intervista a Leo Panitch di Nicola Melloni da Micromega
Leo Panitch è professore all’Università di York, a Toronto, editore del Socialist Register
e, recentemente, autore, con Sam Gindin, di “The Making of Global
Capitalism”, un libro di fondamentale importanza per capire le origini e
le evoluzioni del capitalismo moderno e l’egemonia americana.
Iniziamo
parlando delle tendenze del capitalismo globale alla luce della crisi
finanziaria del 2007. Il capitalismo del XX secolo ha avuto diverse
trasformazioni, scaturite da crisi sistemiche ma mai irreversibili. Nel
vostro libro, tu e Sam Gindin sostenete che lo Stato moderno è comunque e
sempre uno Stato capitalista le cui istituzioni sono costruite ed
implementate per favorire gli interessi e la riproduzione del capitale:
lo Stato Sociale è stato lo strumento per mercificare il lavoro, la
finanziarizzazione è stata la risposta alla crisi degli Anni 70 per
agevolare le occasioni di profitto e di consumo. Questa nuova crisi cosa
modifica nel Capitalismo del XXI secolo?
La prima e più
importante considerazione da fare è che questa crisi ha soprattutto
mostrato la forza strutturale, la capacità di resistenza e quella di
contenimento della crisi dello Stato capitalista. Non vi sono dubbi che
lo sviluppo capitalista mostra moltissime contraddizioni, fallimenti,
irrazionalità, ma questa fase di globalizzazione iniziata non negli anni
80, ma nel 1944 sotto l’egida di quello che chiamiamo Impero Americano
non si è fermata.
Certo, non tutto funziona perfettamente.
Geopoliticamente sono in corso mutamenti con la formazione di blocchi
regionali antagonisti all’America, ma per ora senza nessuna vera
possibilità di contrastarne l’egemonia.
Il contenimento della crisi
ha mostrato grande efficienza da parte delle istituzioni americane, ma
molto meno in Europa – dove è soprattutto la Germania ad avere grandi
responsabilità. L’austerity ha danneggiato la ripresa economica ed
acuito la crisi, eppure solo in un paese, la Grecia, un governo
socialista ha preso il potere e pure quel caso è stato normalizzato nel
giro di pochi mesi, confermando appunto la forza delle istituzioni del
capitale.
Queste contraddizioni, però, rischiano di
acuirsi, mi sembra. La politica economica europea è fallimentare e
foriera di una nuova ondata nazionalista, mentre un po’ ovunque si
ricomincia a parlare di protezionismo economico e politiche del tipo
beggar thy neighbour. Tu hai scritto che la principale differenza tra la
congiuntura attuale ed il 1929 è proprio il fatto che la
globalizzazione del capitale non si sia fermata e che la crisi viene
risolta in maniera pacifica. Ma non c’è un rischio che queste
contraddizioni ancora in nuce possano esplodere?
Il più
grave pericolo arriva dalla destra europea, aiutata enormemente dalle
politiche di austerity della UE. Le colpe sono chiaramente della
Germania che ha dimostrato di essere molto meno capace degli Stati Uniti
di rispondere alle crisi economiche, e, soprattutto, recalcitrante ad
assumersi le sue responsabilità di leader all’interno dell’Europa.
Questa situazione non è per nulla ben vista in America, dove si teme una
divisione europea che danneggerebbe il commercio transatlantico e gli
interessi del capitale globale – non a caso gli Stati Uniti hanno fatto
pressioni, inascoltate, per condizioni più morbide sul caso greco. La
destra europea comunque si è fatta più forte. Non è chiaro se Marine Le
Pen vincerà le elezioni in Francia ma la cosa non si può certamente
escludere. La differenza fondamentale con gli anni 30 è, però, che le
borghesie nazionali europee, che pure esistono, non sono pronte, né
capaci, di puntare sull’autarchia e sulla rottura della globalizzazione
economica. Il capitalismo americano le ha rese transnazionali nelle loro
relazioni economiche.
Il problema non è però solo economico ma anche
e soprattutto culturale, la libertà di movimento e Schengen sono messe
sotto pressione, e questo potrebbe portare a sviluppi imprevisti per la
sopravvivenza della UE.
Anche a sinistra, ovviamente, qualcosa si
muove: non solo Syriza e Podemos ma anche l’incredibile vittoria di
Corbyn e la rinascita del Labour su basi di sinistra, una novità storica
all’interno di un partito di quel genere, dove la sinistra di Tony Benn
è sempre stata minoranza. Qualche vero cambiamento sarà però possibile
solo nel lungo periodo, nel breve periodo non ci sono le forze
sufficienti per modificare le relazioni di forza che sono chiaramente
sfavorevoli. Almeno finché non vedremo cambiamenti politici in senso
progressista in Francia, Germania e nei paesi scandinavi.
Andiamo
indietro un attimo ai cambiamenti del capitalismo globale, questa volta
dal lato politico. Il capitalismo ha dimostrato di funzionare benissimo
con la liberal-democrazia, che pure si è evoluta con i cambiamenti
della struttura economica – dalla re-distribuzione e compromesso sociale
del Welfare State, fino all’accesso al mercato del credito e
all’illusione monetaria del finanz-capitalismo, che per inciso ha
portato alla crisi dei subprime proprio per favorire il consumo dei ceti
più disagiati. La crisi attuale ha ripercussioni importanti su questo
modello sociale, perché blocca l’economia del debito (tanto pubblico che
privato) e non riapre certo canali di redistribuzione del profitto. Lo
scontento è cresciuto e così la repressione poliziesca. Non pensi che la
democrazia occidentale rischi di entrare in crisi?
Iniziamo
dicendo che sarebbe meglio non romanticizzare e sopravvalutare gli
spazi democratici che c’erano in passato. I socialisti ed il mondo del
lavoro, è vero, erano forti e si erano conquistati spazi e diritti, ma
comunque nel contesto di un capitale molto forte – che non permetteva di
andare oltre un certo limite. Non bisogna dimenticare quanto fosse
forte e violenta la repressione negli anni 60 e 70, non possiamo
minimizzare il ruolo avuto dalle forze di sicurezza in molte pagine nere
della democrazia occidentale, soprattutto nel vostro Paese, in Italia.
Si trattava di una violenza che era in qualche modo una risposta alla
forza della sinistra – e non mi riferisco certo al Terrorismo che in
Italia conoscete bene – quanto alla forza reale tanto dei movimenti
quanto della sinistra istituzionale impegnata in un confronto aspro con
il Capitale. Per meglio capire la forza politica della repressione e gli
spazi limitati della democrazia, basti pensare che una delle più
importanti svolte politiche del PCI, quella Berlingueriana del
Compromesso Storico, fu dettata dalla paura della repressione dopo il
colpo di Stato in Cile. E che forse la deriva a destra del PD attuale
può trovare le radici proprio in quella svolta. Quegli anni, è vero,
erano basati anche su un compromesso tra Capitale e Lavoro, ma era un
compromesso fragile e c’erano forze all’interno della sinistra che se ne
rendevano conto e puntavano al superamento della socialdemocrazia (si riferisce a Tony Benn nel Labour, al Piano Meidner in Svezia e pure a Pietro Ingrao nel PCI, nda).
La
repressione è in realtà calata solo quando quei movimenti sono stati
sconfitti e i partiti di sinistra hanno smesso di lottare per cambiare
il sistema.
Ora vediamo un ritorno della repressione, di sicuro il
peggiorare delle condizioni materiali, la mancanza di accesso al credito
induriscono lo scontro sociale. Allo stesso tempo la nascita di
movimenti come Occupy o gli Indignados aumenta la repressione delle
classi dominanti, appunto come in passato.
C’è di più. Se la destra
europea dovesse continuare la sua crescita, a sinistra si riproporrebbe
l’opzione dei Fronti Unitari contro la destra – che le classi dominanti
accetterebbero solo in cambio di una rinuncia ad ogni pretesa di
cambiamento, riducendo di conseguenza gli spazi politici e democratici.
E’ uno scenario fosco perché sarebbe un dilemma che porterebbe comunque
ad una sconfitta – lotta contro la destra per difendere la democrazia,
al costo di una netta riduzione degli spazi di agibilità politica – ed
ad una contraddizione insanabile nella dialettica democratica.
Che
spazi ci sono, allora, per la Sinistra. Anche Syriza, a prescindere
dalla resa finale, non sembrava aver un piano davvero di cambiamento
radicale del sistema, ricordo un famoso articolo di Varoufakis sul Guardian dove si spiegava che il compito storico della sinistra era, ad oggi, di salvare il capitalismo europeo dai capitalisti.
Il
problema in Grecia è il bilanciamento delle forze a livello europeo – e
globale. Tanto Varoufakis che Tsipras avevano detto fin dall’inizio che
erano disposti a lottare solo all’interno dello spazio europeo, e
questo spazio alla prova dei fatti è risultato inesistente. Tsipras ha
cercato una sponda nel Sud-Europa, chiaramente non da Renzi, ma
piuttosto sperando in una vittoria di Podemos in Spagna. In ogni caso,
anche questo non sarebbe bastato. Varoufakis stesso non aveva nessun
vero piano B per uscire dall’Euro. Le possibilità di cambiare a livello
europeo esistono solo qualora le cose cambino in Francia e Germania.
Su
una cosa poi bisogna essere molto chiari. Gran parte della sinistra
europea chiede una Unione politica più forte per fronteggiare moneta e
mercato unico. Si tratta di uno sbaglio clamoroso: così si accentra solo
il potere, lo si porta lontano dai luoghi sociali, si restringono le
possibilità di azione della sinistra.
Quello, invece, da cui la
Sinistra deve ripartire sono pratiche sociali diverse, dalla produzione
al consumo che siano in contrasto con i paradigmi non solo economici ma
anche culturali del capitalismo dominante. Certo serve mobilizzarsi,
serve manifestare, serve l’azione politica, ma serve soprattutto la
ricostruzione di una coscienza sociale, di classe, alternativa.
Parliamo
del Canada. Un paese per molti misterioso, un mix di liberalismo
progressista – diritti dei gay, aperto all’immigrazione, sanità pubblica
– ma anche una sorta di protettorato americano. Spesso, fuori dai
confini candesi, non è molto chiara la prepotente svolta a destra che si
è compiuta negli ultimi dieci anni sotto il governo di Harper. Un paese
che ha fatto molto meglio di altri durante la crisi finanziaria ma che è
ora in recessione, soprattutto a causa del crollo del prezzo delle
materie prime, di cui è grande esportatore. Cosa ci puoi dire?
Per
molti miei amici americani, progressisti e socialisti, il Canada è un
po’ la Svezia d’America. In realtà, è mancata la percezione di quanto a
destra siano stati i mandati di Harper. La guida politica è in mano a
ideologi neo-liberali che hanno costruito una base di consenso
attraverso una serie infinita di tax breaks per le più svariate
categorie sociali a cui si è aggiunta una alleanza con la destra
cristiana fondamentalista. L’aspetto che però io considero più
allarmante e deteriore di questo governo è l’affermazione di una cultura
militarista, totalmente estranea alla cultura del Canada. Questa non è
una destra libertaria, come quella di Ron Paul in America, ma una destra
retriva e conservatrice, reazionaria. Il Canada non ha mai avuto un
tale DNA – non aveva partecipato alla guerra in Vietnam, e neanche
all’invasione dell’Iraq – ed invece Harper ha spinto in questa direzione
con forza. Basta assistere ad un qualsiasi evento pubblico o sportivo,
dove al pubblico è richiesto di alzarsi per applaudire qualche persona
in divisa. E’ un cambiamento culturale profondo molto preoccupante.
Naturalmente
anche in passato c’era un notevole livello di ipocrisia da parte dei
liberali al governo, ma quantomeno non si insisteva in modo così
plateale su una cultura militarista come col governo attuale. Jean
Chretien (allora Primo Ministro, ndr) non mandò le truppe in Iraq –
naturalmente aumentò il contingente canadese in Afghanistan, ma almeno
si fece passare il messaggio, non da poco, che non si possono fare
guerre senza mandato ONU.
Lo stesso tipo di atteggiamento smodato e
vergognoso lo si rileva su un tema importante quale quello dei
cambiamenti climatici: quando erano al governo i liberali predicavano
bene ma razzolavano male, ma per quanto condannabile questo
atteggiamento rimane ben diverso da quello dei conservatori che negano
il global warming e che semplicemente se ne infischiano delle
conseguenze delle loro azioni. E’ un cambiamento molto significativo, e
molto sinistro.
La cosa positiva è che sembra che ora finalmente ci
sia una reazione da parte della maggioranza dei canadesi. I conservatori
alle ultime elezioni hanno ottenuto il 39%, ma ora i sondaggi li danno
ai 29%. Un quarto di meno. E anche se riusciranno a raggiungere il 34%,
il significato sarà comunque molto chiaro: la maggioranza dei canadesi
rigetta questa svolta a destra.
Le motivazioni economiche ci sono,
ma non sono decisive: i canadesi hanno sempre saputo che la recessione
ha colpito di meno le nostre banche solo grazie all’intervento pubblico e
che la recessione è stata contenuta – ma comunque sanguinosa – grazie
al prezzo del petrolio, allora alto. Anche ora sanno che la recessione è
figlia di una congiuntura economica estremamente sfavorevole – e certo
di un modello economico sbagliato – ma l’attesa sconfitta dei
conservatori, io credo, parte soprattutto da un rigetto del modello
culturale della destra. E penso che questo sia uno sviluppo estremamente
positivo, anche a prescindere dalla pochezza delle alternative, i
liberali e l’NDP.
Parliamo allora di queste alternative.
L’NDP era un partito socialista, elettoralmente marginale che alle
ultime elezioni per la prima volta è arrivato secondo – divenendo
l’opposizione ufficiale al governo conservatore – ed ora è dato in testa
ai sondaggi per le elezioni di Ottobre. In 10 anni il Partito ha
decuplicato i seggi, ma questo è avvenuto con un graduale spostamento
verso il centro, puntando a rimpiazzare i liberali come principale
partito progressista – a tal punto che ora i Liberali criticano da
sinistra l’NDP per non voler rompere definitivamente il ciclo
dell’austerity e rimanere fedele al feticismo del pareggio di bilancio.
Cosa ci puoi dire sulla sinistra canadese?
L’NDP è un
partito con una lunga storia di sinistra, socialista, per quanto da
sempre anti-comunista. Ha sempre avuto un forte radicamento nella
provincia canadese ed è stato all’avanguardia nello stabilire un sistema
sanitare pubblico e non mercificato (il Canada ha una sanità pubblica
molto simile a quella italiana, ndr). Naturalmente lungo la strada ha
perso le sue ambizioni progressiste, come è successo d’altronde ai
partiti socialisti europei. Ha sostituito il cambiamento sociale con la
difesa della sanità – ed in fondo va bene così. Non possiamo farci
illusioni: ogni volta che è andato al governo a livello locale, l’NDP si
è sempre compromesso con i poteri forti, accettando la logica
dell’austerity, dei tagli. Per molti dirigenti l’orizzonte è divenuto
quello della Terza Via blairiana, abbracciando la mercificazione dei
rapporti sociali invece di combatterla. L’obiettivo è chiaramente
sostituire i Liberali (da sempre il partito del potere, in Canada, ndr).
Trovo terribile che un partito che si dichiara di sinistra si riferisca
ai capitalisti come “creatori di posti di lavoro”, esaltandone il
coraggio e cancellando completamente, anche nell’immaginario collettivo,
la dialettica sociale e le contrapposizioni tra capitale e lavoro.
Detto
questo, l’NDP offre un piano per una scuola materna universale, difende
la sanità pubblica, e soprattutto si oppone alla mercificazione del
settore farmaceutico. Sono chiaramente cose positive. Come è positivo
che i Liberali li pungolino da sinistra con proposte di politica
economica keynesiane.
L’aspetto più importante non è tanto il
cambiamento che un nuovo governo potrà introdurre, quanto, appunto,
l’opposizione a questa destra. NDP e Liberali hanno diverse somiglianze e
dovranno probabilmente governare insieme (forse con un governo di
minoranza dei primi) ma non riescono a raggiungere una intesa minima
sulla strategia elettorale, nella forma quantomeno di una desistenza nei
collegi dove una divisione tra Liberali e NDP favorirebbe una vittoria
conservatrice (nel Canada vige un sistema maggioritario secco, ndr).
Finiamo
parlando degli Stati Uniti. L’aspetto che mi sembra più interessante
analizzare è una qual certa radicalizzazione e polarizzazione della
politica americana. Come noto, il sistema politico americano si è da
sempre basato sul binomio Repubblicani-Democratici. Come scrivi nel tuo
libro, nonostante ci siano delle differenze, entrambi i partiti sono
espressione di un certo tipo di interessi, quelli del capitale e dell’
“impero” americano, più militaristi i Repubblicani, mentre i
Democratici, con Clinton ad esempio, sono stati decisivi per la
penetrazione del capitale finanziario in tutti gli angoli del globo.
Quello cui ci troviamo però di fronte ora sono fenomeni se non nuovi,
quantomeno non usuali. Negli ultimi anni abbiamo avuto Occupy e i Tea
Party, ora abbiamo Bernie Sanders (l’unico senatore americano che si
definisce socialista) e anche Donald Trump. Cosa ci puoi dire su questa
possibile evoluzione della democrazia americana?
Pare
anche a me che ci sia una certa polarizzazione. A destra c’è una
radicalizzazione evidente con i Tea Party. Non è un fatto nuovo, in
realtà questa destra “esaltata” è sempre esistita negli Stati Uniti,
risorgendo a livello nazionale a intervalli regolari. Come scrive il mio
amico Frances Fox Peven, esperto di movimenti sociali americani, è
sempre esistito un 30% di americani “politicamente certificabili come
squilibrati i a destra”; era vero nel 1930 con Father Coughlin (un
predicatore radiofonico, ndr) e nel1840 con il Know Nothing Movement (un
movimento anti-cattolico e anti-immigrazione, ndr) e ora vedi Trump o
Fiorina, e sembrano tornati quei tempi lugubri. Non bisogna
sottovalutarli, perché sono molto forti nel Congresso e hanno una vera
influenza politica. Allo stesso tempo non sono mai davvero riusciti a
bloccare lo Stato americano, il Tesoro, la FED. Perché? Perché sanno che
i bond americani, che lo Stato americano, è il centro fondamentale ed
imprescindibile del capitalismo globale – un santuario intoccabile. E’
comunque assai curioso che sia la destra estrema e non certo la sinistra
a mettere in pericolo l’impero americano. Di sicuro questo dimostra la
disfunzionalità della politica americana, e certo è preoccupate vedere
questi movimenti prendere forma e forza così spesso negli Stati Uniti.
A
sinistra, insieme al radicalismo quasi anarchico di Occupy, ci sono
stati anche molti movimenti locali e grassroot auto-organizzati di
lavoratori, di consumatori, di cittadini. Sono organizzazioni molto vive
e molto attive che sorprenderebbero tanti osservatori europei. Non
esiste però alcuna forma di strutturazione e di organizzazione politica,
soprattutto a livello nazionale, e questi movimenti spariscono in
fretta come sorgono, non lasciando purtroppo molte tracce. La
candidatura di Sanders è una cosa ottima, su una piattaforma molto
progressista su molti punti. Nuovamente però, si tratta, credo, di una
candidatura, per quanto importante, un po’ fine a se stessa perché senza
le ambizioni di costruire qualche cosa che duri nel tempo, oltre la
campagna elettorale.
Non ho molte aspettative a dire il vero. Nel
Partito Democratico è impossibile che Sanders possa davvero vincere la
nomination, la sua candidatura è estranea alla natura di quel Partito e
sono sicuro che se si avvicinasse ad una impresa del genere, verrebbe
fuori all’ultimo momento un nuovo candidato per unificare il resto del
Partito contro di lui. E’ vero che nel passato i Democratici hanno già
avuto momenti di radicalizzazione, non bisogna dimenticare la campagna
di Jesse Jackson e soprattutto il movimento che portò alla candidatura
di McGovern nel 1972 e che fu poi distrutto dai Sindacati che
preferirono vedere Nixon vincere piuttosto che la Sinistra conquistare
il paese. Per concludere, c’è sicuramente una nuova ondata di
movimentismo politico, ma non mi sembra in grado di mettere davvero in
difficoltà la forza dell’ “Impero” Americano.
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