da sollevazione
Qui sotto l'intervento di Moreno Pasquinelli (a sinistra nella foto) al seminario promosso da Fassina e D'Attorre "Europa, sovranità democratica e interesse nazionale".
Ringrazio
i promotori, Stefano in particolare, per l’invito. Com’era inevitabile chi mi
ha preceduto si è soffermato sull’ultimo atto della vicenda greca. Le opinioni
sono discordi. Se gli economisti che mi hanno preceduto, con argomenti
inoppugnabili, hanno condannato l’accordo siglato da Tsipras come una capitolazione
politica che avrà effetti recessivi disastrosi;
alcuni esponenti politici hanno qui invece difeso la decisione di SYRIZA come
la sola possibile per evitare il peggio, dove il "peggio", per essi, sarebbe
appunto stata la “grexit”. Valdimiro Giacché ci ha invece spiegato perché
Tsipras, se non fosse stato prigioniero del dogma
altreuropeista, avrebbe dovuto cogliere al volo l’assist di Scheuble e uscire dalla gabbia euro tedesca.
La
nostra discussione, per stare al coraggioso tema del seminario —“Europa,
sovranità democratica e interesse nazionale”—, sta mostrando che si confrontano
due posizioni: la prima sostiene che se si vuole davvero porre fine
all’austerità antipopolare e difendere la democrazia, occorre ripristinare il
dettato costituzionale riguadagnando piena sovranità nazionale, politica e
monetaria; dall’altra c’è chi ritiene che malgrado l’Unione europea non sia
affatto quella sognata a Ventotene, nonostante sia strutturata in maniera
oligarchica e con un imprinting neoliberista, essa è e deve restare la nostra
casa comune, e non importa che sia un reclusorio imperiale, si auspica anzi che
ai carcerieri vengano ceduti altri pezzi di sovranità. Nessuna ritirata è
ammessa, avanti tutta nella demolizione delle nazioni.
Così
accade che il momentaneo e triste epilogo della vicenda greca, invece di
accorciare le distanze tra queste due visioni, le ha aumentate. Non solo non
vedo un’eventuale linea mediana tra loro, ritengo al contrario che ogni
tentativo di conciliarle è solo perdere tempo.
Diverse
sono le lezioni politiche che si debbono trarre dalla vicenda greca. La prima,
di natura oggettiva, è esplicita: il sistema-euro è talmente rigido e
disfunzionale che imploderà vanificando tutti i tentativi di riformarlo. La
seconda, di natura soggettiva, è implicita: sarebbe esiziale, immaginando il
nuovo partito politico a sinistra di cui si avvertono i primi vagiti, imitare
SYRIZA: un partito o un fronte politico al cui interno vi siano forze che
tirano in direzione opposta, sono destinati a fare una brutta fine.
Coloro
i quali, si ostinano a non riconoscere l’evidente sconfitta dell’ipotesi altreuropeista di SYRIZA, che ribadiscono
cocciutamente che si deve procedere verso gli Stati uniti d’Europa, ci stanno
dicendo almeno due cose: (1) che non sono disposti a rinunciare al loro dogma
e, (2) che in nome di questo dogma, quando la tempesta toccherà il nostro
Paese, non esiteranno a fare anche peggio di quel che lo stesso Tsipras ha
fatto. Uomo avvisato, mezzo salvato.
Siamo
davanti a secondarie differenze tattiche? No, siamo di fronte e differenze
strategiche insanabili, che si appoggiano su visioni teoriche e culturali
inconciliabili. Diavolo e Acqua santa non possono stare assieme.
Vediamola
questa visione che D’Attorre ha definito argutamente “l’europeismo del dover
essere”. Rubo questo concetto del “dover essere” per mettere in luce quello che
a me pare il nocciolo teorico, oserei dire teologico, della visione della sinistra altreuropeista. Questo nocciolo
teorico consiste appunto nella vittoria postuma del cosmopolitismo kantiano. La
sinistra sistemica e quella cosiddetta radicale non sono accumunate per caso
dal medesimo “europeismo del dover essere”. Questo connubio è il risultato
ultimo della metamorfosi subita dalla sinistra italiana, l’effetto di un doppio
divorzio, in primis dalla tradizione
teorica marxista —quindi abbandono del lascito di Hegel, che richiamava alla
dura centralità dell’essere, ovvero della realtà oggettiva per come essa
concretamente si da, e davanti alla cui potenza ogni velleitario slancio
soggettivistico-morale è destinato a soccombere— in secondo luogo con la peculiare
tradizione gramsciana.
Varrebbe
la pena tornare al dibattito sul concetto di sovranità, lanciato da Norberto
Bobbio a cavallo tra la fine degli anni settanta e gli inizi anni ottanta. A
sinistra esso prese la forma della disputa tra le tesi di due eminenti filosofi
del diritto quali Luigi Ferrajoli e Danilo Zolo. Ebbe il sopravvento il
pensiero di Ferrajoli per cui, a prescindere da quale fosse la natura
ideologica e di classe delle forze che proprio allora premevano per la
globalizzazione, quest’ultima andava sostenuta, poiché progressiva. Indovinate
perché era comunque progressiva? Perché la forma dello stato nazione era
comunque reazionaria, un ostacolo da rimuovere nella prospettiva della federazione umana mondiale. Di qui le
tesi: (1) che fosse necessario demolire le sovranità nazionali, (2) che il
diritto internazionale dovesse prevalere su quelli nazionali, infine, (3) che i
“diritti umani” fossero sovraordinati rispetto a quelli costituzionali di
cittadinanza.
E’
quello che definisco “cattivo universalismo”, l’ideologia che disarmò la
sinistra davanti alla devastante avanzata della globalizzazone, la quale finirà
per lasciare sul campo non uno ma tre cadaveri: quello del movimento operaio,
quello delle politiche di welfare keynesiane e quello dell’ordinamento
democratico-costituzionale. Chi c’era in quegli anni non dimentica che lo
stesso Berlinguer, mentre si congedava dal “socialismo reale” e accettava
l’ombrello della NATO, vero braccio armato del Washington Consensus, alludeva addirittura al “governo mondiale”.
Né si dimenticherà quale fosse, vent’anni dopo, il paradigma del movimento altermondialista, ovvero la
cosiddetta “globalizzazione sì ma dal basso”.
Questo
“cattivo universalismo” divenne il pensiero egemone sia nella sinistra radicale
che in quella socialdemocratica. La prima considerò la globalizzazione come un
inveramento, per quanto distorto, dell’ideale internazionalista, mentre per la
sinistra riformistica esso forniva il quadro concettuale per entrare in una
relazione simbiotica, anzi di more uxorio,
con l’avanzante globalizzazione neoliberista, prestando quindi il proprio
personale politico al nuovo sistema di governance.
Profonde
sono quindi le radici dell’altroeuropeismo.
La
domanda è d’obbligo: quanti, di quella generazione di intellettuali e di
militanti, saranno in grado di sbarazzarsi della narrazione globalista? Quanti cesseranno
di “raccontarsi storie” per mettersi in sintonia con la nuda realtà? Pochi.
Crudele ma efficace l’allegoria di Alberto Bagnai: la sinistra dovrà risorgere
dalle sue ceneri… quindi occorre darle fuoco”.
Questo
“cattivo universalismo”, alias falso
internazionalismo, è l’alibi col quale la gran parte della sinistra giustifica
ancora oggi la permanenza nel regime dell’euro, figlio prediletto ma nato
storpio della globalizzazione neoliberista.
Gli
altreuropeisti ricorrono al più
mendace realpoliticismo. Dicono: “l’Unione
europea siccome oramai esiste,
sarebbe il solo campo da gioco in cui la sinistra potrà restare in partita”.
Si tratta della versione aggiornata del risibile argomento del dentifricio e
del tubetto. Non conta per essi che questo campo sia minato, ed a nulla serve
ricordare loro che chi insegue un nemico più potente sul suo terreno va incontro
a sconfitta certa.
Chiediamoci:
davvero viviamo la fase storica della dissoluzione degli stati nazione? O non è
forse vero che il riflusso dell’alta marea della globalizzazione neoliberista è
destinato a far riemergere le entità statuali momentaneamente sommerse?
Se
la crisi sistemica globale trova il suo epicentro in Europa è proprio perché
quella, mentre travolge le costruzioni geopolitiche fallaci, rinforza quelle
che hanno profonde radici storiche, economiche, spirituali e statuali. Come
stanno rispondendo gli Stati Uniti alla crisi delle loro pretese egemoniche
globali se non agendo come potente stato nazione? E come stanno reagendo le
potenze concorrenti, grandi e piccole, se non considerando come non negoziabili
le loro prerogative di nazioni sovrane —di qui il policentrismo? Forse che la
riconquistata egemonia tedesca sull’Europa potrebbe spiegarsi prescindendo
dalla prepotente rinascita della Germania come nazione? E non è forse, questa
rinascita, una delle cause della tendenza all’implosione dell’Unione europea?
Luciano
Barra Caracciolo, riferendosi alla Grecia, ha sottolineato l’assurdo paradosso
per cui, mentre il dominante germanico vuole cacciare dall’Unione monetaria il
dominato greco, quest’ultimo implora di restarci ad ogni costo. Abbiamo così
che mentre le classi dirigenti tedesche, anche grazie all’euro, non esitano ad avanzare
le loro pretese espansionistiche su quella che considerano loro periferia, le
élite periferiche, italiane comprese, non solo abbracciano come salvifica la
germanizzazione dell’Europa, maledicono i “populismi” in ascesa in quanto
espressione di deprecabile “nazionalismo”.
Una
sinistra che voglia davvero diventare in futuro maggioritaria, quindi guidare il
Paese, è obbligata a rompere ogni vincolo con queste élite globaliste e le sue narrazioni,
andando invece incontro, per dargli un contenuto democratico e socialista, al
rinascente bisogno popolare di identità nazionale. Un sentimento che rappresenta
un prezioso e imprescindibile fattore di resistenza al neoliberismo, anche
perché si sposa a sua volta con la richiesta di più Stato, di quell’organismo che i dominanti vogliono sfaldare
riducendolo a mero guardiamo notturno, mentre, proprio in quanto depositario
della sovranità nazionale, i cittadini vorrebbero fosse una barriera difensiva per
proteggersi dalle scorribande della finanza predatoria, dagli squali che tirano
i fili dei mercati mondiali.
Lo
sforzo per entrare in sintonia con gli strati più profondi del popolo, la
critica all’intellettualismo, la proposta di una grande alleanza democratica e
rivoluzionaria, la tesi che i lavoratori potranno vincere solo se sapranno
diventare classe dirigente nazionale, l’assunto che solo che fa gli interessi
della maggioranza ha titolo per presentarsi come difensore dell’interesse
nazionale, l’idea del partito politico come moderno principe; questi a me
paiono i più preziosi lasciti dell’opera di Gramsci, a dimostrazione che
esistono radici ben più profonde e solide di quelle della sinistra post-moderna
e globalista.
Emiliano
Brancaccio ha fatto una profezia funesta. Egli ritiene che la sinistra antiglobalista
sia talmente in ritardo che da questo marasma l’esito più probabile sarebbe la
vittoria di forze reazionarie e xenofobe, se non apertamente neofasciste.
Questo accadrà se noi non saremo in grado di costruire un partito politico in
tempi stretti, un partito che oltre a dotarsi di un “piano B” per sganciarsi dalla
morsa mortale dell’euro sappia indicare con quale blocco sociale esso potrà
essere realizzato e la sovranità riconquistata. Solo un partito di questo tipo
potrà occupare le praterie dell’indignazione sociale, fare coraggio al popolo
lavoratore, convincere i cittadini all’impegno politico diretto, evitando le
fascinazioni inconcludenti sui soggetti liquidi, gassosi, internettari.
Se è questo che si vuole davvero fare, le nostre modeste forze sono a disposizione.
Alla fine, si vede che siamo polli dello stesso allevamento! Stesso articolo pubblicato qualche giorno fa sul mio blog. A presto
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