sabato 3 ottobre 2015

La forza dell'Impero

intervista a Leo Panitch di Nicola Melloni da Micromega

 
Leo Panitch è professore all’Università di York, a Toronto, editore del Socialist Register e, recentemente, autore, con Sam Gindin, di “The Making of Global Capitalism”, un libro di fondamentale importanza per capire le origini e le evoluzioni del capitalismo moderno e l’egemonia americana.

Iniziamo parlando delle tendenze del capitalismo globale alla luce della crisi finanziaria del 2007. Il capitalismo del XX secolo ha avuto diverse trasformazioni, scaturite da crisi sistemiche ma mai irreversibili. Nel vostro libro, tu e Sam Gindin sostenete che lo Stato moderno è comunque e sempre uno Stato capitalista le cui istituzioni sono costruite ed implementate per favorire gli interessi e la riproduzione del capitale: lo Stato Sociale è stato lo strumento per mercificare il lavoro, la finanziarizzazione è stata la risposta alla crisi degli Anni 70 per agevolare le occasioni di profitto e di consumo. Questa nuova crisi cosa modifica nel Capitalismo del XXI secolo?

La prima e più importante considerazione da fare è che questa crisi ha soprattutto mostrato la forza strutturale, la capacità di resistenza e quella di contenimento della crisi dello Stato capitalista. Non vi sono dubbi che lo sviluppo capitalista mostra moltissime contraddizioni, fallimenti, irrazionalità, ma questa fase di globalizzazione iniziata non negli anni 80, ma nel 1944 sotto l’egida di quello che chiamiamo Impero Americano non si è fermata.
Certo, non tutto funziona perfettamente. Geopoliticamente sono in corso mutamenti con la formazione di blocchi regionali antagonisti all’America, ma per ora senza nessuna vera possibilità di contrastarne l’egemonia.
Il contenimento della crisi ha mostrato grande efficienza da parte delle istituzioni americane, ma molto meno in Europa – dove è soprattutto la Germania ad avere grandi responsabilità. L’austerity ha danneggiato la ripresa economica ed acuito la crisi, eppure solo in un paese, la Grecia, un governo socialista ha preso il potere e pure quel caso è stato normalizzato nel giro di pochi mesi, confermando appunto la forza delle istituzioni del capitale.

Queste contraddizioni, però, rischiano di acuirsi, mi sembra. La politica economica europea è fallimentare e foriera di una nuova ondata nazionalista, mentre un po’ ovunque si ricomincia a parlare di protezionismo economico e politiche del tipo beggar thy neighbour. Tu hai scritto che la principale differenza tra la congiuntura attuale ed il 1929 è proprio il fatto che la globalizzazione del capitale non si sia fermata e che la crisi viene risolta in maniera pacifica. Ma non c’è un rischio che queste contraddizioni ancora in nuce possano esplodere?

Il più grave pericolo arriva dalla destra europea, aiutata enormemente dalle politiche di austerity della UE. Le colpe sono chiaramente della Germania che ha dimostrato di essere molto meno capace degli Stati Uniti di rispondere alle crisi economiche, e, soprattutto, recalcitrante ad assumersi le sue responsabilità di leader all’interno dell’Europa. Questa situazione non è per nulla ben vista in America, dove si teme una divisione europea che danneggerebbe il commercio transatlantico e gli interessi del capitale globale – non a caso gli Stati Uniti hanno fatto pressioni, inascoltate, per condizioni più morbide sul caso greco. La destra europea comunque si è fatta più forte. Non è chiaro se Marine Le Pen vincerà le elezioni in Francia ma la cosa non si può certamente escludere. La differenza fondamentale con gli anni 30 è, però, che le borghesie nazionali europee, che pure esistono, non sono pronte, né capaci, di puntare sull’autarchia e sulla rottura della globalizzazione economica. Il capitalismo americano le ha rese transnazionali nelle loro relazioni economiche.
Il problema non è però solo economico ma anche e soprattutto culturale, la libertà di movimento e Schengen sono messe sotto pressione, e questo potrebbe portare a sviluppi imprevisti per la sopravvivenza della UE.
Anche a sinistra, ovviamente, qualcosa si muove: non solo Syriza e Podemos ma anche l’incredibile vittoria di Corbyn e la rinascita del Labour su basi di sinistra, una novità storica all’interno di un partito di quel genere, dove la sinistra di Tony Benn è sempre stata minoranza. Qualche vero cambiamento sarà però possibile solo nel lungo periodo, nel breve periodo non ci sono le forze sufficienti per modificare le relazioni di forza che sono chiaramente sfavorevoli. Almeno finché non vedremo cambiamenti politici in senso progressista in Francia, Germania e nei paesi scandinavi.

Andiamo indietro un attimo ai cambiamenti del capitalismo globale, questa volta dal lato politico. Il capitalismo ha dimostrato di funzionare benissimo con la liberal-democrazia, che pure si è evoluta con i cambiamenti della struttura economica – dalla re-distribuzione e compromesso sociale del Welfare State, fino all’accesso al mercato del credito e all’illusione monetaria del finanz-capitalismo, che per inciso ha portato alla crisi dei subprime proprio per favorire il consumo dei ceti più disagiati. La crisi attuale ha ripercussioni importanti su questo modello sociale, perché blocca l’economia del debito (tanto pubblico che privato) e non riapre certo canali di redistribuzione del profitto. Lo scontento è cresciuto e così la repressione poliziesca. Non pensi che la democrazia occidentale rischi di entrare in crisi?


Iniziamo dicendo che sarebbe meglio non romanticizzare e sopravvalutare gli spazi democratici che c’erano in passato. I socialisti ed il mondo del lavoro, è vero, erano forti e si erano conquistati spazi e diritti, ma comunque nel contesto di un capitale molto forte – che non permetteva di andare oltre un certo limite. Non bisogna dimenticare quanto fosse forte e violenta la repressione negli anni 60 e 70, non possiamo minimizzare il ruolo avuto dalle forze di sicurezza in molte pagine nere della democrazia occidentale, soprattutto nel vostro Paese, in Italia. Si trattava di una violenza che era in qualche modo una risposta alla forza della sinistra – e non mi riferisco certo al Terrorismo che in Italia conoscete bene – quanto alla forza reale tanto dei movimenti quanto della sinistra istituzionale impegnata in un confronto aspro con il Capitale. Per meglio capire la forza politica della repressione e gli spazi limitati della democrazia, basti pensare che una delle più importanti svolte politiche del PCI, quella Berlingueriana del Compromesso Storico, fu dettata dalla paura della repressione dopo il colpo di Stato in Cile. E che forse la deriva a destra del PD attuale può trovare le radici proprio in quella svolta. Quegli anni, è vero, erano basati anche su un compromesso tra Capitale e Lavoro, ma era un compromesso fragile e c’erano forze all’interno della sinistra che se ne rendevano conto e puntavano al superamento della socialdemocrazia (si riferisce a Tony Benn nel Labour, al Piano Meidner in Svezia e pure a Pietro Ingrao nel PCI, nda).
La repressione è in realtà calata solo quando quei movimenti sono stati sconfitti e i partiti di sinistra hanno smesso di lottare per cambiare il sistema.
Ora vediamo un ritorno della repressione, di sicuro il peggiorare delle condizioni materiali, la mancanza di accesso al credito induriscono lo scontro sociale. Allo stesso tempo la nascita di movimenti come Occupy o gli Indignados aumenta la repressione delle classi dominanti, appunto come in passato.
C’è di più. Se la destra europea dovesse continuare la sua crescita, a sinistra si riproporrebbe l’opzione dei Fronti Unitari contro la destra – che le classi dominanti accetterebbero solo in cambio di una rinuncia ad ogni pretesa di cambiamento, riducendo di conseguenza gli spazi politici e democratici. E’ uno scenario fosco perché sarebbe un dilemma che porterebbe comunque ad una sconfitta – lotta contro la destra per difendere la democrazia, al costo di una netta riduzione degli spazi di agibilità politica – ed ad una contraddizione insanabile nella dialettica democratica.

Che spazi ci sono, allora, per la Sinistra. Anche Syriza, a prescindere dalla resa finale, non sembrava aver un piano davvero di cambiamento radicale del sistema, ricordo un famoso articolo di Varoufakis sul Guardian dove si spiegava che il compito storico della sinistra era, ad oggi, di salvare il capitalismo europeo dai capitalisti.

Il problema in Grecia è il bilanciamento delle forze a livello europeo – e globale. Tanto Varoufakis che Tsipras avevano detto fin dall’inizio che erano disposti a lottare solo all’interno dello spazio europeo, e questo spazio alla prova dei fatti è risultato inesistente. Tsipras ha cercato una sponda nel Sud-Europa, chiaramente non da Renzi, ma piuttosto sperando in una vittoria di Podemos in Spagna. In ogni caso, anche questo non sarebbe bastato. Varoufakis stesso non aveva nessun vero piano B per uscire dall’Euro. Le possibilità di cambiare a livello europeo esistono solo qualora le cose cambino in Francia e Germania.
Su una cosa poi bisogna essere molto chiari. Gran parte della sinistra europea chiede una Unione politica più forte per fronteggiare moneta e mercato unico. Si tratta di uno sbaglio clamoroso: così si accentra solo il potere, lo si porta lontano dai luoghi sociali, si restringono le possibilità di azione della sinistra.
Quello, invece, da cui la Sinistra deve ripartire sono pratiche sociali diverse, dalla produzione al consumo che siano in contrasto con i paradigmi non solo economici ma anche culturali del capitalismo dominante. Certo serve mobilizzarsi, serve manifestare, serve l’azione politica, ma serve soprattutto la ricostruzione di una coscienza sociale, di classe, alternativa.

Parliamo del Canada. Un paese per molti misterioso, un mix di liberalismo progressista – diritti dei gay, aperto all’immigrazione, sanità pubblica – ma anche una sorta di protettorato americano. Spesso, fuori dai confini candesi, non è molto chiara la prepotente svolta a destra che si è compiuta negli ultimi dieci anni sotto il governo di Harper. Un paese che ha fatto molto meglio di altri durante la crisi finanziaria ma che è ora in recessione, soprattutto a causa del crollo del prezzo delle materie prime, di cui è grande esportatore. Cosa ci puoi dire?


Per molti miei amici americani, progressisti e socialisti, il Canada è un po’ la Svezia d’America. In realtà, è mancata la percezione di quanto a destra siano stati i mandati di Harper. La guida politica è in mano a ideologi neo-liberali che hanno costruito una base di consenso attraverso una serie infinita di tax breaks per le più svariate categorie sociali a cui si è aggiunta una alleanza con la destra cristiana fondamentalista. L’aspetto che però io considero più allarmante e deteriore di questo governo è l’affermazione di una cultura militarista, totalmente estranea alla cultura del Canada. Questa non è una destra libertaria, come quella di Ron Paul in America, ma una destra retriva e conservatrice, reazionaria. Il Canada non ha mai avuto un tale DNA – non aveva partecipato alla guerra in Vietnam, e neanche all’invasione dell’Iraq – ed invece Harper ha spinto in questa direzione con forza. Basta assistere ad un qualsiasi evento pubblico o sportivo, dove al pubblico è richiesto di alzarsi per applaudire qualche persona in divisa. E’ un cambiamento culturale profondo molto preoccupante.
Naturalmente anche in passato c’era un notevole livello di ipocrisia da parte dei liberali al governo, ma quantomeno non si insisteva in modo così plateale su una cultura militarista come col governo attuale. Jean Chretien (allora Primo Ministro, ndr) non mandò le truppe in Iraq – naturalmente aumentò il contingente canadese in Afghanistan, ma almeno si fece passare il messaggio, non da poco, che non si possono fare guerre senza mandato ONU.
Lo stesso tipo di atteggiamento smodato e vergognoso lo si rileva su un tema importante quale quello dei cambiamenti climatici: quando erano al governo i liberali predicavano bene ma razzolavano male, ma per quanto condannabile questo atteggiamento rimane ben diverso da quello dei conservatori che negano il global warming e che semplicemente se ne infischiano delle conseguenze delle loro azioni. E’ un cambiamento molto significativo, e molto sinistro.
La cosa positiva è che sembra che ora finalmente ci sia una reazione da parte della maggioranza dei canadesi. I conservatori alle ultime elezioni hanno ottenuto il 39%, ma ora i sondaggi li danno ai 29%. Un quarto di meno. E anche se riusciranno a raggiungere il 34%, il significato sarà comunque molto chiaro: la maggioranza dei canadesi rigetta questa svolta a destra.
Le motivazioni economiche ci sono, ma non sono decisive: i canadesi hanno sempre saputo che la recessione ha colpito di meno le nostre banche solo grazie all’intervento pubblico e che la recessione è stata contenuta – ma comunque sanguinosa – grazie al prezzo del petrolio, allora alto. Anche ora sanno che la recessione è figlia di una congiuntura economica estremamente sfavorevole – e certo di un modello economico sbagliato – ma l’attesa sconfitta dei conservatori, io credo, parte soprattutto da un rigetto del modello culturale della destra. E penso che questo sia uno sviluppo estremamente positivo, anche a prescindere dalla pochezza delle alternative, i liberali e l’NDP.

Parliamo allora di queste alternative. L’NDP era un partito socialista, elettoralmente marginale che alle ultime elezioni per la prima volta è arrivato secondo – divenendo l’opposizione ufficiale al governo conservatore – ed ora è dato in testa ai sondaggi per le elezioni di Ottobre. In 10 anni il Partito ha decuplicato i seggi, ma questo è avvenuto con un graduale spostamento verso il centro, puntando a rimpiazzare i liberali come principale partito progressista – a tal punto che ora i Liberali criticano da sinistra l’NDP per non voler rompere definitivamente il ciclo dell’austerity e rimanere fedele al feticismo del pareggio di bilancio. Cosa ci puoi dire sulla sinistra canadese?

L’NDP è un partito con una lunga storia di sinistra, socialista, per quanto da sempre anti-comunista. Ha sempre avuto un forte radicamento nella provincia canadese ed è stato all’avanguardia nello stabilire un sistema sanitare pubblico e non mercificato (il Canada ha una sanità pubblica molto simile a quella italiana, ndr). Naturalmente lungo la strada ha perso le sue ambizioni progressiste, come è successo d’altronde ai partiti socialisti europei. Ha sostituito il cambiamento sociale con la difesa della sanità – ed in fondo va bene così. Non possiamo farci illusioni: ogni volta che è andato al governo a livello locale, l’NDP si è sempre compromesso con i poteri forti, accettando la logica dell’austerity, dei tagli. Per molti dirigenti l’orizzonte è divenuto quello della Terza Via blairiana, abbracciando la mercificazione dei rapporti sociali invece di combatterla. L’obiettivo è chiaramente sostituire i Liberali (da sempre il partito del potere, in Canada, ndr). Trovo terribile che un partito che si dichiara di sinistra si riferisca ai capitalisti come “creatori di posti di lavoro”, esaltandone il coraggio e cancellando completamente, anche nell’immaginario collettivo, la dialettica sociale e le contrapposizioni tra capitale e lavoro.
Detto questo, l’NDP offre un piano per una scuola materna universale, difende la sanità pubblica, e soprattutto si oppone alla mercificazione del settore farmaceutico. Sono chiaramente cose positive. Come è positivo che i Liberali li pungolino da sinistra con proposte di politica economica keynesiane.
L’aspetto più importante non è tanto il cambiamento che un nuovo governo potrà introdurre, quanto, appunto, l’opposizione a questa destra. NDP e Liberali hanno diverse somiglianze e dovranno probabilmente governare insieme (forse con un governo di minoranza dei primi) ma non riescono a raggiungere una intesa minima sulla strategia elettorale, nella forma quantomeno di una desistenza nei collegi dove una divisione tra Liberali e NDP favorirebbe una vittoria conservatrice (nel Canada vige un sistema maggioritario secco, ndr).

Finiamo parlando degli Stati Uniti. L’aspetto che mi sembra più interessante analizzare è una qual certa radicalizzazione e polarizzazione della politica americana. Come noto, il sistema politico americano si è da sempre basato sul binomio Repubblicani-Democratici. Come scrivi nel tuo libro, nonostante ci siano delle differenze, entrambi i partiti sono espressione di un certo tipo di interessi, quelli del capitale e dell’ “impero” americano, più militaristi i Repubblicani, mentre i Democratici, con Clinton ad esempio, sono stati decisivi per la penetrazione del capitale finanziario in tutti gli angoli del globo. Quello cui ci troviamo però di fronte ora sono fenomeni se non nuovi, quantomeno non usuali. Negli ultimi anni abbiamo avuto Occupy e i Tea Party, ora abbiamo Bernie Sanders (l’unico senatore americano che si definisce socialista) e anche Donald Trump. Cosa ci puoi dire su questa possibile evoluzione della democrazia americana?

Pare anche a me che ci sia una certa polarizzazione. A destra c’è una radicalizzazione evidente con i Tea Party. Non è un fatto nuovo, in realtà questa destra “esaltata” è sempre esistita negli Stati Uniti, risorgendo a livello nazionale a intervalli regolari. Come scrive il mio amico Frances Fox Peven, esperto di movimenti sociali americani, è sempre esistito un 30% di americani “politicamente certificabili come squilibrati i a destra”; era vero nel 1930 con Father Coughlin (un predicatore radiofonico, ndr) e nel1840 con il Know Nothing Movement (un movimento anti-cattolico e anti-immigrazione, ndr) e ora vedi Trump o Fiorina, e sembrano tornati quei tempi lugubri. Non bisogna sottovalutarli, perché sono molto forti nel Congresso e hanno una vera influenza politica. Allo stesso tempo non sono mai davvero riusciti a bloccare lo Stato americano, il Tesoro, la FED. Perché? Perché sanno che i bond americani, che lo Stato americano, è il centro fondamentale ed imprescindibile del capitalismo globale – un santuario intoccabile. E’ comunque assai curioso che sia la destra estrema e non certo la sinistra a mettere in pericolo l’impero americano. Di sicuro questo dimostra la disfunzionalità della politica americana, e certo è preoccupate vedere questi movimenti prendere forma e forza così spesso negli Stati Uniti.
A sinistra, insieme al radicalismo quasi anarchico di Occupy, ci sono stati anche molti movimenti locali e grassroot auto-organizzati di lavoratori, di consumatori, di cittadini. Sono organizzazioni molto vive e molto attive che sorprenderebbero tanti osservatori europei. Non esiste però alcuna forma di strutturazione e di organizzazione politica, soprattutto a livello nazionale, e questi movimenti spariscono in fretta come sorgono, non lasciando purtroppo molte tracce. La candidatura di Sanders è una cosa ottima, su una piattaforma molto progressista su molti punti. Nuovamente però, si tratta, credo, di una candidatura, per quanto importante, un po’ fine a se stessa perché senza le ambizioni di costruire qualche cosa che duri nel tempo, oltre la campagna elettorale.
Non ho molte aspettative a dire il vero. Nel Partito Democratico è impossibile che Sanders possa davvero vincere la nomination, la sua candidatura è estranea alla natura di quel Partito e sono sicuro che se si avvicinasse ad una impresa del genere, verrebbe fuori all’ultimo momento un nuovo candidato per unificare il resto del Partito contro di lui. E’ vero che nel passato i Democratici hanno già avuto momenti di radicalizzazione, non bisogna dimenticare la campagna di Jesse Jackson e soprattutto il movimento che portò alla candidatura di McGovern nel 1972 e che fu poi distrutto dai Sindacati che preferirono vedere Nixon vincere piuttosto che la Sinistra conquistare il paese. Per concludere, c’è sicuramente una nuova ondata di movimentismo politico, ma non mi sembra in grado di mettere davvero in difficoltà la forza dell’ “Impero” Americano. 


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