dal blog di Gennaro Carotenuto
È tempo di provare un’analisi che vada oltre il mero risultato del
primo turno presidenziale argentino ma che da questo parta. È finito,
anche se vincesse Daniel Scioli, il ciclo kirchnerista che ha
ricostruito il paese dopo il default del 2001, e da tempo, in
particolare con le difficoltà brasiliane e venezuelane degli eredi di
Lula e Chávez, sembra giunto alla fine il ciclo storico progressista e
integrazionista dell’America latina post-neoliberale. Partiamo
brevemente dall’oggi, dalla foto di famiglia con il borghese Scioli in
cravatta e il suo candidato proletario alla vicepresidenza Zannini, per
allargare il discorso.
Dunque per la prima volta nella storia argentina ci sarà un ballottaggio.
Questo partirà da un pareggio tecnico tra il candidato appoggiato dalla
maggioranza, Daniel Scioli e quello della destra neoliberale Mauricio
Macri (accentato sulla ‘a’, non sulla ‘i’, Màcri). I sondaggi, ai quali
per una volta sarebbe ingiusto dare tutte le colpe, erano tutti
appiattiti sul voto nelle primarie obbligatorie di agosto, quando il 38%
degli elettori scelse di partecipare a quelle del Frente para la Victoria,
che aveva il solo Scioli come candidato, e il 31% appoggiò la
coalizione di destra. In due mesi, non rilevati dalla demoscopia, una
scienza sempre meno esatta, se mai lo è stata, il FpV non ha guadagnato
quel paio di punti che avrebbero permesso la vittoria al primo turno e
Macri ha sfondato quel bacino del 30% nel quale le destre erano relegate
anche quando governavano col menemismo (voti peronisti per il
neoliberismo). Non è interessante qui vaticinare cosa accadrà tra
quattro settimane, e quanto eventualmente sarà profonda una
restaurazione neoliberale. L’impeto -un fattore importante in questi
casi- però sembra spostato tutto su Macri. Il centrista Scioli, nelle
analisi pro-K a lui favorevoli nella notte, ha visto ricomparire
magicamente aggettivazioni come “grigio” e “scialbo”, dalle quali era
per un po’ stato graziato. In questo la scelta di un candidato esterno
al mondo della sinistra da parte di Cristina Fernández potrebbe passare
alla storia non tanto come un errore o frutto della mancanza di
alternative interne, ma come provvidenziale per eludere un confronto
interno al quale potrebbe non necessariamente esserci risposta
plausibile. Così Scioli, il liberale, il ricco, il grigio,
l’ex-menemista, potrebbe rivelarsi il perfetto capro espiatorio per
evitare che la sinistra tragga lezione non solo da tutto il positivo
realizzato in dodici anni di kirchnerismo, ma anche dai limiti e dagli
errori di un progetto politico che, non solo in Argentina, sembra essere
giunto alla fine di un ciclo vitale.
Provando ad abbozzare un bilancio storico complessivo del
kirchnerismo è sicuro che Cristina Fernández de Kirchner lascerà la Casa
Rosada in dicembre avendo compiuto l’obbiettivo del consolidamento del
sistema democratico in Argentina. Tale postulato non vuol dire
semplicemente che nell’Argentina del XXI secolo si vota invece di
tramare golpe civico-militari ma anche che, al contrario di quanto
accaduto nell’epoca neoliberale che succedette alle dittature, la
democrazia non può pensare di escludere tout-court le masse popolari.
Non è affatto poco e anche con una eventuale presidenza Macri il
menemismo duro e puro, la semplice dissoluzione dello Stato, non
tornerà. Questo è il secondo punto straordinariamente rilevante.
Tutta la storia politica argentina dal 1955 al 2003, tanto attraverso
governi civico-militari che civili, ha visto la continua riduzione,
quasi sempre con le cattive, del ruolo dello Stato. Nonostante gli
slogan dei cantori del modello neoliberale, a più debolezza dello Stato
non solo è corrisposta più povertà e diseguaglianza ma anche più
corruzione, dissesto, violenza, poteri criminali, ingestibilità dei
conflitti sociali se non con la repressione, indifferenza
per l’ambiente. Il kirchnerismo, lontano dall’essere il mondo dei sogni,
ha segnato su questo piano un punto di svolta. La ricostituzione della
sovranità nazionale, dissolta nell’epoca del “Washington Consensus” e
delle relazioni carnali che Menem dichiarava di intrattenere con la Casa
Bianca, si è concretizzata in processi di redistribuzione in favore
delle classi meno abbienti. L’idea di bene pubblico e comune, e quella
dello stato sociale come base per la convivenza democratica, è tornata a
far parte del discorso pubblico e provvedimenti come l’assegnazione
universale per figlio sono un passo concreto nella restituzione del
diritto alla cittadinanza alle classi popolari. I risultati, lungi
dall’essere irreversibili, sono stati solidi e incisivi, con una
riduzione importante della povertà e marcati successi, ma non assoluti
in particolare nel Nord, in termini di riduzione dell’indigenza e della
scandalosa denutrizione. Il tutto ottenuto, ed è un limite, con una
politica agraria rimasta nelle disponibilità dell’agroindustria
esportatrice.
In politica estera l’Argentina ha rappresentato, con la potenza
regionale Brasile, l’irruenza del Venezuela e il soft power cubano, la
ripresa di un’idea di integrazione nella quale l’interesse geopolitico
comune latinoamericano è emerso probabilmente in maniera strutturale e
il concerto latinoamericano ha saputo risolvere quasi tutte le crisi
interne nella regione, escludendo o marginalizzando gli USA, come
testimonia l’epocale processo di pace colombiano in corso non a caso
all’Avana. Su questo piano una presidenza Macri potrebbe fare molto
danno, ma anche qui è improbabile la cancellazione di 15 anni nei quali
Néstor Kirchner fu la testa pensante, anche oltre i grandi meriti di
Lula e Chávez. La maniera con la quale l’Argentina è uscita dal default e
a ricostituito la solvibilità delle finanze pubbliche, è stata inoltre
un modello e una speranza per i paesi che avevano vissuto la seconda
metà del XX secolo sotto il costante ricatto del debito e dell’FMI. La
politica regionale e la collaborazione con Cina e Russia, queste ultime
demonizzate da Macri, hanno permesso la riduzione del ruolo degli USA
nel paese e nella Regione che, oltre la guerra fredda, era rimasto
abnorme nel ventennio finale del secolo scorso. Se i futuri presidenti
di un grande paese come l’Argentina potranno andare alla Casa Bianca o
presso organismi internazionali come l’FMI a ristabilire relazioni meno
succubi (ci si augura), lo dovranno al kirchnerismo.
A tutto ciò si aggiunga una politica sui diritti umani e per il
ristabilimento di verità e giustizia per le violazioni della dittatura:
un modello del quale l’Argentina può andare orgogliosa e sulla quale ho
scritto parte di un libro
e che ha permesso anche una svolta culturale in un paese che sembrava
succube di un’impunità devastante. Sul piano dei diritti civili, il
matrimonio egualitario (per citare solo un aspetto) testimonia un’opera
costante di civilizzazione dei rapporti sociali, lotta al sessismo,
attenzione alle questioni di genere, nella quale l’Argentina appare
essere un modello per il mondo, un altro mondo per paesi infinitamente
più arretrati come l’Italia. E’ stato una sorta di laboratorio al quale
Jorge Bergoglio si è prima opposto per poi, una volta papa, stabilire
delle relazioni rispettose. Meno bene, ma infinitamente meglio del
disastro brasiliano si è fatto nel sistema educativo. A oggi in America
latina sembra più facile investire in università e ricerca (il Conicet,
il CNR argentino, ha accolto tanti italiani formati ed espulsi dal
nostro sistema universitario) che rivoluzionare quello scolastico. Si è
contrastata l’evasione scolastica, ma i figli delle periferie hanno
tuttora bisogno di migliori scuole pubbliche (quelle che Menem
semplicemente chiudeva). Sul piano politico i governi K., che dopo il
default hanno a lungo vissuto in condizioni di semi-embargo, si sono
scontrati con coraggio con monopoli come quelli dei media e dei settori
agrari più poderosi, che tanto hanno segnato in negativo la storia del
paese e della Regione. Ai primi si chiedeva democratizzazione, ai
secondi una miglior contribuzione fiscale rispetto alle straordinarie
rendite generate in particolare dalla grande bonanza del prezzo della
soia, sulla quale l’agroindustria ha costruito enormi fortune. I
risultati sono contrastanti sui media e si sono risolti in una sconfitta
dura rispetto alle politiche di equità fiscale. La difficoltà della
sfida sostenuta impone rispetto per il governo che ha riportato nei
dizionari il verbo “nazionalizzare” e recuperato alla vita pubblica la
petrolifera YPF, le poste, la compagnia aerea di bandiera, l’acqua
potabile, tutti privatizzati durante il menemismo.
Fin qui arrivano gli aspetti positivi. Quelli negativi sono più
complessi da trattare perfino in un contesto quale quello europeo che
tende a non vedere i primi e sperare di liberarsi di governi visti con
fastidio come “la sinistra giurassica” o con nostalgia come “la sinistra
vera di una volta”. Come in Brasile, tutto il processo si è basato in
una sostanziale lungo surplace con i grandi capitali con i quali il
conflitto è sempre stato al massimo verbale. Questi non solo non hanno
però perso nulla in questi anni, ma hanno continuato a guadagnare più di
prima. Tale appeseament, forse inevitabile se si considera il modello
politico-economico di partenza, si riflette nel punto chiave del consumo
come valore sostitutivo alla cittadinanza, del quale dirò dopo. È un
appeasement che va però declinato anche nello stallo della difesa
dell’ambiente, che continua a essere sotto attacco di agroindustria e
industria estrattiva, dove il governo è riuscito a fare ben poco. Come
anche nell’Orinoco chavista o nell’Ecuador dell’iniziativa Yasuní,
sembra che non ci sia alternativa al finanziare lo sviluppo sociale se
non a spese dell’ambiente e dello sfruttamento intensivo delle risorse
naturali. Non scrivo questo né per fondamentalismo ambientalista, o
indigenismo fuori epoca o nostalgie arcaiche; l’America latina ha
bisogno estremo di infrastrutture e di trovare un compromesso con la
madre Terra per l’uso delle risorse naturali per il benessere dei
viventi, ma non può lasciare che il territorio sia disponibile ai metodi
usati durante tutto il XX secolo dal modello delle multinazionali,
usurpazione del suolo, deportazione dei contadini, agrotossici come
piovesse, miniere velenose a cielo aperto, violazioni sistematiche dei
diritti sindacali e umani. Non è un caso che anche in Argentina i
principali movimenti e conflitti sociali degli ultimi anni siano tutti
generati intorno alla difesa dell’ambiente e alla difesa della terra. È
come se, in assenza di un modello economico alternativo al capitalismo
(e il socialismo non ha mai rappresentato una discontinuità su questo
piano), la risposta alla distruzione del pianeta e della convivenza
civile voluta dal modello neoliberale, imposto nelle camere di tortura
delle dittature, e mantenuto con la narcolessi culturale delle tivù
commerciali in democrazia, sia stato semplicemente un ritorno allo
“sviluppismo” post-bellico ma in condizioni ben peggiori.
Non si cerca più di usare le rendite agrarie per finanziare il sol
dell’avvenire di uno sviluppo industriale ormai utopico in un continente
a medio reddito, ma solo per sostenere programmi sociali che riducano
le ingiustizie e le disuguaglianze in assenza di un’alternativa
sistemica che le superi definitivamente. La tentazione, il non detto, lo
strumento di potere, è usare programmi sociali indispensabili,
semplicemente giusti, per alimentare un consenso clientelare. Se
l’alternativa delle destre non è più buttare il bambino con l’acqua
sporca ma un uso solo clientelare degli stessi, l’alternativa della
sinistra qual è?
PIÙ CONSUMATORI CHE CITTADINI
Ampliando il discorso e facendo del kirchnerismo un simbolo di
un’epoca, esattamente il 5 novembre del 2005 il concerto latinoamericano
sconfisse l’ALCA di George Bush, il Trattato di libero commercio delle
Americhe, proprio qui a Mar del Plata. Questo era un progetto
neocoloniale duro e puro anche se l’espressione stride a molti in
Europa. Voleva utilizzare l’America latina come infinita maquiladora
per permettere agli USA di vincere la competizione globale con la Cina.
Quel giorno segnò forse il punto più alto della coscienza critica nel
Continente e quindi dell’integrazione di questo. Vada come vada il 22
novembre, dei grandi leader di quel giorno il solo Evo Morales resta
saldamente in sella. E resta in sella perché nel suo impegno l’aspetto
del pensare un progetto integratore più ampio della società è
predominante. Il welfare non basta, ma qual è l’alternativa? In qualche
modo la Bolivia è tra i pochi a potersi permettere di non pensare se
stessa solo come –per stare a Marcello Carmagnani- “altro Occidente”.
Per quell’ibrido culturale che è l’America latina urbana, non vi è
alternativa all’esserne vagone di coda a partire dal modello di
sviluppo, consumi, desideri. Nessuno ha però il diritto di criticare un
occidentale latinoamericano per il desiderare consumi garantiti ad altri
occidentali. L’esigenza che nessuno governo –neanche Cuba- ha mai
potuto eludere di sostenere la crescita economica, con la quale si
pagano programmi sociali per loro natura di lungo periodo, comporta
anche che gli accordi commerciali sbattuti fuori dalla porta con l’ALCA,
tendano a rientrare dalla finestra. Come altrove e come Allende non
fece in tempo a vedere, per la sinistra vi è inoltre il limite del
riferirsi a classi popolari definitivamente oltre la fine della storia
del lavoro di massa, i partiti e i sindacati. Quando Chávez evocò il
fantasma del socialismo (un colpo d’ali nell’indicare la necessità di
ribaltare il tavolo, più che uno strumento di propaganda, o una rottura
sistemica col capitalismo) o la stessa evocazione continua del
“nazionale e popolare” cristinista, si è palesato uno iato che è di
comprensione dell’esistente, della sfuggevolezza dei soggetti politici
ai quali si fa riferimento, della mera realizzabilità. Non è un caso che
la forza dei movimenti di questi anni sia sempre stata nella puntualità
dell’agenda, nella lotta contro quella singola miniera, mai
nell’escatologia della costruzione di nuove società per soggettività
popolari ormai sfuggenti.
Non sottovaluterei inoltre la mera questione della leadership, come
testimonia il ripiegare su Scioli del kirchnerismo. Se la Storia degli
ultimi due secoli è stata almeno in parte scritta dal basso in un
processo non certo lineare di democratizzazione, i leader, in
particolare all’interno di sistemi democratici e repubbliche
parlamentari, non vengono portati dalla cicogna ogni quattro anni. La
morte precocissima di Néstor Kirchner e Hugo Chávez, la sostituzione di
un patrimonio di popolarità come Lula, l’epifania della cometa di Pepe
Mujíca o, in un contesto diverso di Fidel Castro e perfino di un
personaggio discutibile come Daniel Ortega, l’impedimento golpista a un
López Obrador di governare il Messico, sono colpi non facilmente
ovviabili per l’intero movimento popolare e sociale latinoamericano.
L’incontro col Secolo di una teologia politica liberatrice,
parte del discorso politico di una sinistra tradizionale, popolare e
nazionalista nella declinazione latinoamericana del termine, ossia
quella che ha governato negli ultimi anni, si incontra oggi di fronte
alla pervicacità del modello, alla persistenza dell’attribuzione di
valore da parte di questo e alla fine programmatica degli obbiettivi che
si era data all’interno del sistema democratico. La difesa di
quest’ultimo ha sempre rappresentato una priorità di fronte a rumori di
sciabole e golpe economici. Accettato di competere all’interno di un
modello liberal-democratico (non vi era alcuna alternativa), adesso si
fanno i conti con l’alternanza, anche se quest’ultima vuol dire disfare
una tela di Penelope così faticosamente tessuta. Non è solo il Venezuela
a subire da 17 anni una guerra di logoramento non sempre fredda. Non
c’è un grande vecchio, non ci sono gli USA cattivi da demonizzare in un
hashtag #handoffqualcosa, ma un contesto di interessi tradizionali e
modernissimi che confliggono con un campo popolare culturalmente non
dominante, ma anzi tuttora subalterno. Strutturalmente subalterno,
forse. Perciò all’interno di una modernità e di un modello economico che
non è mai stato un’alternativa sistemica al capitalismo, si sono sempre
cercate crescenti e di per sé titaniche guerre di logoramento, punti di
scontro, modelli di cooptazione nei quali probabilmente le regole del
gioco le ha sempre dettate il nemico.
Di tutto ciò la persistenza della corruzione è il sintomo più
simbolico e stigmatizzato, anche se è una balla colossale della guerra
mediatica contro i governi integrazionisti sostenere che la corruzione
possa essere aumentata rispetto alla fine del secolo scorso. È però una
ferita aperta il perché questa riesca a cooptare anche forze
apparentemente fresche, di militanza che appare sana e una volta entrata
in giri di sottogoverno si uniformi quasi sistematicamente. È dai tempi
della “piñata nicaraguense”, quando i leader sandinisti lasciarono il
potere, spartendosi beni pubblici per veri o presunti meriti
rivoluzionari, che anche in America latina la questione morale, non è
più prerogativa di una parte politica, la sinistra, ma al massimo di
singoli. I modelli di cooptazione per famiglie politiche, in un sistema
sociale che resta basato sulla produzione di ricchezza, sul possesso di
questa e sull’ostentazione del consumo, e nella quale i segni di potere e
riconoscibilità sociale non si discostano da quelli degli avversari
politici, non possono che produrre corruzione. È ingenuo pensare che
quello che è stigmatizzato nei partiti socialdemocratici europei non
debba trovare corrispondenza negli omologhi latinoamericani, nel
carrierismo fine a se stesso e nella corruzione. Ma qui c’è il divorzio
o, forse una nuova forma di unione civile tra classe politica e
governati. È ingenuo pensare che, soprattutto nelle nostre megalopoli
sofferenti, nei ranchitos di Caracas, nelle villa miseria del
Gran Buenos Aires, nelle favelas di Río, quella che nel XXI secolo è la
principale aspettativa delle masse popolari, forse salute ma non
democrazia, non educazione, non cultura, ma consumi subito, qui e ora,
possa trovare dirigenti politici talmente lungimiranti da contrastare la
volontà dei loro stessi elettori e delle reti di potere che li hanno
selezionati. Oltretutto privandosi delle parafernalia riconosciute del
potere, quello del benessere materiale. Pepe Mujica il pauperista, era
il cappellaio matto, non la nuova politica. Lula non ha dato salute ed
educazione e forse neanche pane, ma ha dato il companatico; accesso ai
consumi come succedaneo della cittadinanza testimoniato ovunque dalla
crescita della classe media che agisce, pensa e desidera in quanto tale.
E meno male, per certi versi. A partire dal Brasile è successo in tutto
il Continente. Dopo decenni di critica del PIL come parametro unico
della felicità e della ricchezza delle nazioni, l’esigenza di non
scontrarsi con una controparte che, ricordando Pietro Nenni, non è mai
uscita dalla stanza dei bottoni, ha portato a misurare la felicità in
termini di crescita dei consumi interni: i grandi interessi economici
hanno continuato ad arricchirsi, le classi popolari, disinteressatesi
all’assalto al cielo, hanno smobilitato contentandosi dello strapuntino
offerto in una società dei consumi dalle quali erano fino a ieri state
escluse. Non è poco, e nessuno ha diritto di biasimarle, e forse il
progresso non è leggere tutti insieme Dostoevskij (come pensavano nel
Cile popolare). Forse il progresso è possedere tutti un iPhone, ma è
triste pensare che dopo i migliori anni della vita del Continente,
l’America latina non riesca più a volare.
lunedì 26 ottobre 2015
La fine del kirchnerismo e del ciclo progressista in America latina?
Etichette:
america latina,
Argentina,
Chavez,
default,
Kirchner,
Lula,
Macri,
Neoliberismo,
USA
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Il racconto truccato del conflitto previdenziale
di Matteo Bortolon da Il Manifesto Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...
-
di Domenico D'Amico Repetita iuvant , ho pensato di fronte al libro di Michel Floquet ( Triste America , Neri Pozza 2016, pagg. 2...
-
di Jon Schwarz (da A Tiny Revolution ) traduzione per Doppiocieco di Domenico D'Amico Una delle cose grandiose dell'essere america...
Nessun commento:
Posta un commento