martedì 9 luglio 2013

Zingales, quello che non dà la colpa all’euro.

dal blog di Mauro Poggi

 

Consiglio a tutti la lettura dell’articolo di Zingales sull’Espresso del 27 giugno, nella sua rubrica Libero Mercato, dal titolo “Non diamo la colpa all’euro”. Se non avete comperato il settimanale, eventualità per cui non mi sentirei di biasimarvi, potete trovare una riproduzione dell’articolo sulla rassegna stampa del MPS del 21 giugno. In questo post mi limiterò a citare alcuni passaggi e a commentarli.

Zingales inizia accennando a un sogno europeo che sembra  (bontà sua) essersi trasformato in incubo, e cita i sondaggi che danno in caduta libera l’integrazione europea nei gradimento degli europei. Ma si stupisce che nonostante tutto  la maggioranza degli europei rimanga a favore dell’euro:

“Quello che dovrebbe stupire maggiormente, però, non è la rivolta contro l’Europa, ma il perdurare del sostegno a favore. Le crisi economiche favoriscono sempre le tendenze egoistiche e centrifughe. Ciononostante la maggioranza degli europei rimane a favore dell’euro.”

Come mai questa contraddizione? La domanda è stimolante. Personalmente spiegherei il fenomeno con la disinformazione terroristica a cui politici e media dedicano gran parte del loro tempo. Ogni benedetto giorno che il buon Dio manda in terra ci vengono propinate cifre iperbolicamente disastrose come conseguenza dell’uscita dall’euro:  carriolate di banconote per andare a comprare il giornale (cfr Bersani); benzina che costerà sette volte tanto (cfr Plateroti, vicedirettore del sole 24 ore), inflazione che schizzerà al 50% (cfr Tabacci); vaticini di anziani (trivial) opinion makers,  asseverati da giovani speranze dell’informazione omologata, che ospiti di in qualunque salottino delle compiacenze in TV evocano destini marocchini o egiziani se mai si lasciasse l’euro (cfr Scalfari e Floris a Ottoemezzo: citato da  Mainstream, qui). Con una martellante propaganda del genere, stupisce semmai che qualcuno sia così audace da pensare a una valuta nazionale. O no?

No. Per Zingales la ragione è altra. Secondo lui l’apparente contraddizione ha implicazioni psicologiche molto più sottili di quelle imputabili alla banale suggestione:

“I sondaggi mettono in luce le contraddizioni insite nel progetto europeo. La maggior parte degli europei ama la stabilità dell’euro: la sicurezza che questa stabilità garantisce ai risparmi e alle promesse pensionistiche di una popolazione sempre più vecchia. Ma odia i costi che questa stabilità richiede.”

Per quanto ne so io, la sola sicurezza garantita dalla stabilità dell’euro è quella riservata ai possessori di crediti. Una moneta forte e una Banca centrale  con una patologica fobia a qualunque ipotesi di inflazione servono solo a tutelare il sistema finanziario. Forse lo psicotico controllo inflazionistico ha impedito che i risparmi venissero erosi di qualche decimo di punto, ma la maggior parte dei cittadini li ha visti pesantemente intaccati e spesso compromessi dalla necessità di farvi ricorso per supplire al crollo dei redditi legato alla disoccupazione dilagante.  Quanto alle promesse pensionistiche, beh, anche qui è difficile capire a quale film Zingales si riferisca: sarebbe bello che lo spiegasse, questo film, a una platea di esodati, o di pensionandi a cui il filo del traguardo è stato improvvisamente spostato proprio in dirittura d’arrivo. Probabilmente, loro ne hanno visto uno completamente diverso.

Ma odia i costi che questa stabilità richiede“. A quali costi si riferisce? Forse alla distruzione dei risparmi o dello stato sociale, oppure alla continua emorragia dei posti di lavoro, che solo in Italia, oggi, ha fatto registrare un 12,2% di disoccupati (benvenuti nel 1977).
Il professor Zingales non lo precisa. Dice però che il cittadino europeo “odia ancora di più [più di questi costi] l’idea di procedere verso un’integrazione politica necessaria per far sopravvivere la moneta unica”. Una tesi singolare, ma evidentemente il professore si fida del proprio sondaggista.

Da un’analisi generale, Zingales passa poi a quella più particolare dell’Italia:

L’integrazione economica con il resto d’Europa ha portato enormi vantaggi all’Italia. Anche l’integrazione normativa ha contribuito ad ammodernare il nostro paese.”

Infatti. Oltre alla scadenza delle mozzarelle e alle prescrizioni igieniche per la produzione del lardo di colonnata, l’integrazione ci ha regalato ottimi strumenti per governare la crisi: il pareggio di bilancio in Costituzione e il Fiscal compact (cui seguirà a breve l’ancor più vincolante Two packs). Il primo ci vieta ogni spesa in deficit, foss’anche per ragioni virtuose quali potrebbero essere le misure di stimolo all’economia per la creazione di posti di lavoro; il secondo ci obbliga a trovare ulteriori risorse da stornare a favore della diminuzione del debito, in ragione di 40-60 mld all’anno (a secondo dell’andamento del PIL) per i prossimi venti anni. Come a dire che di fronte alla sistematica distruzione del tessuto industriale italiano, a cui stiamo assistendo da anni, l’unica cosa che un governo può fare è incrociare le dita e sperare che il vento cambi.
La moralizzazione della spesa è uno dei maggiori risultati che l’integrazione economica e normativa con il resto dell’Europa ci ha portato in dono. Draghi, e prima di lui Monti – con diverse parole ma esprimendo analogo concetto, lo hanno detto: indipendentemente da chi sta al governo, c’è un pilota automatico che impone un’unica strada, quella indicata dall’Europa. Il Presidente del consiglio Letta ribadisce l’idea ogni volta che ne ha occasione, specie a corollario dei suoi ricorrenti pistolotti sull’emergenza della disoccupazione giovanile (come se il resto dei disoccupati fosse un argomento meno impellente): “Non sono qui per sfasciare i conti dello Stato“.

L’euronomics ormai è patrimonio culturale comune: piuttosto che sfasciare i conti dello Stato, sfasciamo il Paese (e se questa vi sembra un’iperbole semplificativa, pensate alla Grecia).

In fondo, il maggior vantaggio tratto dall’integrazione è che non non abbiamo più bisogno di avere al governo uno statista, e nemmeno un politico passabile: ormai basta un buon ragioniere.

“La tanto criticata scelta di entrare nell’euro fu una necessità, non una scelta. [...] Per finanziare il debito lo Stato italiano doveva pagare interessi molto elevati. Questi interessi furono una delle principali cause dell’esplosione del debito pubblico negli anni 80.”

Precisiamo. Nel 1981, con un grazioso scambio di lettere fra gli allora Ministro del Tesoro (Andreatta) e  Governatore della Banca d’Italia (Carlo Azeglio Ciampi), e senza nemmeno passare per il Parlamento, fu sancito il divorzio fra le due istituzioni, dando il via a una gigantesca redistribuzione del reddito in senso sperequativo che perdura a tutt’oggi (fra gli sponsor dell’operazione, tale Monti). Fino a quel momento Bankitalia aveva garantito le aste di collocamento, e  i tassi di interesse reali pagati dal tesoro tendevano a essere negativi (inferiori al tasso di inflazione): una tassa occulta sulle rendite finanziarie e un modo automatico di rientro del debito.
Dieci anni dopo, in una significativa intervista al Sole 24 Ore, lo stesso Andreatta commentava quell’episodio. Eccone alcuni passi eloquenti (ma suggerisco di leggerla per intero, ne vale la pena):
I miei consulenti legali mi diedero un parere favorevole sulla mia esclusiva competenza, come ministro del Tesoro, di ridefinire i termini delle disposizioni date alla Banca d’ Italia circa le modalità dei suoi interventi sul mercato, e il 12 febbraio 1981 scrissi la lettera che avrebbe portato nel luglio dello stesso anno al divorzio Il divorzio non ebbe allora il consenso politico, ne’ lo avrebbe avuto negli anni seguenti; nato come “congiura aperta” tra il ministro e il governatore divenne, prima che la coalizione degli interessi contrari potesse organizzarsi, un fatto della vita che sarebbe stato troppo costoso – soprattutto sul mercato dei cambi – abolire per ritornare alle più confortevoli abitudini del passato … [Praticamente una misura presa mettendo il Parlamento di fronte al fatto compiuto e lasciando i cittadini all'oscuro di tutto, dal momento che il dibattito nel Paese fu nullo; secondo una prassi anti-democratica che con il tempo si è andata consolidando, conforme in ciò alla prassi europea.] Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’ escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale.  Da quel momento in avanti la vita dei ministri del Tesoro si era fatta più difficile e a ogni asta il loro operato era sottoposto al giudizio del mercato.

Questa illuminata misura, prodromica all’ingresso nello SME antesignano dell’euro (già allora “ce lo chiedeva l’Europa”), fece lievitare la spesa per interessi al punto che lo stato non solo fu costretto a emettere titoli per rinnovare il debito, ma a indebitarsi ulteriormente per pagare gli interessi, il cui ammontare quindi diventava a sua volta debito generatore di interessi.

Il grafico qui sotto indica benissimo la correlazione fra divorzio e andamento del debito:

 



“L’entrata nell’euro ci ha fornito in dote un lungo periodo di tassi d’interesse molto bassi. [...] Se avessimo utilizzato il risparmio in spese per interessi invece che aumentare la spesa oggi il rapporto debito pil sarebbe dell’80 e non del 130.”
(Nota: Si tratta del famoso “dividendo dell’Euro”, espressione che ha usato per la prima volta (credo) il pluri-laureato Oscar Giannino, secondo il quale per effetto dei minori interessi pagati a seguito dell’entrata nell’euro avremmo risparmiato qualcosa come 700 miliardi (cfr qui, a partire dal minuto 6). Per dirla brevemente, Giannino assume che gli alti interessi pagati dall’Italia fra gli anni ’80 e i primi anni ’90 sarebbero rimasti tali se l’Italia  avesse mantenuto una propria moneta nazionale, e la differenza fra quegli ipotetici interessi e quelli effettivamente pagati è il “dividendo” che l’euro ci ha regalato. Se invece di dilapidare questa dote l’avessimo giudiziosamente destinata al rimborso del debito, ecco che oggi avremmo un rapporto debito/PIL analogo a quello della virtuosa Germania).
Ci sono alcuni punti da eccepire alla considerazione di Zingales.
1) Intanto, il messaggio implicito continua a essere che quella che stiamo vivendo è una crisi da debito sovrano. La spiegazione alternativa, dice che la crisi è l’esito di un processo vizioso, innestato dalla moneta unica e dalla liberalizzazione dei mercati finanziari, che ha prodotto la dilatazione dell’indebitamento privato nei paesi del Sud Europa nei confronti delle banche nord-europee. Un processo conosciuto come “Ciclo di Frenkel“, dal nome dell’economista argentino che ne ha fornito l’analisi, e sempre più diffusamente accettato anche in ambienti ortodossi – ultimo, in ordine di tempo, Vítor Constâncio vice-presidente della BCE.
La ragione per cui la versione “debito sovrano” continua a essere propalata, è che il debito pubblico implica un richiamo alla responsabilità comune e rende psicologicamente più accettabile ai cittadini l’imposizione di sacrifici ufficialmente richiesti per abbatterlo (è morale ripagare i propri debiti), ma in realtà finalizzati alla tutela delle grandi banche private che hanno optato per spensierate quanto lucrose esposizioni fino al 2007.
2) Gli elevati interessi dell’epoca – punto più punto meno – non riguardavano la sola Italia, ma tutti i paesi del mondo;  a partire dalla seconda metà degli anni ’90 è iniziata una discesa  ovunque, Italia compresa. L’aggancio all’euro ha certamente aiutato un processo di convergenza dei tassi, ma il risparmio ipotizzabile non si può facilmente quantificare e comunque sembra ben lontano dalla cifra iperbolica indicata da Giannino. Per chi volesse approfondire, questo articolo di Bagnai su Il Fatto Quotidiano è chiaro ed esauriente.
3) Merita una chiosa anche il messaggio: “potevamo ridurre il debito, invece abbiamo continuato a dilapidare perché siamo spreconi”. Zingales dimentica (dimentica?) che siamo uno dei pochi paesi al mondo che possono vantare un avanzo primario strutturale; con la sola eccezione del 2009, infatti, da ben 22 anni le entrate superano i fabbisogni, cioè lo Stato spende meno di quanto incassa.
Nella tabella sottostante lo storico dell’avanzo primario.

ITALIA_Avanzi Primari_ 1990-2011

Inoltre, la spesa pubblica pro-capite è nella media di quelle europea. “[...] nel 2012, il volume della spesa “di scopo” rispetto al Prodotto interno lordo risulta essere inferiore di oltre un punto percentuale rispetto alla media europea (l’Italia si attesta al 45,4%, mentre l’Europa a 15 è al 46,9%; la Francia arriva addirittura al 54%)” (Cfr Il Sole 24 Ore, Realfonzo e Perri, riportato da Keynes Blog). 


(tramite Rebusmagazine.org)

Si può discutere sulla qualità ed efficacia della spesa, ma non si può sostenere che è stata la spesa a gonfiare il debito.
Ciò che fa lievitare il debito sono gli interessi, che storicamente ormai costituiscono l’intero ammontare del debito e producono ulteriori interessi per ripagare i quali dobbiamo ulteriormente indebitarci. Qualcosa che ricorda il fenomeno detto “anatocismo”, e anche il gatto che si morde la coda. E di cui dobbiamo ringraziare Andreatta e Ciampi.
Sull’ottimo blog di Leprechaun c’è un
post molto analitico e denso di tabelle che lo spiega.
“Se l’Italia rischia il default è colpa non dell’euro ma della nostra classe politica.”
Qui è difficile dar torto al professor Zingales.
E’ la nostra classe politica  che ci ha trascinato in una gabbia valutaria micidiale, raccontandoci che saremmo entrati in paradiso ma sapendo che in realtà la scommessa poteva risolversi in un inferno. Cito Giuliano Amato in
questo video,  uno che nella faccenda ci ha messo del suo:
“…  E allora ci siamo convinti, e abbiamo cercato di convincere il mondo, che sarebbe bastato coordinare le nostre politiche nazionali per avere [...] quegli equilibri economici e fiscali interni all’UE che servono a dare forza reale alla moneta. Non tutti ci hanno creduto. Molti economisti, specie americani, ci hanno detto, all’epoca:  guardate che non ci riuscirete, non vi funzionerà; se vi succede qualche problema che magari investe uno solo dei vostri paesi non avrete gli strumenti centrali che per esempio noi negli Stati Uniti abbiamo [...] la vostra banca centrale [...] non può assolvere alla stessa funzione [...di] pagatore senza limiti di ultima istanza. In realtà noi non abbiamo voluto credere a questi argomenti, abbiamo avuto fiducia nella nostra capacità di auto-coordinarci e abbiamo addirittura stabilito dei vincoli nei nostri trattati che impedissero addirittura di aiutare chi era in difficoltà. E abbiamo previsto che: l’UE non assuma la responsabilità degli impegni degli stati; che la Banca centrale non possa comprare direttamente i titoli pubblici dei singoli stati; che non ci possano essere facilitazioni creditizie o finanziarie per i singoli stati. Insomma: moneta unica dell’Eurozona ma ciascuno dev’essere in grado di provvedere a se stesso. Era davvero difficile che funzionasse e ne abbiamo visto tutti i problemi“.
(Per inciso: una bella tempra quest’uomo, vero? Io al suo posto, lungi dall’essere tanto serafico, non dormirei la notte per il rimorso).
Ed è sempre la nostra classe politica che ci impedisce anche solo di esaminare la possibilità di uscirne, con un continuo martellamento di disinformazione, precludendo ogni serio dibattito nel Paese.
In ultima analisi, quindi, Zingales su questo punto ha ragione: è per colpa della nostra classe politica se rischiamo il default.
“Gli intrallazzi politici che funzionano a Roma non funzionano a Bruxelles”.
Vero. A Bruxelles gli intrallazzi sono di tutt’altra natura, più afferenti a questioni finanziarie che politiche. Questo perché a Bruxelles il problema del consenso popolare non esiste. Esiste un blocco burocratico ideologicamente omogeneo, non eletto ma nominato, privo di accountability, cioè di ogni responsabilità politica (avete mai partecipato a una consultazione elettorale dove vi è stata data una scheda  sulla quale segnare o meno una X accanto al nome di un Van Rompuy o di un Olli Rehn o di un Mario Draghi? Eppure sono questi i signori che decidono la qualità del nostro presente e del nostro futuro, non quelli che hanno chiesto il nostro voto). Gli intrallazzi, o le mediazioni politiche, servono in democrazia, non a Bruxelles dove, fortunati loro, sono “al riparo dal processo elettorale” (cfr Monti).
“Abbiamo bisogno di una nuova classe dirigente. Per rimanere in Europa dobbiamo trasformare la nostra in una cultura europea. L’alternativa è di scivolare velocemente verso l’Africa.”
Ecco: come ho detto prima, la nuova classe dirigente sarà probabilmente costituita da un’agguerrita pattuglia di ragionieri che sappiano creativamente barcamenarsi fra i vari vincoli  elevati a dogmi, puri articoli di fede. Non esiste alcuna razionalità scientifica sottostante ai due criteri del 3% di deficit e del 60% di rapporto debito/PIL,  pur spacciati come validi e applicabili indifferentemente a ciascuna delle 28 peculiarità economiche rappresentate dai paesi membri. Ma questo non impedisce che la Croazia, da appena tre giorni nuovo membro dell’Unione, rischi già di cadere sotto procedura di infrazione per via di un bilancio che non rispetta il primo dei sacri parametri. Come benvenuto non c’è male.
Stante il “pilota automatico” innestato, non c’è nessun bisogno di altre qualità. Dobbiamo solo omologare la nostra cultura a quella Europea, che poi non è Europea (quella europea era una cultura solidale, di welfare diffuso) ma piuttosto francoforte-bruxelliana. Una cultura burocratica anziché politica, orientata al credito,  ai mercati finanziari e al darwinismo sociale.
Ma grazie al cielo l’auspicio di Zingales è in avanzata fase di realizzazione. Un poderoso avvio a questo cambio di paradigma culturale è venuto dai dodici mesi di governo Monti, e oggi ne troviamo la continuazione in quello delle larghe intese lettiane:  anche se sulla carta non siamo ancora del tutto al “riparo dal processo elettorale”, di fatto ci possiamo permettere di disattenderlo e andare proprio nella direzione che i cittadini avevano bocciato, grazie anche a un Presidente della repubblica che a mio avviso interpreta il proprio ruolo secondo una personalissima, discutibile visione dei limiti e dei poteri che la Costituzione gli attribuisce.
Si tranquillizzi dunque Zingales:  le qualità per restare in Europa ci sono, anche se non ancora del tutto emerse.
Non saremo noi a  “scivolare velocemente verso l’Africa”, una metafora elegante per segnalare il rischio di una nostra retrocessione a Paese emergente, come è successo di recente alla Grecia:
“[...] da oggi Atene ha il triste primato di essere il primo paese sviluppato a essere stato declassato a mercato emergente dall’indice MSCI dopo che la Borsa greca ha perso il 91% del suo valore dal 2007. MSCI ha invece introdotto nei paesi emergenti Qatar e Emirati arabi uniti” (
qui la notizia).
Ma ora che ci penso: la Grecia è tutt’ora in Europa…


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