dal Blog di Gennaro Carotenuto
C’è un elemento nel voto presidenziale argentino, che porta alla Casa
Rosada il neoliberale duro e puro Mauricio Macri, sul quale non bisogna
smettere di porre l’accento. Dodici anni di governo di centro-sinistra,
a 32 anni dalla caduta dell’ultima dittatura, si sono conclusi con un
voto di ballottaggio tirato (51/49) e con una transizione come nelle
regole di una democrazia solida. Dopo un lungo ciclo progressista, ora è
il turno della destra. Sta a quest’ultima, non certo alla sinistra,
dimostrarsi matura per a) non vivere il ritorno al potere come mera
rappresaglia, riprivatizzazione, smantellamento del welfare,
retrocedendo anche in quelli che dovrebbero essere terreni condivisi
come i diritti civili, quelli umani, l’integrazione latinoamericana. b)
mantenere le condizioni di agibilità democratica per riconsegnare il
potere all’opposizione quando sarà il popolo a decidere, come sta
facendo, in pace e democrazia, la sinistra.
Sul punto a) Macri guarda a Washington più che a Brasilia, e ai
capitali finanziari invece che al Mercosur, e afferma che con lui
“finisce il clientelismo dei diritti umani” e il quotidiano La Nación
che già oggi chiede la fine dei processi per violazioni dei diritti
umani. Sul punto b) i suoi migliori amici e riferimenti culturali sono
la destra pinochetista cilena non rinnovata di Joaquín Lavín, l’ex
inquilino della Moncloa José María Aznar, sponsor del golpe del 2002 a
Caracas, e Álvaro Uribe, che minaccia di tornare di concerto con un
inquilino repubblicano alla Casa Bianca per far fallire il processo di
pace in Colombia. Sarà quindi bene vigilare che questa destra, che ha
dimostrato nelle sindacature Macri a Buenos Aires di usare
sfacciatamente la repressione violenta della protesta sociale, sia
capace di non smantellare anche il sistema democratico come farà con lo
stato sociale. Torneranno infatti le politiche monetariste, dettate
dall’FMI, analoghe a quelle imposte dalla dittatura e indurite dal
menemismo, che resero quella sterminata pianura fertile che è
l’Argentina, dove ancora nel 1972 vigeva la piena occupazione, una terra
desolata di indigenza e denutrizione per i più e un paradiso per pochi,
la cosiddetta farandula, che non ha mai smesso di controllare i media e ora pronta a tornare al potere.
Il kirchnerismo ha molti meriti storici. Ha tirato fuori il paese da
una crisi esiziale, recuperato il ruolo dello Stato, stabilito una
politica dei diritti umani modello, e avanzato nei diritti civili come
in Italia possiamo solo sognare, rilanciato un welfare indispensabile e
ridisegnato il futuro del paese (Qui su Néstor, qui a dieci anni dal default, qui il bilancio dopo il primo turno,
col facile vaticinio sulla debolezza di Scioli, molto altro sul sito).
Ancora tre giorni fa il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz
ricordava che: “L’Argentina ha molto da insegnare al mondo ed è uno dei
pochi casi di successo nella riduzione di povertà e disuguaglianza dopo
la crisi”. Sono proprio quelle perfettibili politiche di integrazione
che Macri vuole smantellare da domani, rappresentandole -è la visione
del gorillismo tradizionale della classe media- come intollerabili
sussidi clientelari, che alimentano il parassitismo popolare, ma che
hanno permesso per esempio all’Argentina di essere uno dei pochi casi di
successo di lotta all’abbandono scolastico del sottoproletariato
urbano. Tutto passa, todo cambia, sono stati anche anni di errori,
debolezze, inefficienze, corruttele, ipocrisie, sconfitte chiare, come
quella ambientale e quella sulla riforma fiscale, ciclicità economiche
(l’Argentina è stata una tigre, ora non lo è più), il bombardamento
d’odio e menzogne durato 12 anni da parte del mainstream come e peggio
che per gli altri governi di centro-sinistra, che non ha scalfito il
rispetto che merita Cristina Fernández, che esce dalla casa Rosada con
un consenso e un indice di approvazione maggiore di quello dei due
rivali di ieri.
Non va sottovalutata la questione leader in un Continente
caratterizzato dal sistema presidenziale. Quando devi gestire
l’esistente, in genere da destra, cambiare un presidente è poca cosa. Se
il presidente finisce per incarnare un processo storico popolare (penso
a Evo Morales) allora la caducità biologica e politica è uno scacco e
un vantaggio enorme per la controparte. La precoce uscita di scena di
Néstor e Hugo Chávez, ma anche di Lula e Cristina, sono colpi che, anche
un movimento popolare forte, non può parare con uno Scioli e forse
neanche con dirigenti consolidati, forti di un’investitura come Rousseff
o Maduro. Altri leader popolari verranno, tra le migliaia di quadri che
si stanno formando non tutti accecati dal carrierismo, forse sono un
male necessario.
Quella argentina è dunque una prima breccia che si apre (faccia
eccezione l’effimero Fernando Lugo in Paraguay e Mel Zelaya in Honduras,
entrambi rovesciati da golpe più o meno tradizionali) nello
straordinario processo vissuto in particolare dall’America latina
atlantica nel corso degli ultimi tre lustri, e che faceva seguito al
fallimento, etico prima ancora che economico, del neoliberismo
realizzato e che ha riportato al dibattito pubblico le ragioni
dell’uguaglianza e della giustizia sociale oltre al rafforzamento di un
progetto d’integrazione regionale difficilmente cancellabile qual che
sia la volontà dei nuovi governanti. Almeno sul lungo periodo, è
necessario non sopravvalutare il valore della sconfitta elettorale come
era necessario essere prudenti sull’esistenza di un’egemonia
progressista. Di cambi di campo ne verranno altri, è difficile
dubitarne, ma sarebbe un errore di valutazione parlare di mero ritorno
al passato.
Il
neoliberismo fu imposto al continente negli anni Ottanta in assenza di
un campo popolare sbaragliato dalle dittature, nella fine del socialismo
reale e nel dogmatismo di un “pensiero unico” allora senza alternativa.
Quel 49% che ha votato obtorto collo per Daniel Scioli, spesso solo per
paura di Macri, e quelle enormi minoranze che domani potrebbero esserci
in altri paesi, sono una sinistra nuovamente strutturata intorno a una
visione di futuro spesso più avanzata di quella degli stessi governi
integrazionisti. Questi, nel corso degli anni, hanno spesso dovuto
venire a patti con un modello di sviluppo che resta malato, in
particolare rispetto all’agroindustria, al settore minerario, alle
schiavitù da monocultura, retaggio coloniale e dell’aver perso il treno
dello sviluppo industriale e a tutto quello che, creando profitti, ha
permesso di sostenere gli enormi investimenti in welfare di questi anni.
I movimenti sociali, quelli che all’inizio del secolo hanno scritto
la storia del Continente, partendo dai bisogni reali delle masse
popolari (contadine, indigene, il sottoproletariato urbano) e sono stati
protagonisti insieme ai governi del rifiuto dell’ALCA che Bush voleva
imporre, hanno spesso vissuto con difficoltà la sindrome del governo
amico, apprezzato, criticato, capace di cooptare non sempre in maniera
limpida, ma col quale stabilire un dialogo tale da espungere la violenza
politica e di piazza da una parte e dall’altra. Adesso inizia una nuova
storia, si può tornare a riflettere sulle insipienze dei governi
progressisti (per esempio sulla sinonimia consumatori/cittadini e sulla
necessità di ripensare il rapporto sviluppo/ambiente) ma quell’energia
creativa può tornare a liberarsi scevra da tatticismi. L’Argentina,
l’America latina, deve preoccuparsi e mobilitarsi contro il ritorno di
politiche neoliberali già provatamente fallimentari, contro l’erosione
di diritti e contro l’estensione del triste destino di narcostati che
tocca a parti fondamentali del corpo della Patria grande, come il
Messico. Con Mauricio Macri il “pensiero unico” torna al potere, ma in
quanto tale è morto e sepolto.
lunedì 23 novembre 2015
Argentina, la restaurazione neoliberale di Mauricio Macri. La fine del mondo?
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