica?
Con il prolungarsi della crisi e con
l’aumento conseguente delle tensioni sociali, è possibile che questo
governo sia tentato da soluzioni drastiche sul piano istituzionale ed
economico, e da un impiego non estemporaneo ma strategico degli
strumenti di repressione di cui dispone. Ma la forza di Berlusconi e
della sua alleanza non deriva dal suo potenziale anti-democratico (o
post-democratico, che dir si voglia). A mio avviso l’attuale destra di
governo trae linfa e consensi dalla sua eccezionale capacità di
alimentare una continua guerra tra le diverse ategorie di lavoratori:
privati contro pubblici, precari contro stabili, autonomi contro
dipendenti, giovani contro anziani, settentrionali contro meridionali,
nativi contro immigrati. E’ contro questa tendenza a dividere i
lavoratori che bisognerebbe concentrare gli sforzi dell’opposizione. Non
mi persuade invece l’idea di contrastare l’esecutivo definendolo
semplicemente “nemico” della Costituzione e della democrazia. Dovremmo
infatti ricordare che l’attacco alla Costituzione e il restringimento
degli spazi di esercizio democratico non nascono certo in questa
legislatura. La nostra Carta costituzionale è materialmente
incompatibile con gli indirizzi di politica economica e istituzionale di
tutti i governi che si sono succeduti da almeno un quindicennio a
questa parte. La piena apertura dei mercati e la completa
liberalizzazione dei movimenti di capitale, il Trattato di Maastricht,
lo smantellamento progressivo dei diritti del lavoro, sono tutti
provvedimenti che hanno agito in simbiosi con le controriforme
elettorali e con il depotenziamento delle aule parlamentari, e hanno
quindi allargato lo squarcio tra la Costituzione formale e la sua
attuazione materiale. Pertanto, a chi nell’opposizione sembra propenso a
invocare genericamente la difesa della Costituzione repubblicana e ad
agitare l’ennesima, consunta bandiera dell’anti berlusconismo, dovremmo
chiedere se piuttosto sia disponibile a costruire una opposizione
fondata su concrete proposte di riunificazione del lavoro. Perché è sul
bivio tra divisione e coesione dei lavoratori che oggi più che mai si
gioca la costruzione di un blocco sociale vincente.
Sotto quali condizioni a tuo avviso si potrebbe tornare a scommettere su una rinnovata coesione tra i lavoratori?
Il
problema è che in questi anni - anche a causa di scelte nefande da
parte delle sinistre al governo - i divari tra le diverse categorie di
lavoratori sono effettivamente cresciuti, sia sul versante dei redditi
che su quello più generale delle condizioni di lavoro e di vita. Oggi
più che in passato sussistono grandi differenze tra i livelli di vita di
un dipendente pubblico stabilizzato, di un precario del settore privato
e di un immigrato clandestino che lavori sotto la minaccia
dell’espulsione. Parlare quindi frettolosamente di “classe”, come se
fosse un mantra, una parola taumaturgica, rischia di produrre un effetto
di ripulsa, opposto a quello desiderato. Il paradigma marxiano delle
“classi sociali” resta a mio avviso analiticamente superiore al
paradigma dell’individualismo metodologico, e quindi può tuttora
considerarsi fecondo anche sul piano politico. Ma sarebbe sbagliato
adoperare la parola “classe” per fini agitatori senza una profonda
spiegazione preliminare del suo significato. Per esempio, all’universo
frammentato dei lavoratori bisognerebbe in primo luogo comunicare che le
sperequazioni tra di essi sono risultate funzionali all’accrescimento
di un’altra sperequazione, molto più grande e decisiva: quella tra i
lavoratori presi nel loro complesso e i percettori diretti o indiretti
di profitti e rendite. Basti pensare agli aumenti di produttività del
lavoro: nell’ultimo trentennio, in quasi tutto il mondo, gli incrementi
del potenziale produttivo dei lavoratori non sono andati a vantaggio dei
dipendenti pubblici, né dei precari, e nemmeno ovviamente degli
immigrati. Praticamente tutta la ricchezza aggiuntiva creata
dall’aumento di produttività del lavoro è stata assorbita dai redditi da
capitale…
…ciò nonostante i lavoratori seguitano
in molti casi a farsi la guerra tra loro. Quali sono le parole d’ordine
attorno alle quali si potrebbe cercare di riunificarli?
Comincerei
col dire che ad ogni slogan che punti a dividere i lavoratori, se ne
dovrebbe contrapporre un altro che miri a compattarli. Prendiamo ad
esempio gli slogan della Lega. Sappiamo che questo partito invoca le
“gabbie salariali” allo scopo di differenziare maggiormente le
retribuzioni tra Nord e Sud, e di rimediare così al fatto che i prezzi
al Nord sono un po’ più alti che nel Mezzogiorno. I leghisti sostengono
quindi che le “gabbie” servono a eliminare una discriminazione che
danneggia i lavoratori settentrionali. Ora, io non sto qui a offermarmi
sulle varie incoerenze della proposta leghista. Mi limito solo a far
presente che i divari di prezzo tra una metropoli e una località di
provincia possono risultare anche più ampi di quelli tra Nord e Sud, per
cui volendo applicare la logica leghista fino in fondo dovremmo
immaginare contrattazioni differenziate pure tra città e paesini, tra
zone ben collegate e zone isolate, e così via, senza più riuscire a
mettere un punto fermo. Ma il punto chiave è che se di discriminazione
vogliamo davvero parlare, allora forse dovremmo partire da fenomeni ben
più macroscopici, come ad esempio quelli creati dalle leggi di
deregolamentazione e di precarizzazione del lavoro che la Lega in questi
anni ha sempre sostenuto e promosso. A causa di questo smantellamento
del diritto del lavoro, oggi possiamo trovarci in una situazione in cui,
per esempio, due lavoratori del Nord lavorano nella stessa azienda, con
le stesse identiche qualifiche e le stesse mansioni, e ciò nonostante
vengono sottoposti a norme diverse, a contratti diversi, a salari
totalmente diversi e persino a padroni diversi. Altro che introduzione
delle “gabbie salariali”, dunque. Qui c’è piuttosto da abbattere la
gabbia della precarizzazione, che scientificamente divide al suo interno
la classe lavoratrice, al Nord come al Sud, e che la Lega ha
contribuito in modo decisivo a edificare.
Oltre alle gabbie salariali la Lega agita pure la bandiera del blocco dell’immigrazione….
Certo,
e in questo caso lo scopo è di trarre alimento dalle divisioni tra
lavoratori nativi e migranti. La Lega trae enormi consensi da questa
strategia. Alcuni ritengono che ciò dipenda da un moto irrazionale
identitario dei nativi contro i migranti, i quali verrebbero concepiti
come un tipico “caprio espiatorio”, un nemico esterno da annientare. Ciò
è senz’altro possibile, ma i dati rivelano che la xenofobia dei
lavoratori nativi scaturisce anche dal pericolo concreto, materiale, che
gli immigrati alimentino una concorrenza ancor più sfrenata sui salari,
sui posti di lavoro, sul welfare e sugli spazi metropolitani. Per
motivi dunque non solo identitari ma anche strettamente materiali la
linea della Lega è finora risultata vincente, e qualcuno a sinistra
sembra essersi rassegnato a subirne la forza dirompente. Al contrario,
io credo che la bandiera del blocco dell’immigrazione possa e debba
essere efficacemente contrastata issando una bandiera alternativa:
quella del blocco dei movimenti di capitale. Bisognerebbe cioè
comunicare ai lavoratori nativi che, invece di far la guerra agli
immigrati, dovrebbero unirsi con essi attorno all’obiettivo di impedire
al capitale di scorazzare liberamente da un capo all’altro del mondo, a
caccia della tassazione più favorevole, dei minimi vincoli ambientali,
dei salari più bassi e delle massime opportunità di sfruttamento del
lavoro. Talvolta cerco di sintetizzare questo ragionamento affermando
che se vogliamo liberare i migranti, allora dobbiamo arrestare i
capitali. Adopero volentieri queste parole d’ordine poiché le considero
non solo efficaci nella lotta politica, ma anche istruttive per la
sinistra. Dobbiamo infatti capire che se vogliamo davvero riunificare i
lavoratori, se per esempio vogliamo costruire un legame sociale tra
lavoratori nativi e immigrati, non possiamo più appellarci al buon cuore
della gente. Dovremmo invece avanzare proposte precise e credibili,
nelle quali gli uni e gli altri possano riconoscersi. Questo è un punto
molto importante, poiché vedo che a sinistra troppe volte si pretende di
affrontare questi problemi sulla base di un umanesimo ingenuo, secondo
cui basterebbe dichiarare che l’altro sono io per stemperare ogni
conflitto. Questo “buonismo” è totalmente inadeguato ai tempi di ferro
che stiamo attraversando, ed è pure sintomo a mio avviso di una diffusa
pigrizia intellettuale e politica.
Mettiamo allora
da parte ogni “buonismo”, e interroghiamoci sulla possibilità concreta
di riunificare i lavoratori attorno alla parola d’ordine del blocco dei
capitali. A questo proposito, non c’è comunque il rischio che il blocco
dei movimenti di capitale danneggi i lavoratori dei paesi meno
sviluppati, che necessitano di risorse finanziarie esterne per uscire
dalla povertà?
No. E’ vero piuttosto il contrario. La
libera circolazione internazionale dei capitali ha scatenato una
competizione senza freni, che aumentando i rischi di attacco speculativo
sulle valute ha drasticamente ridimensionato la sovranità politica dei
singoli paesi - specie se meno sviluppati - e che ha dato avvio a una
lunga e profondissima deflazione salariale mondiale. Da questo vortice
recessivo sono riusciti almeno in parte a sottrarsi solo quei paesi che
hanno mantenuto qualche forma di relativa chiusura dei loro mercati ai
movimenti internazionali di capitale. La Cina è un esempio emblematico,
in questo senso.
A seguito della grande recessione
in corso si è tornati a parlare, anche nei nostri ambienti, di “crisi
finale del capitalismo”. Che ne pensi?
L’idea di una
“crisi finale del capitale” viene solitamente portata avanti dagli eredi
più o meno consapevoli delle correnti bordighiste del marxismo, e in
genere si basa sulla “legge” di caduta tendenziale del saggio di
profitto. La versione marxiana tradizionale di quella legge non
funziona, ma credo sia possibile individuare nuove modalità di riscontro
della medesima. Da un punto di vista politico, tuttavia, il tema della
“crisi finale” è delicato. Quando tra i militanti si discute della legge
di caduta del profitto, noto che si cade facilmente in un clima
“destinale”, che spesso li spinge verso analisi superficiali e
fuorvianti. Ai militanti sedotti da questo tipo di discussioni uso dire
che il Capitale di Marx non è il Vangelo secondo Giovanni, e che le
complicate riflessioni sulla “crisi finale” del capitale sono una cosa
un po’ diversa dalle premonizioni sull’Apocalisse. Credo allora che i
militanti farebbero meglio a porsi interrogativi più immediati, e in un
certo senso più smaliziati. Per esempio, sarebbe ora di analizzare in
profondità il rapporto tra i meccanismi di auto-riproduzione del
capitalismo e degli apparati ideologici che lo sorreggono da un lato, e i
meccanismi di auto-riproduzione dei partiti che si dichiarano
anti-capitalisti dall’altro. Se la sopravvivenza delle strutture di
questi partiti finisce per dipendere in misura decisiva dalla
partecipazione agli organi di governo o di sotto-governo, la definizione
stessa di “anti-capitalisti” rischia di diventare un ossimoro, una vera
e propria contraddizione in termini. E’ chiaro infatti che sotto
condizioni di inesorabile dipendenza “riproduttiva”, la crisi non può
mai logicamente assumere il carattere di “occasione storica”. uesta è
una questione importante, sulla quale bisognerebbe indagare senza
semplificazioni né inutili moralismi, ma anche senza reticenze.
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