giovedì 23 luglio 2015

La tragedia greca e il futuro della sinistra

 
 
 Qui sotto l'intervento di Moreno Pasquinelli (a sinistra nella foto) al seminario promosso da Fassina e D'Attorre "Europa, sovranità democratica e interesse nazionale".
 
Ringrazio i promotori, Stefano in particolare, per l’invito. Com’era inevitabile chi mi ha preceduto si è soffermato sull’ultimo atto della vicenda greca. Le opinioni sono discordi. Se gli economisti che mi hanno preceduto, con argomenti inoppugnabili, hanno condannato l’accordo siglato da Tsipras come una capitolazione politica che avrà effetti recessivi disastrosi; alcuni esponenti politici hanno qui invece difeso la decisione di SYRIZA come la sola possibile per evitare il peggio, dove il "peggio", per essi, sarebbe appunto stata la “grexit”. Valdimiro Giacché ci ha invece spiegato perché Tsipras, se non fosse stato prigioniero del dogma altreuropeista, avrebbe dovuto cogliere al volo l’assist di Scheuble e uscire dalla gabbia euro tedesca.

La nostra discussione, per stare al coraggioso tema del seminario —“Europa, sovranità democratica e interesse nazionale”—, sta mostrando che si confrontano due posizioni: la prima sostiene che se si vuole davvero porre fine all’austerità antipopolare e difendere la democrazia, occorre ripristinare il dettato costituzionale riguadagnando piena sovranità nazionale, politica e monetaria; dall’altra c’è chi ritiene che malgrado l’Unione europea non sia affatto quella sognata a Ventotene, nonostante sia strutturata in maniera oligarchica e con un imprinting neoliberista, essa è e deve restare la nostra casa comune, e non importa che sia un reclusorio imperiale, si auspica anzi che ai carcerieri vengano ceduti altri pezzi di sovranità. Nessuna ritirata è ammessa, avanti tutta nella demolizione delle nazioni.

Così accade che il momentaneo e triste epilogo della vicenda greca, invece di accorciare le distanze tra queste due visioni, le ha aumentate. Non solo non vedo un’eventuale linea mediana tra loro, ritengo al contrario che ogni tentativo di conciliarle è solo perdere tempo.

Diverse sono le lezioni politiche che si debbono trarre dalla vicenda greca. La prima, di natura oggettiva, è esplicita: il sistema-euro è talmente rigido e disfunzionale che imploderà vanificando tutti i tentativi di riformarlo. La seconda, di natura soggettiva, è implicita: sarebbe esiziale, immaginando il nuovo partito politico a sinistra di cui si avvertono i primi vagiti, imitare SYRIZA: un partito o un fronte politico al cui interno vi siano forze che tirano in direzione opposta, sono destinati a fare una brutta fine.

Coloro i quali, si ostinano a non riconoscere l’evidente sconfitta dell’ipotesi altreuropeista di SYRIZA, che ribadiscono cocciutamente che si deve procedere verso gli Stati uniti d’Europa, ci stanno dicendo almeno due cose: (1) che non sono disposti a rinunciare al loro dogma e, (2) che in nome di questo dogma, quando la tempesta toccherà il nostro Paese, non esiteranno a fare anche peggio di quel che lo stesso Tsipras ha fatto. Uomo avvisato, mezzo salvato.

Siamo davanti a secondarie differenze tattiche? No, siamo di fronte e differenze strategiche insanabili, che si appoggiano su visioni teoriche e culturali inconciliabili. Diavolo e Acqua santa non possono stare assieme.

Vediamola questa visione che D’Attorre ha definito argutamente “l’europeismo del dover essere”. Rubo questo concetto del “dover essere” per mettere in luce quello che a me pare il nocciolo teorico, oserei dire teologico, della visione della sinistra altreuropeista. Questo nocciolo teorico consiste appunto nella vittoria postuma del cosmopolitismo kantiano. La sinistra sistemica e quella cosiddetta radicale non sono accumunate per caso dal medesimo “europeismo del dover essere”. Questo connubio è il risultato ultimo della metamorfosi subita dalla sinistra italiana, l’effetto di un doppio divorzio, in primis dalla tradizione teorica marxista —quindi abbandono del lascito di Hegel, che richiamava alla dura centralità dell’essere, ovvero della realtà oggettiva per come essa concretamente si da, e davanti alla cui potenza ogni velleitario slancio soggettivistico-morale è destinato a soccombere— in secondo luogo con la peculiare tradizione gramsciana.

Varrebbe la pena tornare al dibattito sul concetto di sovranità, lanciato da Norberto Bobbio a cavallo tra la fine degli anni settanta e gli inizi anni ottanta. A sinistra esso prese la forma della disputa tra le tesi di due eminenti filosofi del diritto quali Luigi Ferrajoli e Danilo Zolo. Ebbe il sopravvento il pensiero di Ferrajoli per cui, a prescindere da quale fosse la natura ideologica e di classe delle forze che proprio allora premevano per la globalizzazione, quest’ultima andava sostenuta, poiché progressiva. Indovinate perché era comunque progressiva? Perché la forma dello stato nazione era comunque reazionaria, un ostacolo da rimuovere nella prospettiva della federazione umana mondiale. Di qui le tesi: (1) che fosse necessario demolire le sovranità nazionali, (2) che il diritto internazionale dovesse prevalere su quelli nazionali, infine, (3) che i “diritti umani” fossero sovraordinati rispetto a quelli costituzionali di cittadinanza.

E’ quello che definisco “cattivo universalismo”, l’ideologia che disarmò la sinistra davanti alla devastante avanzata della globalizzazone, la quale finirà per lasciare sul campo non uno ma tre cadaveri: quello del movimento operaio, quello delle politiche di welfare keynesiane e quello dell’ordinamento democratico-costituzionale. Chi c’era in quegli anni non dimentica che lo stesso Berlinguer, mentre si congedava dal “socialismo reale” e accettava l’ombrello della NATO, vero braccio armato del Washington Consensus, alludeva addirittura al “governo mondiale”. Né si dimenticherà quale fosse, vent’anni dopo, il paradigma del movimento altermondialista, ovvero la cosiddetta “globalizzazione sì ma dal basso”.

Questo “cattivo universalismo” divenne il pensiero egemone sia nella sinistra radicale che in quella socialdemocratica. La prima considerò la globalizzazione come un inveramento, per quanto distorto, dell’ideale internazionalista, mentre per la sinistra riformistica esso forniva il quadro concettuale per entrare in una relazione simbiotica, anzi di more uxorio, con l’avanzante globalizzazione neoliberista, prestando quindi il proprio personale politico al nuovo sistema di governance.
Profonde sono quindi le radici dell’altroeuropeismo.

La domanda è d’obbligo: quanti, di quella generazione di intellettuali e di militanti, saranno in grado di sbarazzarsi della narrazione globalista? Quanti cesseranno di “raccontarsi storie” per mettersi in sintonia con la nuda realtà? Pochi. Crudele ma efficace l’allegoria di Alberto Bagnai: la sinistra dovrà risorgere dalle sue ceneri… quindi occorre darle fuoco”.

Questo “cattivo universalismo”, alias falso internazionalismo, è l’alibi col quale la gran parte della sinistra giustifica ancora oggi la permanenza nel regime dell’euro, figlio prediletto ma nato storpio della globalizzazione neoliberista.
Gli altreuropeisti ricorrono al più mendace realpoliticismo. Dicono: “l’Unione europea siccome oramai esiste,  sarebbe il solo campo da gioco in cui la sinistra potrà restare in partita”. Si tratta della versione aggiornata del risibile argomento del dentifricio e del tubetto. Non conta per essi che questo campo sia minato, ed a nulla serve ricordare loro che chi insegue un nemico più potente sul suo terreno va incontro a sconfitta certa.

Chiediamoci: davvero viviamo la fase storica della dissoluzione degli stati nazione? O non è forse vero che il riflusso dell’alta marea della globalizzazione neoliberista è destinato a far riemergere le entità statuali momentaneamente sommerse?

Se la crisi sistemica globale trova il suo epicentro in Europa è proprio perché quella, mentre travolge le costruzioni geopolitiche fallaci, rinforza quelle che hanno profonde radici storiche, economiche, spirituali e statuali. Come stanno rispondendo gli Stati Uniti alla crisi delle loro pretese egemoniche globali se non agendo come potente stato nazione? E come stanno reagendo le potenze concorrenti, grandi e piccole, se non considerando come non negoziabili le loro prerogative di nazioni sovrane —di qui il policentrismo? Forse che la riconquistata egemonia tedesca sull’Europa potrebbe spiegarsi prescindendo dalla prepotente rinascita della Germania come nazione? E non è forse, questa rinascita, una delle cause della tendenza all’implosione dell’Unione europea?

Luciano Barra Caracciolo, riferendosi alla Grecia, ha sottolineato l’assurdo paradosso per cui, mentre il dominante germanico vuole cacciare dall’Unione monetaria il dominato greco, quest’ultimo implora di restarci ad ogni costo. Abbiamo così che mentre le classi dirigenti tedesche, anche grazie all’euro, non esitano ad avanzare le loro pretese espansionistiche su quella che considerano loro periferia, le élite periferiche, italiane comprese, non solo abbracciano come salvifica la germanizzazione dell’Europa, maledicono i “populismi” in ascesa in quanto espressione di deprecabile “nazionalismo”.

Una sinistra che voglia davvero diventare in futuro maggioritaria, quindi guidare il Paese, è obbligata a rompere ogni vincolo con queste élite globaliste e le sue narrazioni, andando invece incontro, per dargli un contenuto democratico e socialista, al rinascente bisogno popolare di identità nazionale. Un sentimento che rappresenta un prezioso e imprescindibile fattore di resistenza al neoliberismo, anche perché si sposa a sua volta con la richiesta di più Stato, di quell’organismo che i dominanti vogliono sfaldare riducendolo a mero guardiamo notturno, mentre, proprio in quanto depositario della sovranità nazionale, i cittadini vorrebbero fosse una barriera difensiva per proteggersi dalle scorribande della finanza predatoria, dagli squali che tirano i fili dei mercati mondiali.

Lo sforzo per entrare in sintonia con gli strati più profondi del popolo, la critica all’intellettualismo, la proposta di una grande alleanza democratica e rivoluzionaria, la tesi che i lavoratori potranno vincere solo se sapranno diventare classe dirigente nazionale, l’assunto che solo che fa gli interessi della maggioranza ha titolo per presentarsi come difensore dell’interesse nazionale, l’idea del partito politico come moderno principe; questi a me paiono i più preziosi lasciti dell’opera di Gramsci, a dimostrazione che esistono radici ben più profonde e solide di quelle della sinistra post-moderna e globalista.

Emiliano Brancaccio ha fatto una profezia funesta. Egli ritiene che la sinistra antiglobalista sia talmente in ritardo che da questo marasma l’esito più probabile sarebbe la vittoria di forze reazionarie e xenofobe, se non apertamente neofasciste. Questo accadrà se noi non saremo in grado di costruire un partito politico in tempi stretti, un partito che oltre a dotarsi di un “piano B” per sganciarsi dalla morsa mortale dell’euro sappia indicare con quale blocco sociale esso potrà essere realizzato e la sovranità riconquistata. Solo un partito di questo tipo potrà occupare le praterie dell’indignazione sociale, fare coraggio al popolo lavoratore, convincere i cittadini all’impegno politico diretto, evitando le fascinazioni inconcludenti sui soggetti liquidi, gassosi, internettari.


Se è questo che si vuole davvero fare, le nostre modeste forze sono a disposizione.

1 commento:

  1. Alla fine, si vede che siamo polli dello stesso allevamento! Stesso articolo pubblicato qualche giorno fa sul mio blog. A presto

    RispondiElimina

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...