sabato 2 agosto 2008

Glossario utile - Petrolio, Cina, Dollaro, Credit Crunch, Speculazione, Tassi, Inflazione -


CRISOPOLY

Carlo Leone Del Bello
Roberto Tesi

PETROLIO
C'è chi rimpiange le quotazioni della fine del XX secolo: il petrolio a 10 dollari al barile era una vera pacchia. Certo, non per i paesi esportatori che vedevano assottigliarsi le loro entrate e - è il caso dell'Algeria - non riuscivano neppure a pagare i dipendenti pubblici. Da alcuni anni le quotazioni del greggio stanno salendo, anche se hanno ripiegato un po' negli ultimi giorni. Nel 2003 il petrolio costava poco più di 30 dollari. Poco meno in euro. Attualmente costa attorno ai 125 dollari, ovvero 84 euro. In 5 anni la quotazione in dollari si è quasi quintuplicata, mentre in euro l'incremento è di circa il 200%. L'aumento del prezzo dell'oro nero ha portato a un balzo generalizzato dei prezzi e - vista la rigidità dei salari nell'era della globalizzazione - a un minore incremento dei consumi e di conseguenza ha provocato un rallentamento della crescita. Altro effetto negativo l'aumento delle quotazioni lo sta producendo sui conti con l'estero dei paesi (come l'Italia) che dipendono per larga parte dalla importazioni energetiche. Sicuramente, nel medio periodo le importazioni dei paesi esportatori di greggio saliranno. Per ora, invece, i paesi petroliferi stanno accumulando enormi riserve che spesso vengono utilizzate dai «fondi sovrani», cioè dai fondi di investimento statali per fare shopping nei paesi industrializzati. Come andrà a finire? Dipende ovviamente da quale sarà la dinamica dei prezzi. Di petrolio, infatti, ancora ce n'è (le stime dicono che le attuali riserve sono sufficienti a coprire la domanda per altri 41 anni) ma costa tantissimo estrarlo e le «7 sorelle» con relative cugine, investono poco: con gli attuali alti prezzi fanno enormi profitti. Per ora gli va bene così: in futuro le fonti energetiche non saranno di origine fossile e molte compagnie stanno investendo alla grande sulle fonti rinnovabili.

CINA e DINTORNI

La Cina, l'India, la Russia, il Brasile e altri paesi di recente e forte industrializzazione sono indicati come i responsabili della impennata dei prezzi delle materie prime. La loro colpa è l'imitazione del modello di sviluppo occidentale favorito dalla invasione delle multinazionali (50 mila solo in Cina le imprese estere) che producono direttamente in quei paesi per beneficiare dei più bassi costi del lavoro e della minore protezione dei lavoratori e dalla enorme flessibilità. L'effetto dell'avvio di un processo accelerato di crescita è visibile nei dati del Pil che in questi paesi (non solo in Cina) cresce a tassi superiori alle due cifre accompagnato da un forte aumento della domanda interna. Quando 1,3 miliardi di persone (la popolazione della Cina) mangiano più proteine o acquistano milioni di auto è inevitabile che il prezzo della materie prime cresca. Ma possiamo fargliene una colpa?
Un contributo alla crescita dei prezzi arriva anche da questi paesi che stanno «sconvolgendo» il vecchio mercato mondiale. Un tempo, quando gli Usa andavano in recessione, tutto il mondo industrializzato seguiva a ruota e la domanda scendeva facendo da freno alla crescita dei prezzi. Oggi non è più così: un rallentamento della crescita è avvertito anche in Cina, India e negli altri paesi, ma la domanda interna rimane forte. Questo significa che i prezzi delle materie prime non scendono più. O scendono molto poco.

LA CASA
«La casa è il salvadanaio degli americani», dicevano gli analisti. Con la casa di proprietà i cittadini Usa potevano (e, in parte, ancora possono) coprire ogni spesa. Come? Semplice: con la rinegoziazione dei mutui. Il boom immobiliare statunitense è durato quasi 10 anni e in questo periodo pochi hanno acquistato una casa in contanti. Tutti preferivano ricorrere ai mutui favoriti dalla politica dei bassi tassi di interesse praticata da Greenspan per sorreggere l'economia. Si è così innescato un meccanismo infernale: la forte domanda faceva salire i prezzi delle case e la gente correva in banca per rinegoziare il mutuo e poi pagarsi, con i soldi in più che riceveva, l'auto, la sanità, il fondo pensione, l'istruzione dei figli. Insomma, il welfare e più in generale consumi. Non a caso gli Usa (come paese) e come privati cittadini) sono i più indebitati del mondo. L'economia in espansione dava certezza di redditi futuri e quindi le banche non facevano difficoltà a concedere la rinegoziazione del mutuo. O anche a concedere mutui a chi non aveva assolutamente garanzia da offrire. Nascono così i mutui subprime. Infernali, ingannevoli. Spesso per i primi due anni i tassi di interesse erano bassissimi per invogliare il contraente. Poi dal terzo anno schizzavano a livelli impossibili: da 10% in su. Ma la catena di Sant' Antonio a un certo punto si è interrotta. Abbiamo scoperto una nuova parola: «foreclusure». Significa «pignoramento». Le banche ne stanno facendo a decine di migliaia ai cittadini che non pagano le rate di mutuo. Ma nel frattempo i prezzi delle case sono crollati e le case pignorate non valgono quasi più nulla. E le banche accumulano perdite.

IL CREDIT CRUNCH

La catena di Sant antonio dei mutui subprime funzionava così: a) società finanziarie concedevano il mutuo; gli stessi mutui venivano ceduti alle banche per avere nuovo denaro per proseguire l'attività; le banche a loro vota cartolarizzavano i mutui, emettendo obbligazioni a alto rendimento (garantite dagli alti interessi sui mutui) e queste obbligazioni finivano nele mani di istituzioni o privati cittadini. Anche per i mutui «normali» spesso il meccanismo era questo. Ma a un certo punto il meccanismo si è inceppato e il boom edilizio ha cominciato a sgonfiarsi. Un contributo lo ha dato l'aumento del costo del denaro che ha messo in crisi anche il credito al consumo, provocando un forte rallentamento della crescita dei consumi. Risultato: l'economia Usa frena, trovare lavoro diventa più difficile, i disoccupati aumentano: 1,5 milioni in più in 12 mesi. Non è recesssione, ma poco ci manca. Anche a causa dell'inflazione crescente che riduce il potere d'acquisto, milioni di persone non sono più in gradio di pagare i mutui e inizia la stagione dei pignoramenti. Le banche si ritrovano per le mani case il cui valore (coperto dal mutuo) è sceso del 30% e sono diventate invedibili. Per onorare le obligazione emesse sono costrette ad attingere ai fondi ordinari. E sono costrette a evidenziare enormi perdite in bilancio. A questo punto necessitano di risorse e cominciano a salire i tassi interbancari, quelli che regolano i prestiti tra le stesse banche. Che oltretutto debbono adeguare il capitale alla nuova situazione che si è creata. E' la crisi del credito.

LA SPECULAZIONE

La speculazione oggi è rimasta orfana del boom edilizio e risente della e crisi delle borse. Dove fare affari? La nuova frontiera è quella dei future sul petrolio e sulle materie prime. Sicuramente non è solo la speculazione che ha spinto all'insù le quotazioni, ma un buon contributo l'ha dato. Basti pensare che solo negli Usa ogni giorno sul mercato dei future del petrolio vengono firmmati contratti per un miliardo di barili contro un aproduzione reale di petrolio inferiore ai 90 milioni. Questo significa che solo una percentuale minima dei contratti si risolve con la consegna materiale del greggio. Tutto il resto è pura speculazione. Lo stesso accade per tutte le altre materie prime. E' il mercato dei future che influenza il prezzo del mercato «a pronti». E scommettere sui futur non costa caro: a garanzia serve un deposito pari al 5% della somma complessiva investita. Certo, in caso di cali impriovvisi si possono perdere un mucchio di soldi, ma i guadagni sono in generale mostruosi: bastano pochi centesimi nella variazioni del prezzo per portare a casa barche di soldi. Senza contare che recentemente è stato anche scoperto che c'erano società che «truccavano» un po' le quotazioni. Sui future non c'è di fatto tassazione. Tremonti ha proposto di alzare il deposito a garanzia. Sarebbe meglio se i grando della terra si mettessero d'accordo per introdurre una piccola tassa di pochi centesimi al barile (una sorta di Tobin tax) la specualzione sarebbe spazzata via.

I TASSI
«Il mutuo a tasso variabile è molto più conveniente»: i solerti funzionari della banche lo hanno consigliato per anni ai clienti che volevano acquistare casa. Hanno abboccato in tanti. E ora pagano pegno. Con la salita dei tassi ufficiali e ancora di più con quella dei tassi interbancari - Euribor - provocata dalla frenetica ricerca di liquidità da parte delle banche, il costo del mutuo (soprattutto quelli contratti nel 2003-2006 - è lievitato enormemente e le rate sono salite del 30-40 per cento, con punte anche superiori. Sopravvivere diventa sempre più complicato. Anche perché l'inflazione sta erodendo il potere d'acquisto. Moltisimi sono costretti a stringere la cinghia, riducendo i consumi la cui discesa provoca un rallentamento dell'economia e quindi una decelerazione del Pil. Anche le imprese fanno la loro parte: investono sempre meno e ricorrono di più alla cassa integrazione, mentre la crescita dell'occupazione si blocca, bloccando la crescita del reddito.

LE BORSE
In passato il tracollo delle economie ha preso il via dai mercati azionari che, in generale, vivono di vita propria, ma colllegata all'andamento del'economia reale. In generale le borse anticipano l'andamento del ciclo economico. Questo significa che comincia la fase discendente quando l'economia va ancora bene e cominciano a risalire quando l'economia reale è ancora in crisi, ma ci sono prospettive di ripresa. Da mesi le borse mondiali vanno male: gli indici italiani hanno perso negli ultimi 12 mesi quasi il 30%. Male anche il Nikkei giapponese, la borsa inglese, la francese e la tedesca. Il Dow Jones Industrial in un anno è sotto di oltre il 15%, ma occorre tenere presente che l'indice è costruito sulla base delle 30 più grandi multinazionali statunitensi, colossi che capitalizzano anche più di 300 miliardi di dollari. Nelle fasi di crescita (quando il toro scalpita) i guadagni in borsa (i capital gain, ma anche i dividendi) contribuiscono alla crescita del Pil stimolando i consumi. Oggi con le borse che ripiegano, manca questo elemento. Le borse, al contrario di altre fasi, non danno alcun contributo alla crescita. Di più: nei prossimi mesi, secondo molti esperti, le quotazioni scenderanno ancora, visto che in generale i conti economici delle imprese non brillano, come dimostrano le «trimestrali» che qusi quotidianamente vengono presentate. Occhio alla borsa, però: quando le quotazioni risaliranno stabilmente dopo 6-9 mesi saranno visibili anche i primi segnali di una inversione del ciclo economico.

L'INFLAZIONE

Quindici mesi fa in Europa era al 2%, ora è al 4.1% e in paesi importanti (come la Spagna) al 5,3%. L'euro forte protegge un po' dagli aumenti: negli Usa, infatti, la crescita dei prezzi è sopra il 5%. A tirarela volata dei prezzi sono i rincari delle fonti energetiche (e non va meglio nella Francia nuclearizzata, visto il forte aumento del prezzo dell'uranio salito a 100 dollari l'oncia) e delle materie prime alimentari il cui prezzo è spinto sia dalla crescente domanda che dal forte uso dei derivati del petrolio (combustibili e concimi chimici, su tutti). Al netto della componente energetica e di quella alimentare l'indice (il core index, come viene chiamato) mostra un trend più contenuto. Ma progressivamente c'è una traslazione degli aumenti e quindi il core index finirà per allinerasi all'indice del costo della vita. Le retribuzioni non sono allineate all'aumento dei prezzi: di conseguenza il potere d'acquisto di milioni di persone sta diminuendo. E questo si riflette sui consumi: si acquistano meno auto, si cerca di risparmiare sul cibo, si fanno vacanze più corte, meno ristorante e meno cinema. La domanda globale in questo modo frena e per i paesi dell'euro diventa quasi impossibile (nel breve periodo) supplire con un aumento delle esportazioni che, soprattutto in Italia, in altre fasi cicliche hanno trainato la crescita del Pil. Se proseguirà la contrazione dei consumi, la distribuzione reagirà - sta già cominciando a farlo, come si può vedere dagli aumenti dei listini delle auto - con aumenti dei prezzi per mantenere invariati i margini di profitto. Solo il «redito fisso» non potrà recuperare, visto che gli aumenti di pensioni e salari hanno un tetto prefissato: il tasso di inflazione programmato. Questo significa un nuovo peggioramento nella distribuzione del reddito: come sempre l'infllazione non è uguale per tutti.

LIBERO COMMERCIO
La materie prime alimentari crescono anche a causa dei vincoli al libero commercio perché tutti i paesi seguitano a praticare politiche protezioniste. Che significa sussidi ai produttori (anche facendo pagare l'acqua quasi nulla) e dazi all'importazioni dall'estero, in particolare dai paesi meno sviluppati. Per decenni gli Usa hanno favorito l'importazione delle materie prime, ma penalizzato pesantemente quelle di semilavorati. Il Giappone per lunghi anni nel dopoguerra (con il consenso Usa) ha protetto la sua agricoltura, ma favoriva l'import di prodotti industriali, soprattuto beni strumentali. Solo due esempi di una pratica diffusa che nonostante interminabili trattative a livello mondiale non si riesce a interrompere. I paesi più poveri hanno bisogno di controllare le importazioni, mentre avrebbero bisogno (per svilupparsi) di esportare di più. Ma i paesi dell'occidente non ci stanno e impongono pesanti dazi sui prodoti agricoli. Perché? Il motivo è poco economico, ma anche poco nobile: il libero commercio non piace, perché provocherebbe un drastico ridimensionamento dell'agricoltura nei paesi ricchi. E gli agricoltori, anche se ridimensionati nel numero, sono ancora una formidabile forza politica. Risultato: meglio mandare qualche miliardo di aiuti (di merci prodotte nei paesi ricchi) ai paesi poveri, che favorire la loro crescita. Ma c'è un altro risvolto negativo: il protezionismo finisce per far lievitare i prezzi e i consumatori pagano due volte. La prima come contribuenti e la seconda come consumatori.

LA STAGFLATION
Di solito (senza generalizzare) le fasi di alta inflazione provocano una secca riduzione della crescita. Poi, grazie alla recessione, i prezzi frenano e, in alcuni casi scendono. In questo modo si riavvia il processo di accumulazione. Succede, però - non solo in teoria - che la fase di inflazione sia accompagnata da una fase recessiva. O quantomeno di stagnazione: così nasce il termine «stagflation». La causa principale di una inflazione prolungata è nella natura «esogena» dell'inflazione stessa. Questo significa che anche frenando ulteriormente la domanda, i prezzi seguitano a crescere. E i prezzi crescono ancora di più se si segue una politica economica espansiva. Insomma, La stagflation è una brutta bestia per gli economisti e per i politici: combatterla non è facile. Negli Usa la Fed ha optato per una politica monetaria espansiva per cercare di sorreggere i consumi e la crescita. In Europa la Bce sta facendo una scelta opposta: alzando i tassi cerca di frenare la domanda e quindi spera di frenare la crescita dei prezzi. Una strategia che può funzionare a patto di strangolare il potere d'acquisto dei consumatori, non consentendo il recupero salariale dell'inflazione. Il tutto potrebbe anche funzionare, ma occorrerebbe uno stato sociale fortissimo e una forte presenza dell'economia pubblica in grado di garantire una politica economica che oggi va di moda chiamare anticiclica.

I SALVATAGGI

Undici mesi fa sulle prime pagine dei giornali finì una banca sconosciuta ai più: la Northern Rock. Una banca privata (che aveva sempre distribuito utili ai suoi azionisti) precipitata in crisi nera (con tanto di code agli sportelli) a causa del tracollo dei mutui. La banca è stata salvata dal governo britannico che - dopo averla abbondantemente finanziata - l'ha nazionalizzata. Insomma, la crisi finanziaria ha fatto passare in secondo piano la parola d'ordine «privato è meglio». Recentemente - sul Financial times - il premio Nobel Joseph Stiglitz ha criticato la decisione del congresso americano di stanziare 300 miliardi di dollari per aiutare il sistema bancario Usa in crisi a cominciare da Fannie Mae e da Freddie Mac, le due società (private) che grosso modo hanno rifinanziato il 59% dei mutui concessi negli Usa. Stiglitz nella sua critica usa un linguaggio extraparlamentare. Scrive che negli Usa si «privatizzano gli utili e si pubblicizzano le perdite». Il tutto sta avvenendo in maniera strisciante. La forma più subdola sono i rifinanziamenti in pratica non garantiti da nulla, visto che sono garantiti solo da obbligazioni spazzatura, che la Fed e la Bce concedono a piene mani alle banche e alle società finanziarie. Lo strumento si chiama Taf e il prestitito viene concesso a un tasso di poco superiore al 2%. Di fronte a un sistema che fa acqua da tutte le parti, si preferisce aiutare il sistema finanziario che ha messo in crisi l'economia reale, anziché attuare una politica economica redistributiva in grado di garantire formazione, sanità, previdenza e il diritto alla casa.

TRAPPOLA DEL DOLLARO
L'Opec sostiene che la svalutazione e la volatilità della moneta Usa è alla base della forte crescita dei prezzi del greggio e delle altre materie prime. In parte è vero, ma le responsabilità della valuta Usa sono ben altre. Dopo il periodo di potere imperiale inizato nel 1944 con gli accordi di Bretton Wood, dopo il 1971 (accordo del Plaza) il signoraggio del dollaro è proseguito anche con un regime di cambi decisamente meno fissi. Di fatto per lunghi decenni sono stati gli Stati uniti a decidere la politica monetaria mondiale e il livello di valutazione del dollaro. E hano costretto anche molti paesi ad agganciare la propria moneta al dollaro per non subire penalizzazioni nel commercio estero. Di più: gli Usa sono riusciti sempre a finanziare la loro politica economica (a cominciare dalla guerra nel VietNam) manovrando tassi e moneta. Da anni il commercio estero Usa segna deficit enormi (al pari del bilancio federale) che vengono sistematicamente coperti dai paesi (un tempo il Giappone, ora l'Opec e la Cina) dagli investimenti esteri. Il debito Usa (molto più grande di quello italiano in cifra assoluta) è nelle mani di investitori esteri che ovviamente fanno il tifo perché la valuta Usa non si svaluti ulteriormente. Una svalutazione che di fatto potrebbe avvenire (con grande aiuto per le esportazioni di merci Usa) anche rivalutando lo yuan e lo yen. Ma Cina e Giappone che hanno economia molto trainate dall'export non vogliono rivalutare le rispettive monete. Sarebbe necessario un nuovo accordo monetario mondiale, ma gli Usa non hanno nessun interesse a promuoverlo. E il disordine prosegue.

Dal Manifesto del 01/08/08

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