Un mutamento antropologico o
semplicemente un mutamento sociale che pone una revisione simbolica
nell’immaginario individuale.
Non è un’analisi seria, non ho
dati, ma solo sensazioni evocate dalla rilettura (molto frettolosa lo
ammetto) degli scritti di Comte e di Spengler, sull’evoluzione
ciclica delle società umane. È
un effetto che io vedo riflesso soprattutto nel cinema e nelle serie
televisive. L’eroe coevo è il prototipo del militare che ha
vissuto l’esperienza della guerra o il cavaliere solitario ed
errante, spia o ex militare delle forze speciali, che riassume la
caduta generale di senso della vita nel confronto individuale con le forze
oscure del mondo, sue nemiche semplicemente perché intolleranti a
qualsiasi anomalia di stampo anarco-individualista, viste come
ostacolo al nuovo ordine mondiale. Un nuovo eroe romantico segnato
dallo strazio dell’esperienza della guerra e dalla sofferenza
rivelatrice del nonsenso della teleologia. Assistiamo all’emergere
di un senso che sta tutto nell’identificazione con i simili a te
nel caso dei militari – il significato della vita è contenuto
unicamente nella condivisione del dolore e delle atrocità della
guerra - o in un’etica universale passata al vaglio del disincanto
dell’eroe solitario.
Insomma se fino a un paio di decenni fa l’eroe
era colui che anelava alla rivoluzione, guidato dalla forza
rivelatrice della dottrina, e da un ideale palingenetico volto alla
distruzione di una società decadente e dominata dall’interesse del
ricco sul povero, adesso l’eroe è colui che accarezza il
disincanto del pubblico, ma allo stesso tempo gli fornisce un
substrato di potenza e di ferina volontà di sopravvivenza pur
nell’assenza di valori. Siamo passati dal Che Guevara, eroe solare
portatore di un ideale di riscatto e speranza, all’oscurità
dell’eroe che si dimena nei suoi tormenti, ma che alla fine trova
la forza in se stesso o nel motto del suo corpo di appartenenza,
senza la necessità di aggrapparsi a un ideale o a un fine ultimo.
Non so se questa mia percezione
dell'immaginario collettivo sia il risultato del passaggio da un'era
“mitologica”, contrassegnata dalla prevalenza del mito come
motore di una società giovane e in evoluzione, oppure se anche
questo sia il frutto avvelenato della tanto decantata fine delle
ideologie del secolo breve, o se addirittura un mutamento così
radicale possa essere il risultato di una strategia premeditata (da
chi?) per annientare ogni senso contrario a una società basata sullo
sfruttamento e sul profitto, certo è che di giovani come quello che
è andato a combattere a fianco dei curdi a Kobane non ne vedo molti
(sbaglio?).
Alle volte credo che tutto questo non
sia nient'altro che la pausa fra il primo e il secondo tempo.
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