dal blog di Mauro Poggi
Consiglio a tutti la lettura dell’articolo di Zingales sull’Espresso del 27 giugno, nella sua rubrica Libero Mercato, dal titolo “Non diamo la colpa all’euro”. Se non avete comperato il settimanale, eventualità per cui non mi sentirei di biasimarvi, potete trovare una riproduzione dell’articolo sulla rassegna stampa del MPS del 21 giugno. In questo post mi limiterò a citare alcuni passaggi e a commentarli.
Zingales inizia accennando a un sogno europeo che sembra (bontà sua) essersi trasformato in incubo, e cita i sondaggi che danno in caduta libera l’integrazione europea nei gradimento degli europei. Ma si stupisce che nonostante tutto la maggioranza degli europei rimanga a favore dell’euro:
“Quello che dovrebbe stupire maggiormente, però, non è la rivolta contro l’Europa, ma il perdurare del sostegno a favore. Le crisi economiche favoriscono sempre le tendenze egoistiche e centrifughe. Ciononostante la maggioranza degli europei rimane a favore dell’euro.”
Come mai questa contraddizione? La domanda è stimolante. Personalmente spiegherei il fenomeno con la disinformazione terroristica a cui politici e media dedicano gran parte del loro tempo. Ogni benedetto giorno che il buon Dio manda in terra ci vengono propinate cifre iperbolicamente disastrose come conseguenza dell’uscita dall’euro: carriolate di banconote per andare a comprare il giornale (cfr Bersani); benzina che costerà sette volte tanto (cfr Plateroti, vicedirettore del sole 24 ore), inflazione che schizzerà al 50% (cfr Tabacci); vaticini di anziani (trivial) opinion makers, asseverati da giovani speranze dell’informazione omologata, che ospiti di in qualunque salottino delle compiacenze in TV evocano destini marocchini o egiziani se mai si lasciasse l’euro (cfr Scalfari e Floris a Ottoemezzo: citato da Mainstream, qui). Con una martellante propaganda del genere, stupisce semmai che qualcuno sia così audace da pensare a una valuta nazionale. O no?
No. Per Zingales la ragione è altra. Secondo lui l’apparente contraddizione ha implicazioni psicologiche molto più sottili di quelle imputabili alla banale suggestione:
“I sondaggi mettono in luce le contraddizioni insite nel progetto europeo. La maggior parte degli europei ama la stabilità dell’euro: la sicurezza che questa stabilità garantisce ai risparmi e alle promesse pensionistiche di una popolazione sempre più vecchia. Ma odia i costi che questa stabilità richiede.”
Per quanto ne so io, la sola sicurezza garantita dalla stabilità dell’euro è quella riservata ai possessori di crediti. Una moneta forte e una Banca centrale con una patologica fobia a qualunque ipotesi di inflazione servono solo a tutelare il sistema finanziario. Forse lo psicotico controllo inflazionistico ha impedito che i risparmi venissero erosi di qualche decimo di punto, ma la maggior parte dei cittadini li ha visti pesantemente intaccati e spesso compromessi dalla necessità di farvi ricorso per supplire al crollo dei redditi legato alla disoccupazione dilagante. Quanto alle promesse pensionistiche, beh, anche qui è difficile capire a quale film Zingales si riferisca: sarebbe bello che lo spiegasse, questo film, a una platea di esodati, o di pensionandi a cui il filo del traguardo è stato improvvisamente spostato proprio in dirittura d’arrivo. Probabilmente, loro ne hanno visto uno completamente diverso.
“Ma odia i costi che questa stabilità richiede“.
A quali costi si riferisce? Forse alla distruzione dei risparmi o dello
stato sociale, oppure alla continua emorragia dei posti di lavoro, che
solo in Italia, oggi, ha fatto registrare un 12,2% di disoccupati
(benvenuti nel 1977).
Il professor Zingales non lo precisa. Dice però che il cittadino europeo “odia ancora di più [più di questi costi] l’idea di procedere verso un’integrazione politica necessaria per far sopravvivere la moneta unica”. Una tesi singolare, ma evidentemente il professore si fida del proprio sondaggista.
Da un’analisi generale, Zingales passa poi a quella più particolare dell’Italia:
“L’integrazione economica con il resto d’Europa ha portato enormi vantaggi all’Italia. Anche l’integrazione normativa ha contribuito ad ammodernare il nostro paese.”
Infatti.
Oltre alla scadenza delle mozzarelle e alle prescrizioni igieniche per
la produzione del lardo di colonnata, l’integrazione ci ha regalato
ottimi strumenti per governare la crisi: il pareggio di bilancio in
Costituzione e il Fiscal compact (cui seguirà a breve l’ancor più vincolante Two packs).
Il primo ci vieta ogni spesa in deficit, foss’anche per ragioni
virtuose quali potrebbero essere le misure di stimolo all’economia per
la creazione di posti di lavoro; il secondo ci obbliga a trovare
ulteriori risorse da stornare a favore della diminuzione del debito, in
ragione di 40-60 mld all’anno (a secondo dell’andamento del PIL) per i
prossimi venti anni. Come a dire che di fronte alla sistematica
distruzione del tessuto industriale italiano, a cui stiamo assistendo da
anni, l’unica cosa che un governo può fare è incrociare le dita e
sperare che il vento cambi.
La
moralizzazione della spesa è uno dei maggiori risultati che
l’integrazione economica e normativa con il resto dell’Europa ci ha
portato in dono. Draghi, e prima di lui Monti – con diverse parole ma
esprimendo analogo concetto, lo hanno detto: indipendentemente da chi sta al governo, c’è un pilota automatico
che impone un’unica strada, quella indicata dall’Europa. Il Presidente
del consiglio Letta ribadisce l’idea ogni volta che ne ha occasione,
specie a corollario dei suoi ricorrenti pistolotti sull’emergenza della
disoccupazione giovanile (come se il resto dei disoccupati fosse un
argomento meno impellente): “Non sono qui per sfasciare i conti dello Stato“.
L’euronomics ormai è patrimonio culturale comune: piuttosto che sfasciare i conti dello Stato, sfasciamo il Paese (e se questa vi sembra un’iperbole semplificativa, pensate alla Grecia).
In fondo, il maggior vantaggio tratto dall’integrazione è che non non abbiamo più bisogno di avere al governo uno statista, e nemmeno un politico passabile: ormai basta un buon ragioniere.
“La tanto criticata scelta di entrare nell’euro fu una necessità, non una scelta. [...] Per finanziare il debito lo Stato italiano doveva pagare interessi molto elevati. Questi interessi furono una delle principali cause dell’esplosione del debito pubblico negli anni 80.”
Precisiamo.
Nel 1981, con un grazioso scambio di lettere fra gli allora Ministro
del Tesoro (Andreatta) e Governatore della Banca d’Italia (Carlo
Azeglio Ciampi), e senza nemmeno passare per il Parlamento, fu sancito
il divorzio fra le due istituzioni, dando il via a una gigantesca
redistribuzione del reddito in senso sperequativo che perdura a
tutt’oggi (fra gli sponsor dell’operazione, tale Monti). Fino a quel
momento Bankitalia aveva garantito le aste di collocamento, e i tassi
di interesse reali pagati dal tesoro tendevano a essere negativi
(inferiori al tasso di inflazione): una tassa occulta sulle rendite
finanziarie e un modo automatico di rientro del debito.
Dieci anni dopo, in una significativa intervista
al Sole 24 Ore, lo stesso Andreatta commentava quell’episodio. Eccone
alcuni passi eloquenti (ma suggerisco di leggerla per intero, ne vale la
pena):
“I
miei consulenti legali mi diedero un parere favorevole sulla mia
esclusiva competenza, come ministro del Tesoro, di ridefinire i termini
delle disposizioni date alla Banca d’ Italia circa le modalità dei suoi
interventi sul mercato, e il 12 febbraio 1981 scrissi la lettera che
avrebbe portato nel luglio dello stesso anno al divorzio … Il divorzio non ebbe allora il consenso politico, ne’ lo avrebbe avuto negli anni seguenti; nato come “congiura aperta” tra il ministro e il governatore divenne, prima che la coalizione degli interessi contrari potesse organizzarsi, un fatto della vita che sarebbe stato troppo costoso – soprattutto sul mercato dei cambi – abolire per ritornare alle più confortevoli abitudini del passato
… [Praticamente una misura presa mettendo il Parlamento di fronte al
fatto compiuto e lasciando i cittadini all'oscuro di tutto, dal momento
che il dibattito nel Paese fu nullo; secondo una prassi anti-democratica
che con il tempo si è andata consolidando, conforme in ciò alla prassi
europea.] Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i
tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente
in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il
fabbisogno del Tesoro e l’ escalation della crescita del debito rispetto
al prodotto nazionale. Da quel momento in avanti la vita dei
ministri del Tesoro si era fatta più difficile e a ogni asta il loro
operato era sottoposto al giudizio del mercato.“
Questa illuminata misura, prodromica all’ingresso nello SME antesignano dell’euro (già allora “ce lo chiedeva l’Europa”), fece lievitare la spesa per interessi al punto che lo stato non solo fu costretto a emettere titoli per rinnovare il debito, ma a indebitarsi ulteriormente per pagare gli interessi, il cui ammontare quindi diventava a sua volta debito generatore di interessi.
Il grafico qui sotto indica benissimo la correlazione fra divorzio e andamento del debito:
“L’entrata
nell’euro ci ha fornito in dote un lungo periodo di tassi d’interesse
molto bassi. [...] Se avessimo utilizzato il risparmio in spese per
interessi invece che aumentare la spesa oggi il rapporto debito pil
sarebbe dell’80 e non del 130.”
(Nota: Si tratta del famoso “dividendo dell’Euro”, espressione che ha usato per la prima volta (credo) il pluri-laureato Oscar Giannino,
secondo il quale per effetto dei minori interessi pagati a seguito
dell’entrata nell’euro avremmo risparmiato qualcosa come 700 miliardi
(cfr qui,
a partire dal minuto 6). Per dirla brevemente, Giannino assume che gli
alti interessi pagati dall’Italia fra gli anni ’80 e i primi anni ’90
sarebbero rimasti tali se l’Italia avesse mantenuto una propria moneta
nazionale, e la differenza fra quegli ipotetici interessi e quelli
effettivamente pagati è il “dividendo” che l’euro ci ha regalato. Se
invece di dilapidare questa dote l’avessimo giudiziosamente destinata al
rimborso del debito, ecco che oggi avremmo un rapporto debito/PIL
analogo a quello della virtuosa Germania).
Ci sono alcuni punti da eccepire alla considerazione di Zingales.
1) Intanto, il messaggio implicito continua a essere che quella che stiamo vivendo è una crisi da debito sovrano. La spiegazione alternativa,
dice che la crisi è l’esito di un processo vizioso, innestato dalla
moneta unica e dalla liberalizzazione dei mercati finanziari, che ha
prodotto la dilatazione dell’indebitamento privato nei paesi del Sud Europa nei confronti delle banche nord-europee. Un processo conosciuto come “Ciclo di Frenkel“,
dal nome dell’economista argentino che ne ha fornito l’analisi, e
sempre più diffusamente accettato anche in ambienti ortodossi – ultimo,
in ordine di tempo, Vítor Constâncio vice-presidente della BCE.
La ragione per cui la versione “debito sovrano” continua a essere propalata, è che il debito pubblico implica un richiamo alla responsabilità comune e rende psicologicamente più accettabile ai cittadini l’imposizione di sacrifici ufficialmente richiesti per abbatterlo (è morale ripagare i propri debiti), ma in realtà finalizzati alla tutela delle grandi banche private che hanno optato per spensierate quanto lucrose esposizioni fino al 2007.
La ragione per cui la versione “debito sovrano” continua a essere propalata, è che il debito pubblico implica un richiamo alla responsabilità comune e rende psicologicamente più accettabile ai cittadini l’imposizione di sacrifici ufficialmente richiesti per abbatterlo (è morale ripagare i propri debiti), ma in realtà finalizzati alla tutela delle grandi banche private che hanno optato per spensierate quanto lucrose esposizioni fino al 2007.
2)
Gli elevati interessi dell’epoca – punto più punto meno – non
riguardavano la sola Italia, ma tutti i paesi del mondo; a partire
dalla seconda metà degli anni ’90 è iniziata una discesa ovunque,
Italia compresa. L’aggancio all’euro ha certamente aiutato un processo
di convergenza dei tassi, ma il risparmio ipotizzabile non si può
facilmente quantificare e comunque sembra ben lontano dalla cifra
iperbolica indicata da Giannino. Per chi volesse approfondire, questo articolo di Bagnai su Il Fatto Quotidiano è chiaro ed esauriente.
3) Merita una chiosa anche il messaggio: “potevamo ridurre il debito,
invece abbiamo continuato a dilapidare perché siamo spreconi”. Zingales
dimentica (dimentica?) che siamo uno dei pochi paesi al mondo che
possono vantare un avanzo primario strutturale; con la sola eccezione
del 2009, infatti, da ben 22 anni le entrate superano i fabbisogni, cioè
lo Stato spende meno di quanto incassa.Nella tabella sottostante lo storico dell’avanzo primario.
Inoltre,
la spesa pubblica pro-capite è nella media di quelle europea. “[...]
nel 2012, il volume della spesa “di scopo” rispetto al Prodotto interno
lordo risulta essere inferiore di oltre un punto percentuale rispetto
alla media europea (l’Italia si attesta al 45,4%, mentre l’Europa a 15 è
al 46,9%; la Francia arriva addirittura al 54%)” (Cfr Il Sole 24 Ore,
Realfonzo e Perri, riportato da Keynes Blog).
Si può discutere sulla qualità ed efficacia della spesa, ma non si può sostenere che è stata la spesa a gonfiare il debito.
Ciò che fa lievitare il debito sono gli interessi, che storicamente ormai costituiscono l’intero ammontare del debito e producono ulteriori interessi per ripagare i quali dobbiamo ulteriormente indebitarci. Qualcosa che ricorda il fenomeno detto “anatocismo”, e anche il gatto che si morde la coda. E di cui dobbiamo ringraziare Andreatta e Ciampi.
Sull’ottimo blog di Leprechaun c’è un post molto analitico e denso di tabelle che lo spiega.
Ciò che fa lievitare il debito sono gli interessi, che storicamente ormai costituiscono l’intero ammontare del debito e producono ulteriori interessi per ripagare i quali dobbiamo ulteriormente indebitarci. Qualcosa che ricorda il fenomeno detto “anatocismo”, e anche il gatto che si morde la coda. E di cui dobbiamo ringraziare Andreatta e Ciampi.
Sull’ottimo blog di Leprechaun c’è un post molto analitico e denso di tabelle che lo spiega.
“Se l’Italia rischia il default è colpa non dell’euro ma della nostra classe politica.”
Qui è difficile dar torto al professor Zingales.
E’ la nostra classe politica che ci ha trascinato in una gabbia valutaria micidiale, raccontandoci che saremmo entrati in paradiso ma sapendo che in realtà la scommessa poteva risolversi in un inferno. Cito Giuliano Amato in questo video, uno che nella faccenda ci ha messo del suo:
“… E allora ci siamo convinti, e abbiamo cercato di convincere il mondo, che sarebbe bastato coordinare le nostre politiche nazionali per avere [...] quegli equilibri economici e fiscali interni all’UE che servono a dare forza reale alla moneta. Non tutti ci hanno creduto. Molti economisti, specie americani, ci hanno detto, all’epoca: guardate che non ci riuscirete, non vi funzionerà; se vi succede qualche problema che magari investe uno solo dei vostri paesi non avrete gli strumenti centrali che per esempio noi negli Stati Uniti abbiamo [...] la vostra banca centrale [...] non può assolvere alla stessa funzione [...di] pagatore senza limiti di ultima istanza. In realtà noi non abbiamo voluto credere a questi argomenti, abbiamo avuto fiducia nella nostra capacità di auto-coordinarci e abbiamo addirittura stabilito dei vincoli nei nostri trattati che impedissero addirittura di aiutare chi era in difficoltà. E abbiamo previsto che: l’UE non assuma la responsabilità degli impegni degli stati; che la Banca centrale non possa comprare direttamente i titoli pubblici dei singoli stati; che non ci possano essere facilitazioni creditizie o finanziarie per i singoli stati. Insomma: moneta unica dell’Eurozona ma ciascuno dev’essere in grado di provvedere a se stesso. Era davvero difficile che funzionasse e ne abbiamo visto tutti i problemi“.
(Per inciso: una bella tempra quest’uomo, vero? Io al suo posto, lungi dall’essere tanto serafico, non dormirei la notte per il rimorso).
E’ la nostra classe politica che ci ha trascinato in una gabbia valutaria micidiale, raccontandoci che saremmo entrati in paradiso ma sapendo che in realtà la scommessa poteva risolversi in un inferno. Cito Giuliano Amato in questo video, uno che nella faccenda ci ha messo del suo:
“… E allora ci siamo convinti, e abbiamo cercato di convincere il mondo, che sarebbe bastato coordinare le nostre politiche nazionali per avere [...] quegli equilibri economici e fiscali interni all’UE che servono a dare forza reale alla moneta. Non tutti ci hanno creduto. Molti economisti, specie americani, ci hanno detto, all’epoca: guardate che non ci riuscirete, non vi funzionerà; se vi succede qualche problema che magari investe uno solo dei vostri paesi non avrete gli strumenti centrali che per esempio noi negli Stati Uniti abbiamo [...] la vostra banca centrale [...] non può assolvere alla stessa funzione [...di] pagatore senza limiti di ultima istanza. In realtà noi non abbiamo voluto credere a questi argomenti, abbiamo avuto fiducia nella nostra capacità di auto-coordinarci e abbiamo addirittura stabilito dei vincoli nei nostri trattati che impedissero addirittura di aiutare chi era in difficoltà. E abbiamo previsto che: l’UE non assuma la responsabilità degli impegni degli stati; che la Banca centrale non possa comprare direttamente i titoli pubblici dei singoli stati; che non ci possano essere facilitazioni creditizie o finanziarie per i singoli stati. Insomma: moneta unica dell’Eurozona ma ciascuno dev’essere in grado di provvedere a se stesso. Era davvero difficile che funzionasse e ne abbiamo visto tutti i problemi“.
(Per inciso: una bella tempra quest’uomo, vero? Io al suo posto, lungi dall’essere tanto serafico, non dormirei la notte per il rimorso).
Ed
è sempre la nostra classe politica che ci impedisce anche solo di
esaminare la possibilità di uscirne, con un continuo martellamento di
disinformazione, precludendo ogni serio dibattito nel Paese.
In
ultima analisi, quindi, Zingales su questo punto ha ragione: è per
colpa della nostra classe politica se rischiamo il default.
“Gli intrallazzi politici che funzionano a Roma non funzionano a Bruxelles”.
Vero.
A Bruxelles gli intrallazzi sono di tutt’altra natura, più afferenti a
questioni finanziarie che politiche. Questo perché a Bruxelles il
problema del consenso popolare non esiste. Esiste un blocco burocratico
ideologicamente omogeneo, non eletto ma nominato, privo di
accountability, cioè di ogni responsabilità politica (avete mai
partecipato a una consultazione elettorale dove vi è stata data una
scheda sulla quale segnare o meno una X accanto al nome di un Van
Rompuy o di un Olli Rehn o di un Mario Draghi? Eppure sono questi i
signori che decidono la qualità del nostro presente e del nostro futuro,
non quelli che hanno chiesto il nostro voto). Gli intrallazzi, o le
mediazioni politiche, servono in democrazia, non a Bruxelles dove,
fortunati loro, sono “al riparo dal processo elettorale” (cfr Monti).
“Abbiamo
bisogno di una nuova classe dirigente. Per rimanere in Europa dobbiamo
trasformare la nostra in una cultura europea. L’alternativa è di
scivolare velocemente verso l’Africa.”
Ecco:
come ho detto prima, la nuova classe dirigente sarà probabilmente
costituita da un’agguerrita pattuglia di ragionieri che sappiano
creativamente barcamenarsi fra i vari vincoli elevati a dogmi, puri
articoli di fede. Non esiste alcuna razionalità scientifica sottostante
ai due criteri del 3% di deficit e del 60% di rapporto debito/PIL, pur
spacciati come validi e applicabili indifferentemente a ciascuna delle
28 peculiarità economiche rappresentate dai paesi membri. Ma questo non
impedisce che la Croazia, da appena tre giorni nuovo membro dell’Unione,
rischi già di cadere sotto procedura di infrazione per via di un
bilancio che non rispetta il primo dei sacri parametri. Come benvenuto
non c’è male.
Stante
il “pilota automatico” innestato, non c’è nessun bisogno di altre
qualità. Dobbiamo solo omologare la nostra cultura a quella Europea, che
poi non è Europea (quella europea era una cultura solidale, di welfare diffuso)
ma piuttosto francoforte-bruxelliana. Una cultura burocratica anziché
politica, orientata al credito, ai mercati finanziari e al darwinismo
sociale.
Ma
grazie al cielo l’auspicio di Zingales è in avanzata fase di
realizzazione. Un poderoso avvio a questo cambio di paradigma culturale è
venuto dai dodici mesi di governo Monti, e oggi ne troviamo la
continuazione in quello delle larghe intese lettiane: anche se sulla
carta non siamo ancora del tutto al “riparo dal processo elettorale”, di
fatto ci possiamo permettere di disattenderlo e andare proprio nella
direzione che i cittadini avevano bocciato, grazie anche a un Presidente
della repubblica che a mio avviso interpreta il proprio ruolo secondo
una personalissima, discutibile visione dei limiti e dei poteri che la
Costituzione gli attribuisce.
Si tranquillizzi dunque Zingales: le qualità per restare in Europa ci sono, anche se non ancora del tutto emerse.
Si tranquillizzi dunque Zingales: le qualità per restare in Europa ci sono, anche se non ancora del tutto emerse.
Non saremo noi a “scivolare velocemente verso l’Africa”, una metafora elegante per segnalare il rischio di una nostra retrocessione a Paese emergente, come è successo di recente alla Grecia:
“[...] da oggi Atene ha il triste primato di essere il primo paese sviluppato a essere stato declassato a mercato emergente dall’indice MSCI dopo che la Borsa greca ha perso il 91% del suo valore dal 2007. MSCI ha invece introdotto nei paesi emergenti Qatar e Emirati arabi uniti” (qui la notizia).
Ma ora che ci penso: la Grecia è tutt’ora in Europa…“[...] da oggi Atene ha il triste primato di essere il primo paese sviluppato a essere stato declassato a mercato emergente dall’indice MSCI dopo che la Borsa greca ha perso il 91% del suo valore dal 2007. MSCI ha invece introdotto nei paesi emergenti Qatar e Emirati arabi uniti” (qui la notizia).
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